VI
dall’assenso alla richiesta saudita di ricevere quattro aerei AWACS, consegnati pochi giorni dopo 
l’inizio della guerra, gli Stati Uniti manifestarono una chiara preferenza verso il campo arabo e 
un’ostilità verso Khomeini: dichiararsi neutrali e, al contempo, fornire supporto radar ad un paese 
dichiaratamente alleato dell’Iraq era infatti una contraddizione in termini. 
La perdita integrale dell’influenza americana sulla sponda occidentale del Golfo persico 
seguita alla caduta dello scià nel 1979, costituì un pesante smacco politico per gli Stati Uniti, tale da 
spingere l’amministrazione Reagan, insediatasi all’inizio del 1981, ad osservare con preoccupazione 
crescente gli sviluppi della guerra Iran-Iraq, sempre più sfavorevoli per l’Iraq a partire dal 1982.  
In concomitanza con i primi rovesci militari di Saddam Hussein, perciò, il dipartimento di 
Stato rispose con l’eliminazione dell’Iraq dall’insieme dei paesi che gli Stati Uniti indicavano quali 
fiancheggiatori del terrorismo, non senza provocare dure critiche da parte del Congresso: Capitol 
Hill era infatti assai meno indulgente dell’amministrazione Reagan verso i legami tra l’Iraq e il 
terrorismo, e tentò a più riprese di reinserire il regime di Saddam nella lista nera di Washington. 
Le riserve del Congresso sul presunto allontanamento di Saddam dal terrorismo di matrice 
palestinese continuarono negli anni successivi, fino a sfociare periodicamente in aperte critiche sia 
quando l’amministrazione prese alcune decisioni imbarazzanti (la vendita all’Iraq di prodotti dual-
use), sia quando si verificarono gravi episodi che videro coinvolto l’Iraq: la protezione offerta ad 
Abu Abbas, il capo del commando che dirottò l’Achille Lauro e uccise un ostaggio americano, e 
l’arresto di due terroristi sbarcati all’aeroporto di Fiumicino da un aereo partito da Baghdad furono 
quelli più clamorosi. Entrambi i casi si verificarono nell’ottobre 1985, cioè quattro mesi dopo che il 
Committe of Conference del Congresso, dietro forti pressioni di Shultz, aveva accettato di far 
decadere il disegno di legge già approvato dalla Camera e volto a reinserire l’Iraq nella lista nera. 
In cambio del ritiro dell’emendamento, il segretario di Stato promise di rimettere l’Iraq nella 
lista se questo fosse risultato implicato nell’appoggio di gruppi terroristici o in azioni di terrorismo. 
Ma dopo la crisi dell’ottobre 1985 non avvenne nulla di tutto ciò.  
In sostanza, l’esclusione dell’Iraq dalla lista nel 1982 fu la premessa irrinunciabile all’avvio 
di un dialogo tra pari e della cooperazione tra l’amministrazione americana e il regime di Baghdad. 
In questo modo, un anno e mezzo dopo, il dipartimento di Stato fu in grado di compiere i primi 
passi ufficiali per avviare l’Operazione Staunch, una vasta campagna internazionale condotta dagli 
Stati Uniti presso gli alleati europei e mondiali al fine di spingerli ad interrompere qualsiasi vendita, 
legale o meno, di armamenti al regime di Khomeini. Concordata con gli iracheni, l’Operazione 
Staunch ebbe un impatto negativo sulla capacità dell’Iran di proseguire la guerra perchè bloccò il 
rifornimento e il ricambio di armi occidentali. In breve, essa coincise con il primo effetto tangibile 
del sostegno americano allo sforzo militare di Baghdad.  
 VII
Agli occhi degli iracheni, l’impegno americano a bloccare i rifornimenti di armi da parte 
dell’Iran costituì la cartina di tornasole dell’affidabilità di Washington come partner stabile, e sulla 
continuazione di tale impegno legarono il buon andamento delle relazioni bilaterali. La questione 
dell’approvvigionamento militare iraniano corrispose infatti ad un tema ricorrente nelle relazioni 
USA-Iraq negli anni Ottanta, perché il coinvolgimento dell’Iraq in una lunga guerra di logoramento 
costrinse Baghdad a considerarla inevitabilmente una priorità. Si spiega in questo modo lo stupore, 
se non il senso di tradimento con cui gli iracheni accolsero la scoperta dell’affare Iran-Contras nel 
1986, nonché il momentaneo raffreddamento delle relazioni poi tornate presto però alla normalità.   
 L’amministrazione Reagan fu investita da un vivace dibattito al proprio interno in merito 
all’opportunità di esportare all’Iraq pezzi di ricambio e materiali cosiddetti “dual-use:” si trattava di 
mezzi ed equipaggiamento non prettamente finalizzati all’utilizzo militare, ad esempio autocarri ed 
elicotteri, ma che poteva essere impiegato sui campi di battaglia con opportune modifiche e a 
consegna avvenuta. Il nodo assunse grande rilevanza nella politica estera dell’amministrazione.    
Nel decidere se esportare o meno materiale sospetto in Iraq, il dipartimento di Stato si trovò 
di fronte ad incognite in entrambe le opzioni: con il via libera alla vendita rischiava infatti di 
compromettere la posizione americana di neutralità nella guerra Iran-Iraq, nonché di sollevare 
l’opposizione di un Congresso spesso riluttante ad aprire al commercio con l’Iraq causa il problema 
terrorismo; con un rifiuto rischiava però di veder sfumare i preziosi contratti di fornitura conseguiti 
dall’industria meccanica americana nel mercato di guerra iracheno, che a partire dai primi anni 
Ottanta divenne sempre più redditizio, oltre a creare motivi di divisione con la dirigenza irachena, 
desiderosa di favorire il rafforzamento delle relazioni commerciali con gli Stati Uniti e di dotare il 
proprio sistema industriale e l’apparato militare dell’alta tecnologia americana. 
In realtà, la lobby irachena al dipartimento di Stato optò costantemente per l’apertura di 
canali commerciali e militari con Baghdad, e giunse persino nel 1985 a criticare vivacemente il 
dipartimento della Difesa, reo di aver manifestato riserve e opposto ritardi all’esportazione in Iraq 
di computer avanzati: alcuni funzionari del Pentagono fecero notare, infatti, che l’Iraq continuava a 
manifestare interesse verso le armi nucleari,
1
 e che avrebbe potuto passare informazioni segrete di 
alta tecnologia americana ai sovietici. Shultz pensava, al contrario, che gli Stati Uniti non potevano 
permettersi di trascurare il mercato iracheno a vantaggio della concorrenza europea, giapponese e 
sovietica; considerava inoltre la cooperazione tecnologica uno strumento per favorire l’espansione 
delle relazioni commerciali e di riflesso quelle politiche. 
                                                 
1
 Digital National Security Archive (d’ora in poi DNSA), Iraq-Gate (d’ora in poi IG), doc. N. 00262, Secret, Action 
Memorandum, da R. Perle, Office of the Assistant Secretary for International Security Policy, a C. Weinberger, titolo: 
“High Technology Dual-Use Export to Iraq”, 1.7.1985. 
 VIII
Il processo d’avvicinamento a Baghdad non fu esente quindi da divisioni interne da parte 
dell’amministrazione: anche sul fronte dell’assistenza economica il Tesoro si oppose costantemente 
all’estensione dell’esposizione finanziaria americana in Iraq, consapevole delle alte condizioni di 
rischio per i prestiti destinati ad un paese sull’orlo della bancarotta finanziaria.  
Un grave motivo d’imbarazzo nelle relazioni tra Washington e Baghdad fu il ricorso a più 
riprese da parte di Saddam Hussein all’impiego di armi chimiche contro l’esercito iraniano. Il 
disagio dell’amministrazione Reagan derivava dalla difficoltà di conciliare di fronte alla comunità 
internazionale la vicinanza verso le posizioni politiche dell’Iraq e la ferma condanna di un’aperta 
violazione della Convenzione di Ginevra del 1925, tra i firmatari della quale figurava anche l’Iraq. 
L’amministrazione Reagan giunse così a condannare ufficialmente i crimini di Saddam Hussein, ma 
sostenne successivamente una risoluzione ONU di condanna dell’impiego di armi chimiche senza 
che questa facesse alcun riferimento all’Iraq.  
La posizione ufficiale americana espresse una chiara condanna per qualsiasi paese avesse 
trattato armi chimiche sia che fosse la dotazione, il commercio, la produzione o l’uso in guerra. 
L’amministrazione adottò, inoltre, una serie di misure restrittive sul commercio verso l’Iran e l’Iraq 
di prodotti chimici che si temeva servissero per produrre armi. La crescita dei controlli sui carichi 
commerciali implicò limitazioni all’esportazioni dell’industria chimica e, in qualche caso, al blocco 
cautelativo: l’amministrazione adottò dunque contromisure concrete per arginare il fenomeno.  
Rimane la sensazione, comunque, che da parte americana vi fosse imbarazzo ad affrontare il 
problema sino in fondo: dai documenti ufficiali emerge la pressione esercitata in sede ONU sulla 
delegazione americana da parte degli iracheni, affinché la risoluzione di condanna dei crimini di 
guerra iracheni dell’aprile 1984, invocata dall’Iran, risultasse molto blanda e non facesse riferimenti 
diretti all’Iraq. L’amministrazione accolse le istanze degli iracheni, accogliendo le proposte da loro 
avanzati per “riequilibrare” la risoluzione ONU e, in sostanza, svuotarla di ogni significato. Shultz 
spiegò inoltre alla delegazione USA all’ONU che non era necessario “andare oltre” le conclusioni 
dell’equipe d’esperti incaricati da Perez de Cuellar di accertare impiego di armi chimiche nel Golfo: 
la commissione ONU rilevò, infatti, la presenza di residui tossici sui campi di battaglia, accertando 
la fondatezza delle proteste iraniane, ma non addossò all’Iraq alcuna responsabilità.  
La tesi è composta di tre parti, corrispondenti a fasi successive della politica americana in 
Iraq, che ho individuato per gli aspetti mutevoli derivanti dall’andamento e dall’evoluzione delle 
relazioni tra i due paesi. Il periodo di tempo che va dal 1981 al 1988 è stato diviso in due trienni, il 
primo dal 1981 al 1983 e il secondo dal 1984 al 1986, e in un biennio finale degli anni 1987 e 1988. 
Queste tre parti generali, suddivise a loro volta in capitoli e paragrafi tematici che esaminano gli 
aspetti politici, economici e militari della politica estera americana in Iraq, hanno caratteristiche di 
 IX
fondo assai diverse: la prima comprende un periodo segnato dall’assenza di relazioni diplomatiche e 
ripercorre quindi le azioni compiute dagli Stati Uniti per superare una condizione di oggettiva 
difficoltà con Baghdad; la seconda esamina una fase di sempre maggiore impegno degli USA in 
Iraq, all’interno di una politica estera continuamente alla ricerca delle strade migliori per sostenere 
lo sforzo militare iracheno sullo sfondo di rapporti diplomatici finalmente normalizzati; la terza, 
infine, è segnata dal completo allineamento degli Stati Uniti alla causa di Baghdad, manifestato con 
il coinvolgimento diretto di forze americane nel teatro di guerra al fianco dell’Iraq  
Ai fini dell’analisi, questa scansione cronologica permette di osservare al meglio il percorso 
della politica americana dall’amministrazione Reagan nei confronti del regime di Saddam Hussein, 
e ne mette in luce i diversi stadi di sviluppo in modo più chiaro e immediato.  
La prima parte è rivolta alla narrazione dei passi inaugurali compiuti a partire dal 1981 
dall’amministrazione neoeletta nei confronti dell’Iraq. Quattro mesi prima del giuramento di Ronald 
Reagan, Saddam Hussein ordinò al suo esercito d’invadere l’Iran di Khomeini: nel settembre 1980 
prese così il via la guerra Iran-Iraq, intrapresa dal presidente iracheno per dare corso ai disegni 
egemonici dell’Iraq sul Golfo persico.  
Questa regione strategica del Medio Oriente era stata oggetto del nuovo indirizzo della 
politica americana annunciato dal presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter proprio all’inizio dello 
stesso anno, durante il tradizionale discorso di gennaio sullo Stato dell’Unione. Le pressioni del 
consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, deciso a lanciare ai sovietici un duro 
monito in risposta all’invasione dell’Afghanistan, portarono gli Stati Uniti a denunciare con forza 
l’aggressione sovietica e ad adottare una posizione più intransigente in difesa dei propri interessi nel 
Golfo. La caduta dello scià aveva incrinato gravemente l’influenza americana nella regione: il 
sospetto che l’invasione dell’Afghanistan fosse la prima mossa di un progetto sovietico ben più 
ambizioso, diretto cioè all’Iran, indussero Carter a lanciare un duro monito ai sovietici: 
 “Let our position be absolutely clear; any attempt by the outside forces to gain the control of the Persian Gulf 
region will be regarded as an a assault on vital interests of the United States of America and such an assault will 
repelled by any means necessary, including force.”
2
  
Diversamente da quanto avvenne il 2 agosto 1990, quando una dura risoluzione ONU scritta 
lo stesso giorno dell’invasione impose all’Iraq, paese aggressore, il ritiro immediato dal Kuwait, la 
risoluzione 479 di dieci anni prima venne diffusa con ritardo, cioè quattro giorni dopo l’attacco. 
Dopo che l’esercito iracheno penetrò per decine di chilometri in territorio iraniano, una risoluzione 
                                                 
2
 “La nostra posizione è assolutamente chiara; qualsiasi tentativo da parte di una forza esterna di ottenere il controllo 
della regione del Golfo persico sarà considerato un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti, e tale assalto sarà 
contrastato con ogni strumento necessario, inclusa la forza”. Il nuova approccio della politica estera americana nel 
Golfo persico prese il nome di “dottrina Carter” e fu annunciata nel discorso sullo Stato dell’Unione del gennaio 1980, 
cit. in A. TAROK, The superpowers involvement in the Iraq-Iran War, Commack (N.Y.), Nova science, 1998,  p. 26   
 X
di condanna richiese infatti un generico cessate il fuoco senza fare menzione di ritiro e senza, 
soprattutto, nominare il paese aggressore.  
In breve tempo l’offensiva irachena perse slancio e dalla primavera 1982 l’Iraq cominciò a 
subire la controffensiva iraniana. A seguito delle sconfitte irachene fu approvata una seconda una 
risoluzione ONU, la numero 514, anch’essa favorevole all’Iraq poiché si chiese espressamente a 
tutte le forze in campo di ritirarsi e di riconoscere i confini internazionali.  
Si trattava di un’ingiunzione attesa due anni, emanata mentre l’Iran si trovava all’offensiva 
dopo aver riconquistato quasi tutti i territori occupati da Saddam nel 1980. Alla luce poi dell’ultima 
risoluzione di guerra, quella del 1987, da parte delle superpotenze fu tenuta una condotta piuttosto 
ambigua all’interno del Consiglio di Sicurezza: le risoluzioni parvero infatti essere condizionate più 
dagli interessi di USA e URSS che dal mantenimento della pace e dalla legalità internazionale.  
Questa prima fase coincide con il triennio preparatorio alla riapertura delle relazioni tra Stati 
Uniti ed Iraq, e fu segnata dai primi incontri al vertice tra i segretari di Stato Haig e Shultz e il 
ministro degli Esteri iracheno Hammadi; inoltre furono organizzate le prime missioni dirette in Iraq 
da parte di inviati americani, per prendere contatto con i funzionari iracheni e, al contempo, fornire 
al governo americano il resoconto della situazione interna irachena sulla base delle informazioni 
raccolte sul posto. Nell’ottobre 1983, William Eagleton, il capo della U.S. Interests Section di 
Baghdad, propose levare selettivamente le restrizioni ai trasferimenti all’Iraq di attrezzatura militare 
“U.S. licensed” di provenienza terza.
3
  
La svolta nelle relazioni USA-Iraq avvenne grazie alla missione dell’inviato presidenziale 
Donald Rumsfeld alla testa di una delegazione americana nel dicembre 1983, che segnò il primo 
incontro di Saddam Hussein con delegati del governo americano e fu l’ultimo decisivo passo prima 
della riapertura di rapporti diplomatici tra Stati Uniti ed Iraq.  
La documentazione relativa al viaggio a Baghdad dell’inviato presidenziale è piuttosto 
corposa e permette di avere un quadro esauriente dell’incontro e dei temi politici discussi. Rumsfeld 
consegnò a Saddam una lettera scritta da Reagan, all’interno della quale il presidente americano 
espresse l’auspicio della pace nella regione e dell’apertura di una nuova fase nella storia dei rapporti 
tra i due paesi. Reagan indicò inoltre la via dell’espansione dei rapporti commerciali e diplomatici 
ed espresse la sua personale soddisfazione per la moderazione l’equilibrio dimostrati da Saddam 
nell’affrontare le questioni aperte della politica mediorientale, come la crisi libanese e il problema 
dei profughi palestinesi. I rapporti con Israele e il terrorismo furono quasi del tutto accantonati. 
Saddam e Rumsfeld si soffermarono sui punti di vista comuni, tra cui l’impegno americano 
a non esportare armi all’Iran, la condanna dell’ostinazione iraniana nel rifiutare la proposta dell’Iraq 
                                                 
3
 K. TIMMERMAN, The death lobby: how the West armed Iraq, London, 1992 
 XI
di cessate il fuoco e l’obiettivo di preservare l’integrità dell’Iraq. Al centro delle discussioni vi fu la 
proposta americana di trovare sbocchi alternativi per l’immissione nel mercato internazionale del 
petrolio iracheno dopo la chiusura dell’oleodotto siriano da parte del presidente siriano Assad. Nel 
corso dell’incontro con Tareq Aziz, Rumsfeld espresse la volontà dell’amministrazione Reagan di 
fare di più
4
 per aiutare l’Iraq, particolarmente sul fronte dell’embargo alla fornitura di armi 
occidentali all’Iran: poche settimane dopo, infatti, prese il via l’Operazione Staunch. 
La seconda parte affronta il periodo 1984-1986 corrispondente ad una fase più matura nei 
rapporti tra Stati Uniti e Iraq, sanzionata ufficialmente nel novembre del 1984 con la riapertura di 
normali relazioni diplomatiche.  
Dopo quattro anni il peso della guerra cominciò a gravare sempre più sul fronte interno 
dell’Iraq e l’economia prese ad arrancare fortemente: crollarono a meno della metà le esportazioni 
petrolifere e le riserve di valuta che all’inizio della guerra ammontavano a circa trenta miliardi di 
dollari si ridussero vertiginosamente, costringendo l’Iraq ad indebitarsi e a dilazionare il rimborso 
dei prestiti contratti con tutti i paesi arabi e molti altri nel mondo, su tutti Germania e Giappone.  
In questa fase contrassegnata dalla bancarotta economica e finanziaria dell’Iraq, crebbe al 
contempo l’assistenza finanziaria americana: alla fine di una lunga querelle con il dipartimento di 
Stato, la Export-Import Bank erogò un prestito di 500 milioni di dollari destinato a coprire le spese 
per la costruzione di un nuovo oleodotto iracheno fino al porto giordano di Aqaba; altri 500 milioni 
vennero concessi dalla filiale di Atlanta della Banca Nazionale del Lavoro, grazie alle direttive della 
Commodity Credit Corporation (CCC), che comprendevano la garanzia governativa sui prestiti 
concessi dalle banche private. Fino al 1988, la BNL di Atlanta erogò prestiti all’Iraq per 5 miliardi 
di dollari.
5
 Il dipartimento dell’Agricoltura si servì del medesimo programma nel concedere all’Iraq 
prestiti per miliardi di dollari destinati all’acquisto di prodotti agricoli americani.  
La terza parte dell’opera si occupa del biennio finale del secondo mandato reaganiano, 
quello 1987-1988: in modo particolare, il 1987 segnò la svolta dell’impegno militare diretto degli 
Stati Uniti nel Golfo persico, con l’inizio di quella che è ricordata come la “guerra delle petroliere.” 
Il 6 gennaio 1987 prese il via l’operazione Karbala, una delle offensive più lunghe condotte 
dagli iraniani, grazie alla quale giunsero fino alla periferia di Bassora: fu quello, dopo sette anni di 
guerra, il momento di maggiore precarietà per Saddam Hussein, mentre gli iraniani, al contrario, 
crederono davvero di poter vincere.  
                                                 
4
 DNSA, IG, doc. n. 00157, Secret, Cable, 27592, da C. Price, US Embassy, London, al Department of State. “Rumsfeld 
One-on-One Meeting Whit Iraqi Deputy Prime Minister and Foreign Minister Tariq Aziz, December 19”, 21.12.1983, 
p. 9 
5
 J. COOLEY, L’alleanza contro Babilonia: USA, Israele e l’attacco all’Iraq, Eleuthéra, 2005, p. 235 
 XII
USA e URSS reagirono con una risoluzione ONU, la numero 598 del 20 luglio 1987. Come 
le precedenti due risoluzioni relative alla guerra del Golfo essa venne in soccorso dell’Iraq perché 
ingiunse l’immediato cessate il fuoco e il ritiro dei soldati all’interno dei rispettivi confini proprio 
quando gli iraniani potevano dilagare nel sud dell’Iraq. I termini della risoluzione furono resi in 
modo tale da risultare inaccettabili per gli iraniani: per il paese che si fosse rifiutato di rispettarla, 
cioè nelle previsioni l’Iran, la risoluzione prevedeva infatti un embargo internazionale di armi. 
Prevedibilmente, l’Iraq dichiarò all’istante di accettarla, mentre l’Iran la respinse con sdegno.  
L’obbiettivo perseguito dagli iracheni fin dal 1982, quando cioè risultò evidente che l’Iraq 
avrebbe combattuto al solo fine di prolungare la guerra, poiché non avrebbe mai potuto sconfiggere 
un paese tre volte più popoloso e con un esercito animato dalla fede incrollabile nella rivoluzione 
islamica, era stato quello di internazionalizzare il conflitto. I dirigenti iracheni intesero coinvolgere 
le superpotenze perché intervenissero per porre fine ad una guerra destinata ad esser persa, con 
effetti potenzialmente distruttivi per il regime baathista.  
Si arrivò alla fine delle ostilità nel 1988 grazie alla presenza nelle acque del Golfo persico 
della flotta militare americana, la quale spostò l’ago della bilancia dalla parte di Saddam Hussein e 
trasformò il conflitto in un peso non più sostenibile da parte dell’Iran. A seguito della “guerra delle 
petroliere” si produsse un’autentica escalation del conflitto nel Golfo, che coinvolse unità della 
marina militare USA in scambi d’artiglieria sporadici ma intensi con le postazioni iraniane.  
Con l’ascesa alla guida dell’URSS di Gorbaciov subì inoltre un’accelerazione il disimpegno 
militare di Mosca dal Terzo Mondo, concluso con il ritiro sovietico dall’Afghanistan nel 1988. Gli 
Stati Uniti accrebbero notevolmente la propria influenza nel Golfo persico a scapito delle posizioni 
sovietiche, con riflessi anche nella guerra Iran-Iraq: gli iraniani persero la possibilità di contare su 
una forza equilibratrice dei disegni americani sul Golfo, trovandosi perciò isolati a fronteggiare una 
coalizione “informale” composta dall’Iraq, dai suoi alleati del Golfo e dagli Stati Uniti, ormai del 
tutto allineati a Saddam Hussein anche dal punto di vista militare.  
Khomeini avrebbe continuato la guerra, ma fu costretto a recedere dalla crescente ostilità 
popolare verso una guerra che in otto anni aveva dissanguato il paese in termini sia di vite umane 
che di perdite economiche. L’abbattimento, nel luglio 1988, di un aereo di linea iraniano con 290 
persone a bordo ad opera di un’unità navale americana fu solo l’ultimo episodio di una situazione 
divenuta insostenibile per l’Iran.  
La guerra iniziata da Saddam Hussein con la convinzione di abbattere in breve tempo un 
nemico che credeva in difficoltà, si tradusse invece in un’interminabile guerra di logoramento che si 
concluse senza conquiste territoriali, così com’era iniziata. L’attacco servì invece a rinsaldare il 
potere nelle mani di Khomeini il quale raccolse la popolazione attorno al regime rivoluzionario 
 XIII
come argine all’invasore iracheno. In realtà, nel 1988 l’Iraq emerse come la potenza regionale 
dominante, seppure sepolto dai debiti e con danni gravissimi alle strutture economiche e petrolifere 
interne. Saddam Hussein sopravvisse per sei anni agli attacchi iraniani col supporto militare e 
d’intelligence occidentale: a Baghdad era attiva una stazione CIA che coordinava l’impegno bellico 
iracheno e comunicava anzitempo i movimenti di truppe iraniani; grazie ai satelliti americani l’Iraq 
riuscì persino a tornare all’offensiva nello scorcio finale del conflitto.  
I documenti federali declassificati della collana Iraq-Gate, conservati al National Security 
Archive, hanno costituito la fonte diretta sulla quale ho condotto per intero la mia analisi: le carte mi 
hanno fornito una mole preziosa d’informazioni, direttive riservate e dati economici, oltre ad 
importanti motivi di riflessione e di ricerca. Il materiale è consultabile presso la George Washington 
University, sede dell’archivio, e viene messo a disposizione di studenti e ricercatori: in particolare, 
mi è stato possibile accedere ai documenti tramite il Digital National Security Archive, vale a dire il 
progetto di archivio informatico del National Security Archive nel database del quale sono inseriti 
oltre 61.000 documenti relativi alla politica estera, diplomatica, militare e d’intelligence degli Stati 
Uniti durante la Guerra fredda, e divisi per argomento in molteplici collane.  
La collana Iraq-Gate raccoglie documenti sulle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Iraq: questi 
sono ordinati cronologicamente e, nel loro insieme, raggiungono quasi le duemila unità, coprendo 
un periodo che va dai primi anni Settanta al 1994. La versione online dei documenti corrisponde a 
quella in versione originale dell’omonima collana su supporto cartaceo conservata nell’archivio.  
La legge americana, in base al Freedom of Information Act, consente di aprire al pubblico i 
documenti federali segreti e riservati dopo un certo numero di anni dalla loro produzione. Alcuni di 
essi, purtroppo, hanno subito però cancellazioni e alterazioni prima di venire declassificati. 
Sarà rivolta particolare attenzione al processo di elaborazione delle scelte di politica estera 
maturate all’interno dell’amministrazione americana, attraverso la narrazione dei fatti e lo studio dei 
documenti prodotti dagli enti e organismi istituzionalmente preposti, come i dipartimenti di Stato, 
Difesa, Commercio, Tesoro e Agricoltura, il National Security Council, la Central Intelligence 
Agency, oltre alle agenzie d’intelligence e alle sezioni dipartimentali incaricate dell’analisi della 
politica mediorientale come il Bureau of Intelligence and Research e l’Office of the Assistant 
Secretary for Near Eastern and South Asian Affairs, entrambi afferenti al dipartimento di Stato. 
Per comprendere appieno l’operato e le decisioni adottate da quest’ultimo, sarà dato spazio 
allo studio delle informative e delle direttive scambiate tra Washington e il corpo diplomatico delle 
missioni americane presso le capitali del Medio Oriente. Si tratta perlopiù di cablogrammi riservati, 
contenenti le disposizioni impartite dai segretari di Stato Haig e Shultz, oltre che dai loro assistenti, 
 XIV
alle ambasciate USA di Baghdad, Il Cairo, Tel Aviv, Gerusalemme, Amman, Damasco, Riyadh, 
Ankara e di molti paesi europei e del resto del mondo.  
Ma uno studio che si pone l’obiettivo di osservare le relazioni tra Stati Uniti e Iraq, però, 
non può prescindere dal soffermarsi sulla fonte privilegiata delle note informative scambiate tra 
Washington e la missione americana in loco, allo scopo di osservare da vicino l’evoluzione della 
politica estera americana in Iraq dall’angolo visuale privilegiato di Baghdad, oltre che dall’angolo 
guida di Washington. Fino al novembre 1984 la U.S. Interests Section di Baghdad garantì una 
presenza residua degli Stati Uniti in Iraq; ma con la riapertura ufficiale delle relazioni nel 1984 
venne istituita una regolare ambasciata americana nella capitale irachena. I cablogrammi scambiati 
tra Baghdad a Washington includono una quantità rilevante d’informazioni filtrate dall’esperienza 
sul campo, nonché dalla conoscenza diretta del fronte interno iracheno.  
Poiché il contributo più significativo nell’assistenza globale americana all’Iraq fu di ordine 
economico-finanziario, si entrerà nel merito dei programmi creditizi elaborati a favore dell’Iraq, e si 
cercherà di spiegare il processo politico che condusse alla loro approvazione definitiva. 
La documentazione non è solo di origine istituzionale, ma anche di tipo privata: vale a dire 
industrie civili o militari e ditte di commercio in contatto con i dipartimenti del governo al fine di 
ottenere autorizzazioni all’esportazioni in Iraq o di fissare lotti di produzione e spedizioni.  
La documentazione, in sostanza, offre la testimonianza del crescente impegno americano nel 
Golfo lungo gli anni Ottanta, e permette di giungere così ad un buon livello di comprensione della 
strategia politica, diplomatica, economica, finanziaria e militare degli Stati Uniti nei confronti del 
regime di Saddam Hussein, osservata dall’angolo visuale interno all’amministrazione Reagan. 
 
Il lavoro vuole offrire un motivo di riflessione critica attorno alle radici delle relazioni tra 
Stati Uniti ed Iraq, e costituire uno strumento utile, come io mi auguro, a favorire la comprensione 
delle dinamiche e degli interessi contingenti che muovono e indirizzano la politica estera di un 
paese in una determinata fase storica diversamente che in un’altra, attraverso lo studio dell’esempio 
per certi versi straordinario mostrato dal cambiamento della politica seguita dagli Stati Uniti nei 
confronti dell’Iraq negli anni Ottanta da una parte, e negli anni Novanta e Duemila dall’altra.  
Obiettivo della tesi è quello d’individuare le ragioni che indussero gli Stati Uniti a sostenere 
il regime di Saddam nel corso degli anni Ottanta attraverso la descrizione degli atti politici e delle 
misure concrete decise dall’amministrazione Reagan per proteggere interessi vitali: si osserverà 
come la politica degli Stati Uniti verso Iraq fu oggetto d’innumerevoli condizionamenti, il più 
significativo dato dal fatto che Saddam Hussein, in una fase anteriore a quella odierna, rappresentò 
l’irrinunciabile prima linea difensiva contro il dilagare del khomeinismo in Medio Oriente. 
 XV
Rotta nel 1979 la stabilità trentennale del Golfo persico, gli Stati Uniti non si adoperarono 
per far vincere la guerra a Saddam Hussein bensì per non farla vincere Khomeini, anzi, per essere 
più precisi, agirono affinché nessuno vincesse troppo o stravincesse in modo da ridurre l’avversario 
in una condizione di minorità permanente, dominare il Golfo così da ridurre l’influenza americana e 
minare di conseguenza il regolare accesso degli Stati Uniti alle risorse energetiche della regione. 
Quando maturai la decisione di approfondire questo tema, in concomitanza con la guerra in 
Iraq del 2003, fui spinto dalla curiosità di approfondire lo studio delle radici di medio-lungo periodo 
delle relazioni tra Stati Uniti e Iraq, soffermandomi su una fase durante la quale i rapporti USA-Iraq 
furono normali, se non amichevoli: si osserverà infatti come negli anni Ottanta la dittatura irachena 
fosse ben vista a Washington, nella persuasione che questa servisse a contenerne un’altra, quella 
iraniana, agli occhi dell’amministrazione Reagan assai più minacciosa di quella saddamita.  
Durante quella fase vennero gettate le basi, con la piena responsabilità di americani, europei 
e sovietici, per una seconda fase d’instabilità del Golfo persico che iniziò nei primi anni Novanta e 
proseguì senza soluzione di continuità, formando così, in definitiva, il volto politico e militare del 
Medio Oriente di oggi. Grazie ad una fittissima rete di contatti internazionali, tra la fine degli anni 
Ottanta e l’inizio degli anni Novanta Saddam Hussein si trovò infatti a contare su uno degli eserciti 
più potenti della regione nonché su un arsenale militare tra i più avanzati del Medio Oriente, 
potendo continuare a coltivare quindi, alla luce del nulla di fatto seguito alla guerra Iran-Iraq, la sua 
politica di potenza e i suoi disegni egemonici sulla regione del Golfo, dopo esser stato sostenuto a 
fondo (anche) dagli Stati Uniti: compito specifico della tesi è osservare da vicino attraverso quali 
misure politiche, economiche e militari ad opera dell’amministrazione Reagan.  
Desidero ringraziare il professor Punzo per aver approvato il progetto della tesi da me 
proposto e per aver mostrato in questo modo, fin dalle prime fasi del lavoro, quella fiducia senza la 
quale non avrei potuto sviluppare un studio organico sull’argomento. Sono estremamente grato alla 
dottoressa Tremolada per il prezioso lavoro di lettura e di correzione della tesi portato a termine, ma 
in particolare per i validi suggerimenti dei quali mi sono giovato nella fase finale del lavoro.  
Per quanto concerne le fonti dirette, ho preso in esame i documenti che il Digital National 
Security Archive mi ha gentilmente messo a disposizione, quando, nel marzo 2005, questi accolse la 
mia richiesta di consultare le carte lì conservate e mi concesse la password di accesso all’immenso 
archivio digitale. Perciò, per aver risposto con favore e prontezza alla mia domanda, non posso che 
ringraziare anche il National Security Archive, una fonte preziosa per studiosi ed appassionati della 
politica estera americana del secondo dopoguerra.