6
comunicativi quali la fotografia e la ripresa cinematografica, pone come 
motore dell’azione narrativa l’atto violento e criminoso.  
In questo contesto il “fattaccio” di cronaca costituisce la base reale da cui 
scaturisce una speculazione fantastica che porta alla spettacolarizzazione 
dell’evento attraverso la pubblicazione di articoli e fotografie riguardanti il 
delitto e il processo, volta non solo a catturare l’interesse di un pubblico, 
sempre più “popolare”, ma a creare uno spazio virtuale di 
confronto/riaffermazione dei luoghi comuni che caratterizzano la cultura 
sociale 
Il presupposto teorico su cui si fonda quest’analisi della strage di Via San 
Gregorio è che la narrazione di fatti di cronaca nera, alimentandosi degli 
archetipi propri di parte della cultura persecutoria occidentale, le cui 
espressioni vanno dalle narrazioni mitologiche della tragedia greca agli 
spettacoli di morte e persecuzione della società moderna fino ai racconti di 
amore e morte dell’Ottocento romantico, costituisca uno dei momenti della 
vita pubblica in cui la società rifonda il proprio sistema di valori e riafferma 
i luoghi comuni della cultura politica collettiva. 
L’evento storico non è dunque l’atto criminoso in sé, nella fattispecie il 
crimine di Caterina Fort, ma la narrazione del fatto stesso attraverso i 
racconti elaborati dai media. Gli articoli pubblicati sui quotidiani, e che non 
a caso riportano una delle firme più prestigiose del panorama narrativo 
italiano del dopoguerra, quella di Dino Buzzati, costituiscono, perciò, la 
fonte privilegiata di questo studio. L’interesse dei nuovi media per il caso 
rimane ancora del tutto occasionale: i due cinegiornali che si occupano del 
delitto Fort al momento del processo di Appello e di Cassazione non fanno 
altro che riprodurre la retorica della carta stampata che invece resta lo 
strumento che, proprio nell’interessarsi della strage di Via San Gregorio, 
rinnova maggiormente se stesso, sperimentando nuove formule di 
  
7
accostamento di parola e immagine. Stampa e fotografia, ma anche la 
ritrattistica rintracciabile nelle copertine della “Domenica del Corriere”, 
sono i canali privilegiati per la narrazione del delitto Fort. La vicenda di 
Caterina Fort si configura, dunque, come il terreno di sperimentazione di 
nuovi prodotti editoriali come il rotocalco e il settimanale di 
approfondimento.  
Certamente le origini del genere sono da rintracciarsi nel periodo 
precedente alla guerra, nelle formule sperimentate dall’”Omnibus” di 
Longanesi, dalle riviste femminili come “Rakam” e “Annabella”, ma è nel 
dopoguerra, con il costituirsi di un nuovo pubblico femminile, referente 
privilegiato di una sempre più ampia e attenta produzione editoriale, che il 
fenomeno si evolve e assume parte delle caratteristiche riscontrabili ancora 
oggi. Un dato storico rilevante: la nascita del fotoromanzo per iniziativa 
della casa editrice milanese Universo nel 1946. Proprio Milano è, infatti, la 
capitale di una nuova editoria in cui personaggi come Angelo Rizzoli e 
Arnoldo Mondadori «facevano a gara a raggiungere [...] le case di tutti gli 
italiani con un’editoria sempre più incline a diventare di massa
2
». 
La storia di Caterina Fort passa, dunque, per i «fototesto» di “Tempo”, per 
le copertine della “Domenica del Corriere”, per le inchieste di “Oggi”. 
Tramite questi canali raggiunge un pubblico più ampio di quello dei 
quotidiani d’informazione. Per questo pubblico sperimenta nuove forme 
grafiche, utilizza un linguaggio moderno, elabora contenuti specifici, 
contribuisce a creare quella cultura politica collettiva che la società cerca 
nella spettacolarizzazione del crimine di Rina Fort. 
In questo processo, il contenuto centrale da trasmettere e rifondare è 
proprio l’immagine del femminile. La narrazione del delitto di Caterina 
                                                 
2
 Giafranco PETRILLO, Lo scontro per il nuovo modello di sviluppo, in Storia d’Italia, Le regioni 
dall’unità a oggi. La Lombardia, Einaudi, Torino, 2001, cit. p. 1007 
  
8
Fort si sviluppa sulla contrapposizione fra la figura dell’assassina e il volto 
della vittima, Franca Pappalardo: amante diabolica e crudele la prima, 
moglie e madre feconda la seconda. 
Uno stereotipo antico quello del conflitto fra la donna perduta e la moglie-
madre istituzionale, archetipo della cultura europea risalente alla 
contrapposizione mitica fra Maria e Maddalena, rafforzato, però, da quella 
retorica nazionalista, diffusasi a cavallo fra Settecento e Ottocento che 
identifica nel corpo femminile il territorio sacro della nazione
3
.  
Nell’Italia risorgimentale tale identificazione si era realizzata, da un lato, 
nell’elaborazione del «mito di una figura materna, emblema del sentimento 
nazionale che unisce tutti i suoi figli in un vincolo di fratellanza
4
»; 
dall’altro nell’icona della donna in armi che, spesso celata dietro divise 
maschili, combatte e si sacrifica per l’onore della nazione
5
. Donna, dunque, 
madre e madrepatria, ma anche eroina carnefice e sanguinaria. Da queste 
due immagini contrapposte del femminile scaturiscono i rispettivi racconti 
mitici, ma possiamo propriamente parlare di archetipi, che caratterizzano la 
visione della donna nella cultura occidentale: Medea e Ecuba, Circe e 
Penelope, Giovanna d’Arco e Ginevra, la figura ambivalente di Clorinda 
nella “Gerusalemme Liberata” di Tasso.  
Questo bifrontismo del femminile sorge nell’Italia risorgimentale del 
secondo Ottocento, attraversa la retorica dell’Italia liberale, si esaspera 
negli anni della prima guerra mondiale sino a giungere alla massima 
esaltazione durante il fascismo, in grado di affiancare l’immagine più 
conservatrice della donna moglie-madre e l’icona più avanguardista della 
donna militarizzata nelle vesti da piccola italiana. Il legame tra le due 
figure è rintracciabile nella logica del sacrificio di cui è 
                                                 
3
 cfr. Alberto Maria BANTI, L’onore della nazione, Einaudi, Torino, 2005 
4
 
4
 Marina D’AMELIA, La mamma, Il Mulino, Bologna, 2005, cit. p. 88 
5
 cfr. Ivi pp.89-90 
  
9
imprescindibilmente impregnata l’immagine femminile: il sacrificio dei 
propri figli, l’estremo sacrificio di se stessa. 
Quali tratti assumono questi due stereotipi all’indomani della seconda 
guerra mondiale dopo la traumatica esperienza della guerra di 
occupazione? La narrazione della vicenda di Caterina Fort fornisce degli 
spunti interessanti. “Vicenda” quella di Caterina Fort perché la sua 
narrazione va oltre gli eventi legati al delitto: Rina Fort non è soltanto la 
carnefice di un’intera famiglia, ma, soprattutto al momento del processo, 
l’eroina di un’avventura tragica e sfortunata. Nella sua immagine, non solo 
la negazione del modello positivo di identificazione madre prolifera – 
madrepatria, ma l’affermazione dell’icona della donna in armi in cui una 
parte del pubblico femminile si riconosce, come dimostra la volontà di 
emulazione della donna da parte di molte giovani che la elevano a modello 
estetico, imitandone particolari dell’abbigliamento.  
Su entrambi gli atteggiamenti domina l’identificazione collettiva della 
nazione nella figura della donna ingenua, sedotta e abbandonata (questo è, 
infatti, il destino di entrambe le protagoniste della vicenda) così come si 
riconosce ingannata e delusa l’Italia dopo la grande illusione mussoliniana. 
Un Mussolini – Ricciardi (il marito, amante) affascinante e ingannatore, 
che crede nel ruolo conservatore della famiglia, rappresentato dalla moglie 
Franca Pappalardo, ma che si fa attrarre dal fascino esotico della relazione 
extraconiugale con una donna giovane e disinibita. In entrambi i casi, 
l’evento politico e la sua metafora, l’epilogo è tragico: il barbaro massacro 
di innocenti e il sacrificio, questa volta infecondo, del modello positivo 
della madre - madrepatria.  
Se, però, nel momento del delitto, il sacrificio è quello della madre 
prolifera, nel momento del processo sarà la stessa Caterina Fort a fungere 
da capro espiatorio: come la Clorinda di Tasso, abbandonerà le vesti 
  
10
mostruose del carnefice per indossare quelle della donna ingenua e 
sfortunata, segnata da un destino avverso, ingannata da un mondo di 
illusioni. Con la sua condanna che sancisce da un lato il rifiuto definitivo 
della donna in armi, ma dall’altro perdona ed assolve sul piano umano, si 
conclude la vicenda di Caterina Fort e il periodo scandito dai grandi 
processi contro i criminali di guerra, durante il quale l’Italia repubblicana 
ha tentato di catalizzare gli orrori di oltre un ventennio di violenza. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
11
Capitolo primo 
 
IL DELITTO 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Milano, sabato, 30 novembre 1946  
Una donna sale le scale che portano al primo piano dello stabile al numero 
40 di via San Gregorio. Siamo a Milano, nella zona compresa fra la 
Stazione Centrale, Piazzale Loreto e i bastioni di Porta Venezia. Prima 
della guerra, questo era stato un quartiere di mercanti abitato in prevalenza 
da ebrei. Durante l’occupazione tedesca, i continui rastrellamenti l’avevano 
reso un terreno infido per i suoi abitanti e il quartiere si era svuotato. A 
popolarne nuovamente le vie erano giunti nuovi immigrati, provenienti dal 
meridione di Italia, che già durante gli anni della guerra, anticipando il 
grande fenomeno di massa che avrebbe caratterizzato gli anni della 
ricostruzione, avevano iniziato la marcia verso il nord. Ecco la descrizione 
di queste strade nelle parole di Buzzati, in quel dicembre 1946: 
 
San Gregorio, Carlo Tenca, Settembrini, Boscovich, Settala, Panfilo Castaldi, 
Felice Casati, Lazzaro Palazzi, neppure nelle grandi giornate di primavera 
queste strade sanno essere allegre. Qui d’inverno l’asfalto è bagnato anche 
senza pioggia, le case sono grigie ed eguali e alla primissima alba cominciano 
a rombare i «camion» degli spedizionieri. Proprio questa ingrata e grave 
Milano – non il Duomo, né Borgonuovo, né Sant’Ambrogio, né l’Arco della 
                                                 
6
 Curzio MALAPARTE, La pelle, Oscar Mondadori, Milano, 2005, p.10 
Mentre i prezzi dello zucchero, dell’olio, 
della farina, della carne, del pane, erano 
saliti, e continuavano ad aumentare, il 
prezzo della carne umana calava di giorno 
in giorno
6
. 
  
12
pace – sognano i piccoli mercanti del Sud, sulla soglia della loro casa tra gli 
aranci, disponendosi a partire
7
.  
 
 
È dunque un quartiere popolare, dove gli interventi della polizia sono 
frequenti, poiché spesso traffici legali e illegali si confondono. È anche il 
quartiere della borsa nera, mercato ancora fiorente negli anni della penuria 
dell’immediato dopoguerra. Manca tutto a Milano in quell’inverno del 
1946: dal pane bianco agli alloggi per gli sfollati che tornano in città, dalla 
legna per riscaldare le case alle stoffe per gli abiti e le coperte.  
Pinuccia Somaschini sta salendo le scale che la conducono 
all’appartamento del suo titolare di lavoro, Giuseppe Ricciardi, anch’egli 
immigrato dalla Sicilia a Milano nel 1943 e proprietario dell’omonimo 
magazzino di tessuti sulla via Carlo Tenca. Giuseppina è impiegata come 
commessa presso il negozio e quella mattina sta recandosi 
nell’appartamento del signor Ricciardi per ritirare le chiavi del magazzino. 
Il padrone è, infatti, partito per Prato la sera precedente a causa di un 
impegno di lavoro e le ha lasciato l’incarico di ritirare le chiavi dell’attività 
la mattina seguente, presso il suo appartamento nelle vicinanze del negozio. 
Sono quasi le nove. Giunta al piano, la Somaschini nota che la porta 
dell’appartamento è socchiusa. Bussa. Chiama la signora Franca, moglie 
del Ricciardi, che dovrebbe consegnarle le chiavi. Nessuno risponde. 
Spinge la porta. Ai suoi piedi, in una pozza di sangue è riverso Giovanni, il 
primo figlio della coppia. Poco distante da lui giace a terra la signora 
Franca. Giuseppina scende le scale, corre in cortile e quindi in strada per 
chiamare aiuto. 
                                                 
7
 Dino BUZZATI, Addio, anime innocenti!, in “Corriere d’informazione”, edizione pomeridiana, Milano, 
14-15 dicembre 1946, riportato anche in La «nera» di Dino Buzzati. Crimini e misteri, a cura di Lorenzo 
Viganò,  I edizione, Oscar Mondadori, Milano, 2002, p.55 
  
13
 
La cronologia dei fatti immediatamente successivi è poco chiara. Secondo 
quanto riportano i resoconti e i quotidiani dell’epoca, sul luogo del delitto 
giunsero prima i giornalisti della polizia. Un fotografo, Giuseppe Palmas, 
riuscì a scattare le prime fotografie del delitto che finirono sulle pagine 
dell’edizione pomeridiana dei giornali. Solo in seguito gli uomini della 
questura isolarono lo stabile e l’intera via per i primi sopralluoghi. Si scoprì 
solo allora la vera entità della strage: nell’appartamento dei Ricciardi in via 
San Gregorio 40 erano stati massacrati, probabilmente a colpi di spranga, la 
signora Franca Pappalardo, di quarant’anni, e i suoi tre figli, Giovanni di 
sette, Giuseppina di cinque e il piccolo Antonio di dieci mesi. La signora 
Pappalardo si trovava in stato interessante. 
 
L’arresto 
Quando arrivò la polizia, una folla era raccolta davanti allo stabile di Via 
San Gregorio: gli agenti dovettero formare un cordone per tenere lontani i 
curiosi. Gli abitanti della casa vennero bloccati nei loro appartamenti, la 
portineria divenne il posto di comando delle operazioni. Vennero raccolte 
le prime informazioni e interrogati gli abitanti del palazzo: la vicina di casa 
dei Ricciardi, Rosetta Boschetti, la portinaia dello stabile, Maria Terzi. 
Entrambe riferirono di non aver né visto né udito l’assassino o gli assassini, 
introdottisi nello stabile attraverso un portoncino rimasto aperto a causa 
della serratura non funzionante da mesi. Riportarono, inoltre, alcuni 
dettagli interessanti riguardo la vita della famiglia Ricciardi, dettagli che 
trovarono conferma in altre testimonianze raccolte nel palazzo e nel 
quartiere e che indirizzarono rapidamente il corso delle indagini.  
D’altra parte i sopralluoghi consentivano di formulare le prime ipotesi. 
L’appartamento dei Ricciardi era una dimora modesta di esigue 
  
14
dimensioni. Data la scarsità di legna, come molte altre abitazioni del 
quartiere, l’appartamento non era riscaldato, come testimoniavano i 
cappotti e gli abiti pesanti indossati dalle vittime. I residui di cibo rinvenuti 
sul pavimento suggerivano che la signora Franca e i suoi tre bambini erano 
stati sorpresi dall’assassino appena dopo cena. Tre bicchieri sporchi di 
liquore, ritrovati sul tavolo del soggiorno, consentivano poi di ipotizzare 
che la signora Ricciardi conoscesse gli assassini: aveva aperto la porta e 
aveva offerto loro del liquore.  La casa era modesta, quasi nulla era stato 
trafugato, se non alcuni gioielli di poco valore. Tutto era stato messo però 
in disordine, forse allo scopo di simulare un furto. A ciò si aggiungeva 
l’ingiustificato omicidio del più piccolo dei bambini: era stato un atto di 
violenza gratuita poiché il piccolo mai avrebbe potuto testimoniare contro 
gli assassini. Gli inquirenti esclusero, quindi, da subito l’ipotesi di una 
rapina per mano di malviventi comuni: l’omicida era una persona nota alla 
signora Ricciardi e aveva agito per ragioni personali.  
I dati ricavati dai primi sopralluoghi e le testimonianze della gente del 
quartiere indirizzarono le indagini: c’era solo una persona che avrebbe 
potuto avere motivo di massacrare con tanta ferocia la moglie e i figli di 
Giuseppe Ricciardi. Era l’amante dell’uomo, gelosa del recente arrivo da 
Catania di Franca Pappalardo e dei suoi bambini che aveva determinato il 
ricongiungimento del Ricciardi  con la famiglia. 
Caterina Fort, impiegata da pochi mesi in una pasticceria in via Settala 43, 
venne arrestata intorno alle dieci presso la sua abitazione in via Mauro 
Macchi 89 a pochi minuti di distanza dall’appartamento dei Ricciardi. La 
donna non oppose alcuna resistenza agli agenti e accettò di buon grado le 
domande della polizia. 
  
15
Gli interrogatori 
Immediatamente dopo l’arresto, Caterina Fort venne condotta a casa dei 
Ricciardi, davanti alla quale si accalcava una folla numerosa, quindi, senza 
che vedesse i cadaveri delle vittime e constatata la sua reticenza a fornire 
elementi riguardo l’accaduto, fu portata in questura e messa in guardina 
con altre due detenute. Gli interrogatori iniziarono solo nel tardo 
pomeriggio. Furono condotti da diversi personaggi, sotto il coordinamento 
del commissario dottor Di Serafino. Secondo quanto testimoniato dalla 
stessa Fort questi primi interrogatori ebbero solo carattere informativo e 
non furono oggetto di nessuna trascrizione ufficiale
8
. Costituirono 
semplicemente materia per gli articoli redatti dai numerosi giornalisti, che 
si accalcavano in questura.  
Per la ricostruzione dei giorni successivi al delitto durante i quali si 
svolsero gli interrogatori disponiamo di due fonti significative: gli articoli 
riportati dai giornali e la stessa testimonianza di Caterina Fort, trascritta dal 
suo avvocato, Antonio Marsico, in una pubblicazione edita dallo stesso 
Marsico nel 1949 al termine della fase istruttoria. 
Secondo quanto riportato, il sabato primo dicembre Caterina Fort venne 
ripetutamente sottoposta a una serie di interrogatori volti ad accertare la 
natura dei rapporti che la legavano al Ricciardi. Rapporti di lavoro, in un 
primo tempo, poi una vera e propria relazione che aveva portato l’uomo a 
trasferirsi nell’appartamento della Fort in via Mauro Macchi.  
La svolta nel corso degli interrogatori avvenne però la domenica due 
dicembre quando l’indagata accompagnò i poliziotti prima nel proprio 
appartamento e poi nella casa di via San Gregorio. Il resoconto fatto dalla 
Fort del sopralluogo delle forze dell’ordine nel proprio appartamento 
                                                 
8
  Antonio MARSICO, Il delitto di Rina Fort e gli insegnamenti del suo processo, Unione tipografica, 
Milano, 1949, pp.33-46 
  
16
riferisce alcuni particolari interessanti che saranno materia di ispirazione 
per i numerosi quotidiani e riviste che si occuperanno del caso nei giorni 
successivi. Si parla di una radio lasciata accesa, dei resti di un pasto 
consumato probabilmente immediatamente dopo la strage, di tamponi 
sporchi del sangue della stessa Caterina, indisposta in quei giorni a causa 
del ciclo mestruale. Un tampone da donna era, infatti, stato ritrovato anche 
nella bocca del piccolo Antonio: l’assassino, o come più probabile 
l’assassina, l’aveva usato per soffocarlo.  
Del ritorno sul luogo della strage narrano a lungo i quotidiani e la riviste. Il 
Corriere della Sera del tre dicembre riporta:  
 
una folla di qualche migliaio di persone si era raccolta presso il luogo della 
tragedia, animata dal proposito di fare giustizia sommaria dell’assassina. Fu 
necessario un imponente spiegamento delle forze di polizia per salvare la 
Fort dal linciaggio
9
. 
 
Sono molti gli articoli che riportano la presenza di una folla pronta al 
linciaggio in attesa dell’ingresso della Fort nella casa della tragedia. Pochi, 
di fatto, i nuovi elementi riscontrati da questo secondo sopralluogo. La Fort 
appare confusa, tanto quanto lo sono i dati riportati dalla stampa. Ogni 
articolo si sofferma su un particolare diverso e riordina la cronologia dei 
fatti. Tutti concordano d’altra parte nell’additare Caterina Fort come la 
belva di via San Gregorio.  
Solo nella serata di domenica due dicembre iniziano gli interrogatori 
ufficiali. A condurli si alternano tre personaggi principali, il commissario 
dottor Di Serafino, il commissario dottor Nardone, il vice questore Cassarà 
e una serie di agenti anonimi, di cui la Fort riporta solo le violenze e le 
                                                 
9
 La belva umana ricondotta nella tragica casa di via San Gregorio, in “Il Corriere della sera”, 3 
dicembre 1946 
  
17
minacce. Fuori dalla stanza dove avvengono gli interrogatori continua ad 
accalcarsi una folla di giornalisti e fotografi, a certificare il fatto che la 
cronaca nera e tutti i suoi risvolti non appartengono più a un mondo 
interdetto all’occhio dell’informazione. Tra loro c’è anche Giuseppe 
Palmas che scatterà le prime foto a Caterina Fort, stremata dopo le 
diciassette ore di interrogatorio, e che faranno il giro di tutti i quotidiani e 
le riviste del periodo. Con il caso Fort, Giuseppe Palmas inaugura quella 
collaborazione con la questura di Milano e il mondo delle istituzioni che gli 
consentirà di fare alcuni degli scoop più importanti del dopoguerra, fra cui 
l’omicidio di Pia Bellentani, di qualche anno dopo. Giuseppe Palmas 
rappresenta dunque quel nuovo modo di far giornalismo, e soprattutto 
cronaca nera, inaugurato dal caso Fort e che diventerà un vero e proprio 
genere editoriale apprezzato dal pubblico, come ci mostrano gli esordi delle 
carriere di Dino Buzzati e di Vasco Pratolini, dei cui articoli tratteremo in 
modo più approfondito nel secondo capitolo. 
L’interrogatorio alla Fort si svolge secondo i canoni ufficiali del racconto 
poliziesco americano in voga in quegli anni: Caterina, così come i 
quotidiani, raccontano della classica lampada da tavolo la cui luce abbaglia 
gli occhi dell’indagata; i commissari, il vice questore vengono descritti 
come educati, professionali, persuasivi, quasi paterni; la violenza, gli 
schiaffi, i calci, gli insulti e le minacce di fucilazione («verranno i soldati e 
ti faremo fucilare» riporta la Fort
10
) sono invece appannaggio degli agenti 
anonimi, dei secondini, dei poliziotti qualunque. Alle cariche ufficiali, 
dunque, il “lavoro pulito”, ai semplici poliziotti quello “sporco”. 
Diciassette ore consecutive dura il primo interrogatorio. Cosa confessa 
Caterina Fort dopo queste diciassette ore di interrogatorio? Quello che 
                                                 
10
 MARSICO, Il delitto di Rina Fort e gli insegnamenti del suo processo, pp.33-46 
 
  
18
aveva gia fatto trapelare nei precedenti interrogatori informali: di essere la 
responsabile dell’omicidio della Pappalardo e di Giovanni, ma non dei due 
bambini più piccoli. Da questo momento in poi si delinea quello che 
diventerà l’elemento chiave della difesa della Fort: la donna non avrebbe 
agito da sola, ma con l’aiuto di un uomo, un tale Carmelo, il cui livello di 
responsabilità varierà ripetutamente nel corso dei giorni delle indagini e del 
processo, dal ruolo di autentico istigatore del delitto a quello di mero 
collaboratore.  
Fino alla sua morte Caterina Fort insisterà sulla presenza di Carmelo, del 
quale, però, oltre al nome e a un imprecisato rapporto di parentela con il 
Ricciardi, non sarà mai in grado di riferire altro elemento. 
Il merito della confessione della Fort verrà attribuito all’intero pool di 
poliziotti che condussero gli interrogatori. Solo negli anni ’70, all’apice 
della sua carriera, tale merito diverrà invece assegnato completamente 
all’abilità di Nardone, a testimonianza dell’ormai leggendaria capacità del 
commissario di rapportarsi con i criminali. 
Questa sarà comunque soltanto la prima delle confessioni della Fort. Nelle 
giornate del tre e del quattro dicembre, la Fort, sottoposta a continui 
interrogatori, ritratterà ripetutamente, fino a giungere alla totale 
ammissione del delitto: «Li ho ammazzati tutti!
11
» titola il Corriere della 
Sera del cinque dicembre aggiungendo, «Caterina Fort ha firmato il verbale 
di confessione
12
». Il primo punto della vicenda è dunque risolto nel giro di 
pochi giorni: prima ancora della festa per il santo patrono della città, la 
strage di via San Gregorio ha trovato il suo responsabile: l’assassina è stata 
individuata ed è rea confessa. 
                                                 
11
 Li ho ammazzati tutti!, in “Il Corriere della sera”, Milano, 5 dicembre 1946 
12
 Ibidem 
  
19
Da questo momento in poi i riflettori vengono puntati su più elementi. 
Naturalmente Caterina Fort rimane il fulcro della vicenda: su di lei si 
concentra l’attenzione della stampa, alla continua ricerca di particolari della 
sua vita che consentano di tratteggiare in modo romanzesco il ritratto 
dell’assassina. D’altra parte, anche Giuseppe Ricciardi, rientrato a Milano e 
immediatamente trattenuto dalle forze dell’ordine, è ora al centro della 
scena: di lui si discute lo «strano contegno
13
», mostrato all’ingresso 
nell’appartamento di via San Gregorio il giorno successivo alla strage, e 
delle attenzioni rivolte nei confronti della ex-amante al momento 
dell’incontro fra i due. Si parla di un caloroso abbraccio e sempre il 
Corriere della Sera del sette dicembre titola: «Diedero al Ricciardi una 
coperta, rispose: “Portatela a lei!”
14
 ». A ciò si aggiunge la notizia, riportata 
puntualmente dal quotidiano di via Solferino tre giorni più tardi, della 
richiesta di autorizzazione a riaprire il negozio fatta dal Ricciardi al 
magistrato. Certo l’indifferenza mostrata davanti alla morte dei propri cari, 
l’interesse per la sorte dell’amante, la fretta di riprendere i propri affari non 
contribuiscono a conferire credibilità all’immagine del marito distrutto dal 
dolore. Si apre l’ipotesi del Ricciardi complice, se non addirittura vero e 
proprio architetto del delitto, uomo di mal affare, traditore della fedeltà 
coniugale, in combutta con un’amante balorda per organizzare 
l’eliminazione della famiglia e forse anche ideatore di un losco piano per 
tutelare gli affari, ormai in crisi, del negozio di tessuti.  
La comparsa sulla scena del Ricciardi come possibile complice o ideatore 
della strage non riuscì comunque a migliorare la posizione della Fort, che 
mai sarà considerata come la donna ingenua e innamorata macchiatasi di un 
                                                 
13
 Io ho parlato ora tocca a te dice Rina al marito dell’uccisa, in “Il Corriere Lombardo”,  2-3 dicembre 
1946 
14
 Diedero al Ricciardi una coperta, Rispose: “Portatela a lei!”, in “Il Corriere della sera”, 7 dicembre 
1946