II
infrastrutture industriali necessarie alla localizzazione delle imprese 
all’interno dell’area insediativa.  
Le fasi successive hanno visto da una parte il lancio e la realizzazione di 
progetti speciali, e dall’altro la prosecuzione delle politiche di agevolazioni 
finanziarie e fiscali alle imprese, per favorirne la localizzazione nel 
Mezzogiorno.  
In sintesi, quarant’anni di interventi, che, se non hanno eliminato tutti i 
problemi del Mezzogiorno, hanno certamente contribuito a determinarne 
un certo grado di sviluppo. 
In questo stesso arco di tempo, all’intervento dello Stato si aggiunge 
l’iniziativa legislativa della Regione Siciliana, che produce una serie di 
provvedimenti (agevolazioni finanziarie e sgravi fiscali), che mirano a 
favorire il processo di accumulazione, indispensabile all’insediamento 
dell’industria nell’Isola.   
Per dare una spinta all’economia del Mezzogiorno, lo Stato, in seguito al 
ritrovamento di modeste riserve di petrolio in alcune zone della Sicilia,  
interviene anche tramite la costruzione di stabilimenti petrolchimici 
dell’Eni, principale tra i quali quello di Gela.  
Fino alla fine degli anni ’50, la Città di Gela non gode di quegli interventi 
che attraverso la Cassa per il Mezzogiorno vengono realizzati in Sicilia, 
se non per quelli di primaria necessità (vie di comunicazione).  
Con la decisione dell’Ing. Enrico Mattei, Presidente dell’Eni, di costruire 
uno stabilimento petrolchimico, Gela subisce, a partire dagli anni ’60, 
 III
delle profonde trasformazioni nella sua struttura territoriale, demografica e 
socio – economica. 
Inoltre, conseguentemente all’avvio dell’attività di raffinazione del 
petrolchimico gelese diverse imprese collaterali e ausiliarie iniziano ad 
insediarsi a Gela.  
In quel periodo, nel 1962, si costituisce il Consorzio Industriale per il 
Nucleo di Industrializzazione di Gela, che si inseriva in un contesto 
dominato dalla grande industria di Stato, anche se dovrà attendere gli 
anni ’70 per avviare la propria attività a favore dell’insediamento 
industriale. 
In questa nostra ricerca, dopo aver presentato le iniziative legislative 
nazionali e siciliane, adottate sulla base delle teorie economiche 
dell’epoca, analizzeremo il caso industriale di Gela, ponendo attenzione 
agli sviluppi socio-culturali ed occupazionali della sua popolazione e 
trattandone aspetti qualitativi e quantitativi. 
Analizzeremo i motivi che hanno spinto lo Stato, per mezzo dell’Eni, a 
decidere di costruire uno stabilimento petrolchimico a Gela in seguito alla 
scoperta del petrolio, e quali altri motivi hanno concorso ad effettuare 
questa scelta. Inoltre, seguiremo le fasi di espansione e di crisi 
attraversate dallo stabilimento e, di riflesso, dall'indotto, nonché la politica 
ambientale adottata.    
Intendiamo analizzare, infine, la costituzione del Consorzio per il Nucleo 
di Industrializzazione di Gela, la sua evoluzione e le politiche messe in 
 IV
atto a favore dell’insediamento industriale, in minima parte negli anni del 
suo sviluppo, e poi in quelli del suo assestamento e della gestione dello 
stato di crisi industriale generalizzata degli ultimi vent’anni. 
In conclusione potremo anche delineare alcune considerazioni sul 
possibile futuro dello sviluppo di Gela e del suo hinterland, un futuro certo 
non facile, ma che, comunque, apre alcune prospettive. 
 
  
 
 
 
 
 
CAPITOLO PRIMO   
 
 
 
 
 
 
 
 
   INTERVENTI LEGISLATIVI PER LO SVILUPPO  
 
ECONOMICO DEL MEZZOGIORNO 
1.1    L’economia del Mezzogiorno negli anni ‘50  
 
 
L’Italia meridionale, nei primi anni ‘50, si presentava con le “caratteristiche 
tipiche delle zone economicamente arretrate”
1
. Tale arretratezza 
economica era frutto di un differente grado di sviluppo tra il Nord e il Sud 
del Paese, acuita sia dalle politiche governative attuate fino a quel 
momento che dalle due guerre mondiali. Già al momento dell’Unità 
nazionale le regioni del Nord-Italia avevano raggiunto un livello di sviluppo 
superiore rispetto alle regioni meridionali, per dotazione e qualità di 
infrastrutture e di industrie, prevalentemente a carattere artigianale. A ciò 
si aggiunga che le politiche liberiste attuate fino all’avvento del fascismo 
non avevano consentito al meridione di recuperare tale svantaggio 
accumulato. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, poi, come già 
avvenuto anche durante la prima, produsse l’effetto di concentrare ingenti 
risorse nell’industria bellica presente in prevalenza al Nord, allargando il 
divario Nord-Sud. I danni prodotti dalla guerra si manifestarono 
maggiormente nel Sud, che perse il 35% dell’industria, solo in Abruzzo e 
Campania, contro il 12,4% della Valle Padana
2
.  
Finita la guerra, la ricostruzione avvenne con maggiore rapidità nelle 
                                                           
1
 A. Del Monte – A. Giannola, “Il Mezzogiorno nell’economia italiana”, Bologna, 1978, pag. 112. 
2
 SVIMEZ, “Contributi allo studio del problema industriale del Mezzogiorno”, Roma, 1949. 
 regioni settentrionali, avvantaggiate dalle minori perdite subite e da una 
più consistente presenza di industrie. Il Sud vide aggravarsi la crisi dei 
pochi nuclei industriali che si erano formati verso la fine degli anni ‘30 
localizzati in Campania e in Puglia
3
. Anche la disoccupazione in questo 
periodo subì un’impennata rispetto agli anni precedenti il conflitto. In tale 
situazione il divario tra Nord e Sud si fece più grande e nessuna politica a 
favore del Mezzogiorno venne intrapresa nell’immediato dopoguerra.  
Così, all’inizio degli anni ’50, il Mezzogiorno si trovava con un’economia in 
piena crisi, devastata dalla guerra. L’agricoltura aveva segnato il passo, 
l’industria era pressoché inesistente, di un settore terziario vero e proprio, 
pur presente, non si poteva parlare, e vi era uno stato di 
sovrappopolazione tale da creare una forte disoccupazione diffusa.  
L’unica possibilità di lavoro veniva offerta dall’agricoltura dal momento che 
mancavano settori occupazionali alternativi rispetto a questo. Tale 
situazione metteva in crisi il settore agricolo, in quanto, un eccesso di 
offerta di lavoro, in un mercato caratterizzato dal latifondo, aveva come 
risultato l’incremento della rendita fondiaria e un costo del lavoro molto 
basso, con la conseguenza che i proprietari terrieri non consideravano 
conveniente introdurre migliorie produttive e progresso tecnico nei propri 
terreni. “Diveniva più conveniente per i proprietari mantenere rapporti 
precari di coltivazione sulle proprie terre (le molteplici forme di patti agrari), 
                                                           
3
 P. Saraceno, “Il meridionalismo dopo la ricostruzione 1948-57”, Milano, 1974, pag. 137.  
 che coltivarle direttamente”
4
, in quanto la separazione tra proprietà terriera 
e lavoro era una caratteristica presente nel latifondo ma anche nella 
piccola e media proprietà. Solo sporadicamente si riuscivano ad 
individuare piccole o piccolissime proprietà terriere appartenenti a 
contadini, che però, per mancanza di capitali, non potevano migliorarne la 
produttività.  
Inoltre, l’ingente sovrappopolazione aggravava la situazione, in particolare 
nelle zone caratterizzate dal latifondo praticato in maniera estensiva, dove 
i contadini, riuscendo a raggiungere solo un reddito modesto sulle loro 
proprietà, offrivano la loro forza-lavoro in qualità di braccianti nei terreni 
feudali, percependo compensi estremamente bassi. In tal modo, il 
latifondo veniva spezzettato in molteplici piccole fette che venivano 
destinate a coltivazioni molteplici, non consentendo un’uniformità nel tipo 
di coltura che avrebbe permesso di incentivare gli investimenti, con una 
conseguente crescita della produttività,  e avrebbe, altresì, condotto il 
settore agricolo all’evoluzione in senso moderno. Questa situazione non 
incentivava il processo di accumulazione che, se e laddove avveniva, era 
molto lento
5
. 
Se l’agricoltura si trovava in condizioni di arretratezza, il settore industriale 
versava in condizioni peggiori. L’industria del Mezzogiorno, in prevalenza 
caratterizzata da lavorazioni a basso contenuto tecnologico, aveva 
                                                           
4
 A. Del Monte - A. Giannola, op. cit. pag. 113. 
5
 A. Del Monte – A. Giannola, op. cit., pag. 116. 
 dimensioni medio-piccolissime, era orientata al mercato locale e riusciva a  
difendersi dalla concorrenza dell’industria del Nord solo a causa della 
scarsa presenza  e inadeguatezza delle vie di comunicazione che non 
rendevano economicamente conveniente il trasporto delle merci dal Nord 
al Sud. 
Nonostante la mancanza di concorrenza esterna, l’industria del Sud era 
caratterizzata da lavorazioni artigianali e manifatturiere (alimentari, tessili, 
del legno) che, per loro stessa natura, non favorivano il processo di 
accumulazione e l’investimento di risorse nel settore
6
. 
Risulta evidente che il Mezzogiorno soffriva di scarsa disponibilità di 
capitali, e che, laddove erano presenti, si aveva maggiore convenienza ad 
investirli nelle zone più ricche del Paese, quindi nel Nord.  
Gli investimenti nel Mezzogiorno venivano finanziati dalla spesa pubblica 
e dalle risorse provenienti dall’esterno.  “Nel 1951, infatti,  il 98,9% del PIL 
veniva destinato al consumo e solo grazie al 19,7% del PIL destinato alle 
importazioni nette era possibile finanziare gli investimenti”
7
. 
Rispetto al Nord d’Italia, il Mezzogiorno versava, dunque, in una 
situazione di assoluta precarietà che richiedeva un intervento tempestivo 
volto all’eliminazione degli squilibri presenti nella sua economia. 
                                                           
6
 A. Del Monte – A. Giannola, op. cit., pag. 116. 
7
 A. Del Monte – A. Giannola, op. cit., pag. 112. 
 Gli interventi dovevano affrontare tre aspetti: 
a) la soluzione della questione agraria, modificando la struttura fondiaria 
al fine di  aumentarne la produttività; 
b) la trasformazione dell’industria artigianale in industria moderna; 
c) la soluzione del problema dell’eccesso di popolazione rispetto alle 
risorse disponibili. 
Questi tre problemi non vennero mai affrontati congiuntamente, per cui 
mentre per la questione agraria venne attuata una riforma che ne migliorò 
la produttività  e l’eccesso di popolazione trovò nei flussi migratori, per la 
verità già presenti nei decenni precedenti, un modo per ridurne la 
pressione sulle risorse agricole, poco o nulla si fece per favorire 
l’insediamento industriale. 
Nel dibattito politico del tempo erano presenti due linee a favore dello 
sviluppo meridionale: la prima proponeva una politica di 
industrializzazione sostenuta e incentivata dallo Stato, la seconda 
sosteneva che lo sviluppo meridionale non poteva prescindere dalla 
soluzione della questione agraria.   
Entrambe le posizioni concordavano sul punto di affidare allo Stato il 
compito di intervenire con l’adozione di misure (cospicui investimenti in 
capitale fisso, incentivi, sgravi fiscali, ecc.)  atte a stimolare la nascita 
dell’industria nel Mezzogiorno
8
.  
                                                           
8
 A. Del Monte – A. Giannola, op. cit., pag. 122. 
 Nel quadro politico dell’epoca, l’avvento di una politica liberista e 
l’opposizione degli industriali del Nord, preoccupati della possibilità di 
dover competere con concorrenti meridionali e contrari alla proposta di 
destinare gli aiuti del Piano Marshall a favore dell’industrializzazione del 
Mezzogiorno, portarono nel 1950 all’istituzione della Cassa per il 
Mezzogiorno che avrebbe avuto lo scopo di creare le condizioni per un 
futuro sviluppo industriale e imprenditoriale del Sud  promosso,  sostenuto 
e  incentivato dallo Stato. 
 1.2 L’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. 
 
 
 
Nel dibattito politico degli anni 1945-50 era prevalsa la linea di coloro i 
quali ritenevano opportuno privilegiare l’industria del Nord piuttosto che 
prevedere e realizzare progetti per l’industrializzazione del Mezzogiorno. 
Si era raggiunto un accordo per il Sud che prevedeva la realizzazione di 
opere pubbliche al fine di risolvere il problema agricolo e il problema della 
disoccupazione
9
. Così, con legge 10 agosto 1950, n. 646, veniva istituita 
la Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia 
meridionale (Cassa per il Mezzogiorno).  
Essa nasceva dalla necessità di favorire quelle zone che per varie 
circostanze erano rimaste economicamente arretrate rispetto al Nord 
dell’Italia. Le zone che versavano in condizioni di arretratezza e per le 
quali veniva istituita la Cassa erano: Abruzzo e Molise, Campania, Puglia, 
Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, le Province di Latina e di 
Frosinone, l’Isola d’Elba e i Comuni della provincia di Rieti e i Comuni del 
comprensorio di bonifica del fiume Tronto.  
Il raggiungimento dell’obiettivo dello sviluppo economico era subordinato 
alla realizzazione di quelle infrastrutture (strade, dighe, acquedotti, opere 
di bonifica e irrigazione, ecc.), necessarie per il Mezzogiorno. Nello stesso 
tempo si voleva favorire lo sviluppo di agricoltura e turismo tramite 
                                                           
9
 A. Del Monte – A. Giannola, op. cit., pag. 128. 
 programmi di riforma fondiaria, impianti per la valorizzazione dei prodotti 
agricoli e opere di interesse turistico.  
La filosofia che sovrintendeva  alla nascita della Cassa  era chiaramente 
di pre-industrializzazione
10
, che sarebbe dovuta proseguire con l’iniziativa 
imprenditoriale privata. La Cassa nasceva,  quindi, come strumento del 
governo al fine di  svolgere un programma pluriennale a carattere 
straordinario orientato a realizzare opere pubbliche a favore delle zone 
depresse, ed in particolare del Mezzogiorno.  L’obiettivo iniziale della 
Cassa era quello di coordinare gli investimenti pubblici con la riforma 
agraria e le trasformazioni fondiarie atte a  creare le condizioni per una 
futura industrializzazione
11
. Quindi, una politica volta, da un lato, a 
realizzare opere pubbliche per la creazione di infrastrutture, dall’altro a 
favorire una riforma dell’agricoltura  con lo scopo di incrementarne la 
produttività. In tal modo, attraverso la spesa pubblica in opere 
infrastrutturali venivano create nuove opportunità per l’impiego di forza-
lavoro con un conseguente aumento del reddito pro-capite della 
popolazione del Mezzogiorno, la quale poteva ora disporre di una 
maggiore capacità di acquisto, che veniva, tuttavia, impiegata 
prevalentemente negli acquisti di prodotti provenienti dal Nord 
industrializzato (che in tal modo trovava un nuovo mercato). Tramite la 
riforma agraria, invece, venivano eliminate quelle situazioni di monopolio 
                                                           
10
 A. Del Monte – A. Giannola, op. cit., pag. 124. 
11
 G. Mottura – E. Pugliese, “Agricoltura, Mezzogiorno e mercato del lavoro”, Bologna, 1975, 
pag. 27. 
 che avevano favorito la frammentazione del latifondo, con l’affitto a 
contadini di piccole fette di terra, e impedivano la coltivazione intensiva 
della terra a tutto discapito della produttività.  
Inoltre, l’adozione di queste misure riusciva ad alleviare le tensioni sociali 
creando consensi attorno alla classe politica di governo. Naturalmente, 
per conseguire in modo soddisfacente dei risultati, questa politica doveva 
essere coordinata con i programmi di opere predisposti dalle 
Amministrazioni pubbliche locali.  
Per favorire il coordinamento fra attività del Governo e attività delle 
Amministrazioni locali, la legge n. 646 prevedeva la formulazione di un 
piano generale di esecuzione di opere straordinarie, della durata di un 
decennio (1950-60), diretto ad individuare quali erano le priorità da 
finanziare con il contributo straordinario nelle varie Regioni del 
Mezzogiorno. Con la sua istituzione, la Cassa prevedeva una spesa per 
finanziamento pari a 1.000 miliardi da impiegarsi in 10 anni,  con l’idea di 
effettuare un intervento di tipo straordinario, quindi avente carattere 
aggiuntivo, quanto a dotazione finanziaria, rispetto a quello ordinario dello 
Stato.  
A tal proposito Di Nardi
12
 osserva che l’attività di questi interventi era 
destinata a realizzare opere pubbliche per favorire l’investimento 
industriale privato e non per attuare una politica di sviluppo nel vero senso 
                                                           
12
 G. Di Nardi, “I provvedimenti per il Mezzogiorno”,  in “Economia e Storia”, 1960, pagg. 494-  
520. 
 della parola. Una politica di sviluppo, secondo questo autore, avrebbe 
richiesto l’individuazione di precisi obiettivi, quali, ad esempio, un 
determinato tasso di crescita del reddito o il raggiungimento della piena 
occupazione, e di risorse e strumenti adatti a realizzarli.  
Così, negli anni ’50,  veniva avviata l’attività della Cassa, tramite i suoi 
organi,   affidando l’esecuzione delle opere ad aziende autonome statali o 
dando la concessione ad altri enti locali e loro consorzi, che avevano il 
compito di mettere in atto gli obiettivi prefissati dalla stessa legge. Gli 
organi principali della Cassa del Mezzogiorno erano: il Comitato dei 
Ministri, il Consiglio d’Amministrazione e il Collegio dei Revisori dei Conti. 
Uno degli organi previsti dalla legge n. 646 per la decisione sugli interventi 
era il Comitato dei Ministri. Esso aveva il compito di coordinare l’intervento 
straordinario della Cassa con l’intervento ordinario dello Stato. Il Comitato 
dei Ministri era un organo formato in seno al Comitato interministeriale per 
la programmazione economica (CIPE) presieduto da un Ministro nominato 
per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno e composto dai Ministri per 
il Bilancio, per il Tesoro, per la Pubblica Istruzione, per i Lavori Pubblici, 
per l’Agricoltura e le Foreste, per i Trasporti e l’Aviazione Civile, per 
l’Industria, il Commercio e l’Artigianato, per il Lavoro e la Previdenza 
Sociale, per le Partecipazioni Statali, per la Sanità, per il Turismo e lo 
Spettacolo. Gli altri Ministri partecipavano ai lavori del Comitato per la 
trattazione dei problemi di loro specifica competenza.