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mancanza di un processo di alternanza al potere e quindi di ricambio della classe 
dirigente, ritardo nel varo delle leggi più importanti e attese dal Paese, a fronte di 
eccessiva produzione di leggi in materie poco importanti, diffusione della 
corruzione come strumento di finanziamento dei partiti, forte aumento del debito 
pubblico, irresponsabilità finanziaria di governi, parlamenti e autonomie. 
Ci si rese conto inoltre che tali disfunzioni non erano attribuibili solo a cattiva 
volontà o errori di partiti e uomini politici, o a disapplicazione della Costituzione 
Repubblicana, ma anche al fatto che molti dispositivi della Parte II della stessa 
Costituzione (e certe leggi ordinarie importanti, come quelle elettorali) erano 
superati e da rivedere.  
Il dibattito sulle riforme costituzionali subì una forte accelerazione a seguito dei 
profondi cambiamenti politici avvenuti nel nostro paese fra il 1990 e il 1994. In 
quel periodo il crollo del Muro di Berlino e le difficoltà del PCI-PDS consentirono 
a molti elettori di DC e PSI di spostare il proprio voto senza temere una svolta a 
sinistra. Di questi consensi in uscita beneficiarono al Nord la Lega Lombarda e la 
Liga Veneta (poi confluite con altri nella Lega Nord) e al Sud il MSI, in seguito 
trasformatosi in Alleanza Nazionale. Nel 1992 le elezioni politiche videro il 
successo della Lega Nord, l’arretramento di DC e PSI e quello del PDS che, 
penalizzato anche dalla scissione di Rifondazione Comunista, non confermava i 
consensi del PCI. Poco dopo il sistema giudiziario cominciò a incriminare per 
corruzione e concussione i più importanti esponenti politici e imprenditoriali, con 
clamorose inchieste e processi che proseguirono per alcuni anni. 
Nel 1994 il Parlamento, delegittimato dalle inchieste su molti deputati e senatori, fu 
di nuovo sciolto. Berlusconi, temendo il crollo di DC e PSI e una conseguente 
svolta a sinistra, fondò Forza Italia e contrasse al Nord un’alleanza con la Lega 
(Polo delle Libertà) e nel resto del Paese con Alleanza Nazionale (Polo del 
Buongoverno). Le elezioni di quell’anno segnarono il successo di quest’alleanza e 
la scomparsa dei partiti che avevano scritto la Costituzione Repubblicana e 
governato l’Italia per tutto il dopoguerra. Del vecchio “arco costituzionale” rimase 
solo il PDS, mentre Berlusconi guidava il suo primo Governo (1994-1995).  
In tutta la prima metà degli anni Novanta il crescente voto leghista rese pressante 
per la classe politica la richiesta di maggiori autonomie regionali e locali da parte 
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degli elettori del Settentrione d’Italia, costringendo i partiti a recepire almeno in 
parte le idee autonomiste e federaliste della Lega, per non restare spiazzati e 
perdere ulteriori consensi. La “conversione” federalista di gran parte delle forze 
politiche e sociali, e della classe politica locale, in effetti ha favorito il varo, 
nell’arco di tutto il decennio, di alcune riforme autonomiste (vedi tabella 1). 
Tuttavia, nonostante l’apparente unanimità di consensi che si è creata nel nostro 
paese sul federalismo, il processo di riforma delle autonomie regionali e locali, 
lungi dall’essere facilitato da un ampio accordo tra le forze politiche, è stato 
ostacolato dalla presenza di aspirazioni contrastanti e caratterizzato da un rilevante 
conflitto fra le coalizioni e al loro stesso interno, con il coinvolgimento anche di 
associazioni di categoria, sindacati, associazioni di regioni, province e comuni.  
Spesso l’appoggio al federalismo in Italia viene motivato da ragioni di efficienza 
delle istituzioni, come la speranza in un governo più vicino ai cittadini e meglio 
capace di conoscerne e realizzarne aspirazioni e interessi, variabili a seconda della 
comunità locale di appartenenza. Tuttavia c’è ragione di credere che queste siano 
soltanto le motivazioni proposte alla pubblica opinione, diverse però da quelle 
effettivamente sentite dagli attori politici e istituzionali. Quanto a questi ultimi è più 
convincente ipotizzare motivazioni diverse: 
a) Da parte della Lega Nord, la volontà di decentrare i poteri per contare di più 
nella formulazione delle politiche pubbliche destinate al suo elettorato, 
concentrato nel Settentrione. Inoltre la credenza che gli italiani del Nord 
abbiano interessi e aspirazioni irrimediabilmente diverse da quelle degli italiani 
del Centro-Sud, e quindi che sia necessaria un’articolazione del potere che 
consenta l’adozione, in ciascuna parte del paese, di scelte il più possibile 
indipendenti da quelle dell’altra parte. 
b) Da parte delle forze della Casa delle Libertà la credenza che i problemi siano 
meglio risolvibili col mercato che con l’intervento pubblico, che la 
privatizzazione dei più importanti servizi sia meglio raggiungibile in un sistema 
istituzionale con forti autonomie, nonché la volontà di rappresentare gli interessi 
di quanti operano come imprenditori nel mercato medesimo. Ciò può spiegare 
l’insistenza per l’adozione, insieme col federalismo e il connesso principio di 
sussidiarietà istituzionale, anche del principio di sussidiarietà sociale, che 
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appunto pone un limite al diritto dei pubblici poteri ad intervenire nella 
soluzione di problemi collettivi. D’altronde si spiega come il Centrosinistra e 
Rifondazione Comunista, maggiormente fiduciose nell’intervento pubblico, 
abbiano spinto per formulazioni più deboli della sussidiarietà sociale o abbiano 
cercato di togliere il problema dall’agenda.  
c) Da parte di regioni, province e comuni, la volontà di accentrare più poteri nelle 
proprie mani, in competizione sia tra loro che con lo Stato, in questa fase 
comunque costretto a cederne perché considerato inadatto alla soluzione di certi 
problemi e perché messo in discussione dal risveglio delle identità locali in 
Italia come in tutta Europa. 
Al primo Governo Berlusconi seguirono, causa la rottura dell’alleanza Polo-Lega, il 
Governo tecnico Dini, le elezioni politiche del 1996 vinte dall’Ulivo e i governi 
Prodi (1996-98), D’Alema (1998-2000) e Amato (2000-2001). 
Le elezioni politiche del 2001, come è noto, hanno visto il successo della rinnovata 
alleanza Polo-Lega nella Casa delle Libertà e il ritorno al Governo del leader di FI 
Berlusconi. 
Nella tabella 1 sono passate in rassegna le tappe fondamentali compiute dal 1971 ad 
oggi sulla via, impervia e a tratti non ben delineata, del mutamento istituzionale e 
costituzionale. 
Nel complesso fino al 2001 tutti i tentativi esperiti avevano raggiunto risultati assai 
modesti in rapporto al tempo trascorso e al lavoro di elaborazione svolto dai vari 
promotori di riforme. Ogni volta la necessità di maggioranze ampie, le contingenze 
della politica, le elezioni anticipate, gli stessi contrasti sul merito delle riforme da 
attuare, nonché i timori che esse andassero a vantaggio degli avversari politici, 
avevano travolto il processo riformatore a metà del cammino. Erano state possibili 
soltanto riforme di singoli articoli della Costituzione oppure di leggi ordinarie, 
spesso con inerzia nell’attuazione ed effetti innovativi molto limitati. In particolare 
dopo la costituzione del Governo D’Alema (1998) era ancora sentita nella classe 
politica la delusione per il fallimento della Commissione Bicamerale da lui stesso 
presieduta, tanto da indurre lo stesso Presidente del Consiglio a intervenire 
direttamente presentando un progetto di legge governativo di riforma del Titolo V 
della Costituzione (marzo 1999) che riprendeva le conclusioni della Commissione 
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in merito alla forma di stato, accantonando per il momento il problema della forma 
di governo, oggetto di divergenze politiche troppo profonde tra fautori del 
presidenzialismo e sostenitori di un sistema parlamentare corretto. E’ stato scelto 
altresì di rinviare la soluzione di altri nodi importanti, come quello del superamento 
del bicameralismo perfetto con l’istituzione di un’assemblea rappresentativa delle 
autonomie e la riserva alla Camera dei Deputati della competenza generale sulla 
legislazione statale, nonché la riforma dei criteri di nomina della Corte 
Costituzionale con l’immissione di giudici espressione di regioni ed enti locali. Ciò 
può essere stato dovuto alla volontà di accontentarsi delle riforme possibili, 
evitando l’ennesimo fallimento, così come alla preoccupazione di non perdere 
pregiudizialmente il consenso del Senato; tuttavia queste scelte hanno rappresentato 
e rappresentano altrettante carenze dell’impianto della riforma. 
La legge costituzionale n. 3 del 2001 fu deliberata durante la XIII Legislatura da un 
Parlamento composto in maggioranza di eletti nel Centrosinistra, e sotto la spinta 
dei governi D’Alema e Amato, espressione di questa coalizione. Tuttavia gran parte 
dell’iter parlamentare si compì dopo le elezioni regionali dell’aprile 2000, vinte 
dalla Casa delle Libertà, e quindi con l’aspettativa che questa alleanza avrebbe 
probabilmente vinto anche le successive elezioni politiche del maggio 2001. Ciò 
influenzò profondamente il dibattito, portando a un duro scontro tra le coalizioni in 
luogo dell’ampio consenso solitamente auspicato per la deliberazione di leggi di 
riforma della Costituzione. Il Centrosinistra premeva così per approvare la riforma 
anche per accreditarsi all’opinione pubblica come forza federalista durante la 
campagna elettorale, e impedire al Centrodestra di fare altrettanto, mentre per lo 
stesso motivo il Centrodestra aveva interesse che la legge costituzionale non 
passasse. Inoltre vi erano divergenze di sostanza sul tipo di riforma federalista da 
realizzare; per cui la chiarezza dei rapporti di forza attuali e futuri consigliava al 
Centrosinistra di approvare la riforma finché era in tempo, prima di finire in 
minoranza nella legislatura a venire, mentre il Centrodestra aveva interesse a 
investire della questione il Parlamento della legislatura successiva, nel quale sapeva 
che avrebbe contato di più.  
Dopo la vittoria della Casa delle Libertà nelle elezioni politiche del maggio 2001 il 
Titolo V, approvato definitivamente di lì a poco col voto popolare dell’ottobre 
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successivo, ha impattato sul fatto che la sua attuazione è stata demandata proprio 
alla coalizione che si era fortemente opposta alla sua deliberazione, e che era 
portatrice di un progetto alternativo.  
Occorre infatti tenere conto che, per quanto riguarda le leggi costituzionali come il 
Titolo V, molta dell’attuazione compete al medesimo Parlamento che deve 
provvedere con leggi ordinarie attuative di certi articoli del testo costituzionale, 
nonché al Governo che deve intervenire con decreti delegati per trasferire le 
funzioni amministrative e le risorse umane e materiali connesse.  
Pertanto l’attuazione del Titolo V si presentava problematica già mesi prima della 
sua stessa approvazione referendaria, candidandosi a entrare nella casistica 
dell’implementazione fallita sotto l’impatto della congiuntura politica.  
D’altronde la formulazione della stessa riforma costituzionale alternativa della Casa 
delle Libertà, la cosiddetta devoluzione, non sembrava avere prospettive molto 
migliori, considerate le ben diverse aspirazioni costituzionali delle forze politiche al 
governo nella XIV Legislatura, in particolare Alleanza Nazionale e UDC da una 
parte, e Lega Nord dall’altra.  
I primi mesi dopo la vittoria della Casa delle Libertà hanno mostrato subito la 
concordia dei vincitori nel disapplicare la riforma varata dal Centrosinistra, ma 
anche la discordia in merito all’alternativa a questa riforma. Dapprima il Ministro 
per le Riforme Istituzionali Bossi ha proposto una ambiziosa revisione di diversi 
articoli della Costituzione, per fare esprimere una parte della Corte Costituzionale 
dalle autonomie, destituire i giudici costituzionali in carica, elencare espressamente 
(fermo restando il principio della competenza residuale introdotto dal nuovo Titolo 
V) alcune delle materie di competenza regionale, eliminare il vincolo del diritto 
internazionale ed europeo dalle leggi di Stato e regioni, consentire alle regioni 
l’attivazione di competenze esclusive in materia di sanità, istruzione e polizia 
locale. Poi, di fronte alle contestazioni dei suoi alleati, ha dovuto ridimensionare il 
suo progetto alla sola aggiunta di un comma al IV dell’art.117, con la previsione 
dell’attivazione delle competenze esclusive regionali.  
Fra il 2002 e il 2003 il Parlamento è stato impegnato nella discussione di questa 
proposta di legge nonostante il fatto che la stessa maggioranza promotrice la 
considerasse incoerente col resto del testo costituzionale, e che la stessa Lega Nord 
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con ogni probabilità la considerasse solo uno strumento di propaganda elettorale 
piuttosto che aspettarsi davvero la sua approvazione definitiva. Nel frattempo ne è 
stata rallentata la discussione sulla legge di attuazione del nuovo Titolo V, 
approvata solo a maggio del 2003. Sul federalismo fiscale il Governo si è mosso a 
ritroso rispetto alle politiche seguite dall’Ulivo, non solo rifiutandosi di definirne i 
principi, ma riducendo la base imponibile della più importante imposta regionale 
(l’IRAP), tagliando i trasferimenti a regioni ed enti locali, limitando l’imposizione 
fiscale e la spesa delle autonomie, il tutto con insufficiente compensazione 
mediante quote del gettito di tributi erariali. Non sono state definite né le funzioni 
fondamentali degli enti locali né i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i 
diritti civili e sociali.  
Il 14 aprile 2003 la devoluzione è stata approvata in I lettura alla Camera dei 
Deputati (dopo esserlo stata al Senato) quando pochi giorni prima il Governo aveva 
presentato un nuovo proposta di legge di riscrittura dell’art. 117, con abolizione 
delle competenze legislative concorrenti, attribuzione alle regioni delle competenze 
esclusive di cui al disegno di legge sulla devoluzione, ma anche reintroduzione del 
concetto di interesse nazionale come limite negativo alle competenze legislative 
regionali, autonomia speciale per Roma nell’ambito della Regione Lazio e 
abolizione del procedimento pattizio per trasferire ulteriori competenze. Ciò era 
risultato della mediazione con l’UDC e AN e segnava, dal punto di vista della Lega, 
un arretramento. 
Nonostante il fatto che il Titolo V della Costituzione sia stato effettivamente 
riscritto, tutta la successione di eventi dal 2001 ad oggi sembra purtroppo riproporre 
quanto accaduto nei decenni precedenti: continui tentativi di riforma travolti a metà 
del cammino (di approvazione o di attuazione) dal cambiamento del quadro 
politico, dall’uso strumentale della questione come arma di propaganda elettorale, 
dalla diffidenza negli interlocutori, dal timore che la realizzazione di riforme 
costituzionali potesse avvantaggiare gli avversari in termini di potere, 
dall’irrompere di proposte alternative (a loro volta destinate ad essere superate in 
breve tempo) e, a partire dagli anni Novanta, anche dalla presenza nella classe 
politica di aspirazioni costituzionali profondamente diverse in merito al carattere 
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parlamentare o presidenziale della forma di governo, al riparto di poteri fra Stato e 
autonomie e all’assetto del sistema giudiziario.  
Le conseguenze di tutto ciò sono assai gravi, perché il nostro sistema politico, 
sempre più afflitto da conflittualità istituzionale, non riesce a chiudere la transizione 
iniziata negli anni Novanta dandosi regole condivise, attuate e ben collaudate dagli 
attori politici e istituzionali, come sarebbe desiderabile. Un effetto di questa 
situazione è il perdurare dell’instabilità di governo (tre presidenti del consiglio e 
quattro governi nella scorsa legislatura) suscettibile di venire meno solo se il 
sistema partitico produce una leadership particolarmente forte, a prezzo però 
dell’indebolimento delle garanzie di pluralismo e ponderazione delle decisioni. 
Senza contare che la stessa stabilità dell’attuale Governo sembra essere messa alla 
prova dai contrasti Polo-Lega e incombe il rischio dell’ennesimo scioglimento 
anticipato. Altra conseguenza è la difficoltà nel discutere e affrontare tutti i 
problemi più sentiti dalla popolazione e diversi da quelli istituzionali, la qual cosa 
dovrebbe essere l’occupazione principale di un sistema politico.  
 
 
2. La prospettiva adottata: fra scienza politica e diritto 
La presente tesi di laurea si propone di affrontare le problematiche della riforma in 
senso federale del nostro ordinamento sia sotto il profilo giuridico che sotto quello 
politologico-istituzionale e quello dell’analisi delle politiche pubbliche. Ciò perché 
la riforma in questione può essere analizzata sia nel suo valore precettivo e nelle 
conseguenze che comporta sull’ordinamento giuridico, oggetto d’analisi dei 
giuristi, sia come prodotto di un processo politico che ha richiesto diversi anni di 
tempo e lavori, ha coinvolto una molteplicità di attori istituzionali (Governo, 
Parlamento, regioni, enti locali), politici (i partiti), sociali (associazioni di categoria, 
sindacati, stampa) ciascuno portatore di proprie percezioni, interessi, aspettative e 
strategie tese a contrarre alleanze per meglio raggiungere obiettivi propri e 
condivisi. Gli stessi giuristi sono considerati degli attori rilevanti nelle politiche 
costituzionali come esperti del settore. I costituzionalisti hanno formalmente il 
compito di consigliare la classe politica sia sull’interpretazione del senso della 
Costituzione così com’è (diritto costituzionale) sia sulla valutazione di come una 
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buona Costituzione dovrebbe essere (politica costituzionale). Tuttavia secondo gli 
studi politologici i politici non sono recettori passivi degli orientamenti dei 
costituzionalisti, bensì se ne servono per definire le prevedibili conseguenze delle 
leggi costituzionali che hanno deliberato e che potrebbero deliberare, in modo da 
ridurre l’incertezza su quali siano i propri poteri e la struttura di vincoli e 
opportunità entro la quale devono operare. Infine occorre considerare che la stessa 
esistenza, in seno alla comunità dei giuristi, di gravi divergenze sull’interpretazione 
del testo vigente, tende a ostacolarne l’attuazione per leggi ordinarie da parte della 
classe politica. 
Gioverà mettere in evidenza il diverso modo di pensare di giuristi e politologi 
poiché mentre il giurista: 
1. cerca di estrarre dal testo costituzionale il suo significato “intrinseco” 
indipendentemente dall’uso che possono farne le forze politiche o sociali; 
2. considera i sistemi costituzionali neutrali rispetto alle politiche pubbliche 
distributive, redistributive e regolative; 
3. nel formulare giudizi di valore in materia costituzionale, si pone per lo più 
questioni di ingegneria costituzionale, ossia riguardanti l’efficienza e l’efficacia 
delle istituzioni nel produrre leggi e politiche pubbliche;  
4. tende a considerare l’esistenza in vigore della norma come automaticamente 
produttrice di effetti sull’ordinamento. 
Invece il politologo: 
1. considera l’influenza che i sistemi costituzionali possono avere rispetto alla 
formulazione di politiche pubbliche distributive, redistributive e regolative; 
2. si chiede come gli attori si serviranno delle leggi costituzionali per aumentare il 
proprio potere e rendere più raggiungibili i propri obiettivi di politiche 
pubbliche; 
3. si pone il problema dell’esistenza del consenso necessario a che le leggi 
costituzionali possano essere approvate e attuate; 
4. studia il ruolo che gli attori politici giocano in fase di attuazione, a difesa dei 
propri interessi e aspirazioni, similmente a quanto avviene in sede di 
formulazione. 
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3. Le politiche di riforma istituzionale nella scienza politica 
Secondo la dottrina prevalente la formulazione delle regole costituzionali ed 
elettorali di un sistema politico, come politica pubblica, va sotto il nome di “politica 
istituzionale” che, a sua volta, appartiene alla più ampia categoria delle “politiche 
costituenti”. Queste ultime, come fine prioritario, non hanno quello di risolvere o 
gestire determinati problemi collettivi, bensì di predisporre gli attrezzi istituzionali, 
organizzativi e procedurali necessari al trattamento dei problemi di rilevanza 
collettiva. Detto in altri termini, le politiche costituenti hanno per oggetto le “regole 
sulle regole”, ossia le modalità istituzionali attraverso le quali le decisioni vengono 
formulate e attuate, anziché il loro contenuto sostantivo. 
Sebbene da un punto di vista normativo si sostenga spesso che le regole 
costituzionali debbano essere condivise per dare stabilità e legittimazione a un 
sistema politico, e che pertanto devono ingenerare negli attori partitici l’aspettativa 
che avranno effetti imprevedibili sui contenuti delle politiche pubbliche in genere 
(redistributive, distributive e regolative), tuttavia dal punto di vista descrittivo gli 
studi politologici attribuiscono ai partiti politici una percezione tutt’altro che 
neutrale delle regole istituzionali, bensì ideologico-programmatica oppure 
strumentale. Nel primo caso i partiti politici le percepirebbero come un fine in sé 
facente parte delle loro aspirazioni. Nel secondo caso le considererebbero uno 
strumento funzionale agli obiettivi di politiche pubbliche in genere che vi 
riterrebbero correlati, ossia che riterrebbero più facilmente raggiungibili vigendo 
determinati assetti istituzionali. A maggior ragione gli attori istituzionali avrebbero 
in merito forti preferenze, essendo direttamente interessati alle regole che 
definiscono i propri poteri e i vincoli entro i quali devono operare e, benché 
formalmente non presenti nell’arena decisionale, tuttavia disporrebbero di efficaci 
strumenti di intervento poiché, attraverso la mediazione del sistema partitico cui 
tutto il personale politico appartiene, potrebbero esercitare pressioni sui decisori.  
Occorre chiedersi quando si interviene in politica istituzionale, ossia quando gli 
attori decidono che per risolvere i problemi connessi con la normale attività di 
politica pubblica è necessario intervenire sulle regole del gioco. 
Secondo un approccio funzionalista-efficientista ciò accadrebbe perché gli attori 
maturano la convinzione che gli assetti istituzionali vigenti siano inefficienti nel 
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produrre decisioni. Secondo i neoistituzionalisti però le regole costituzionali non 
sono da intendersi come mero strumento per decidere, bensì come modelli di 
comportamento persistenti del personale politico oppure come contesto normativo 
che consente a quest’ultimo di attribuire un senso alla realtà nella quale opera. 
Inoltre secondo gli autori di policy studies le regole formali sono solo uno degli 
elementi realmente strutturanti l’adozione delle decisioni, poiché gli attori possono 
utilizzare risorse informali per aggirare o contraddire le regole formali senza 
bisogno di modificarle. 
Sebbene l’approccio efficientista possa essere usato per motivare la decisione di 
intervenire sulle regole fondamentali, in realtà i motivi più sentiti dagli attori 
politici possono essere altri: 
a) volontà degli attori di aumentare o istituzionalizzare il proprio potere, ovvero di 
istituzionalizzare i propri interessi nell’ambito del sistema politico; 
b) convinzione degli attori che determinati obiettivi desiderabili di policy siano 
meglio raggiungibili con determinate forme istituzionali.  
Il contenuto delle politiche istituzionali fa si che i loro destinatari siano gli stessi 
decisori delle politiche pubbliche in genere. Ciò non significa che non vi sia la 
partecipazione di altri soggetti; tuttavia si ritiene che questa tenda ad essere 
scoraggiata dalla classe politica proprio perché quest’ultima è la titolare degli 
interessi in gioco e cercherebbe quindi di monopolizzare il processo decisionale. 
Ciò potrebbe spiegare perché non si sia mai scelta, come via alle riforme 
costituzionali, l’elezione di un’assemblea costituente, che avrebbe costretto i partiti 
politici ad assumere con i propri elettori impegni chiari e difficilmente eludibili, 
riducendo quindi la loro discrezionalità. 
Le politiche istituzionali, data l’importanza della posta in gioco, tendono a essere 
formulate unicamente attraverso il compromesso tra gli attori politici della 
coalizione che le sostiene, i quali ottengono tutti di migliorare, o almeno di non 
peggiorare, le proprie posizioni di potere nel sistema politico. E’ invece 
improbabile che uno degli attori sostenga una policy istituzionale nella quale perde 
potere, in cambio di qualche contropartita in altro tipo di policy che probabilmente 
non lo compenserebbe, o sarebbe troppo differita nel tempo e incerta. 
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4. Il problema dell’implementazione delle politiche pubbliche  
Fino agli anni cinquanta gli studiosi di politiche pubbliche facevano conto che una 
legge, una volta decisa in sede politica, fosse automaticamente eseguita nel solo 
modo possibile dagli apparati burocratici competenti. Soltanto negli anni sessanta 
negli Stati Uniti si cominciò a notare le difficoltà che i programmi di welfare 
incontravano nel raggiungimento degli obiettivi dichiarati (implementation deficit). 
A partire dai primi anni settanta lo studio dell’implementazione (implementation 
research) si affermò come campo autonomo all’interno della più vasta disciplina 
che studia le politiche pubbliche. Le sue finalità sono sia analitiche (ricostruzione 
dei processi e studio dell’efficacia) che prescrittive (indicazione delle condizioni 
per assicurare il successo delle policies). 
Proprio il carattere non automatico dell’attuazione obbliga a scartare come 
fuorviante il termine “esecuzione” e a preferirgli quelli di “implementazione”, 
“messa in opera” o “attuazione”. 
Secondo l’approccio teorico cosiddetto top-down l’implementazione presuppone 
una fase precedente in cui sono state formulate decisioni di carattere generale, 
contenenti obiettivi che si cerca di conseguire mediante appunto l’attività attuativa. 
La sua analisi accentra l’attenzione sul rapporto tra obiettivi e risultati e sulla 
congruenza tra modalità attuative (azioni, attori, procedure) previste dal programma 
normativo e quelle concretamente poste in essere nella messa in opera. In 
quest’ottica la conformità alle norme nell’azione attuativa assicura il 
raggiungimento degli obiettivi indicati. Assunto implicito di tale prospettiva è che 
ottenere un’adeguata attuazione è solo un problema di capacità di controllo dei 
decisori sui processi politici, organizzativi e tecnologici rilevanti per la policy e la 
sua attuazione. Occorrerebbe quindi valutare l’eventuale scarto tra obiettivi indicati 
ed effetti realmente prodotti, e sulla scorta di questo cercare di individuare le cause 
in grado di spiegare l’insuccesso eventualmente registrato. A ben guardare tale 
approccio risente fortemente di un pregiudizio di stampo gerarchico-costituzionale 
che discende dalla teoria classica di tripartizione dei poteri, rafforzata dall’assunto 
weberiano secondo cui l’azione della burocrazia legale-razionale consiste (o 
dovrebbe consistere) nella mera esecuzione di norme che disciplinano 
puntualmente le modalità d’azione della burocrazia. L’approccio top-down ha 
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l’ambizione prescrittiva di individuare le condizioni il cui rispetto da parte dei 
policy-makers è necessario per assicurare il raggiungimento degli obiettivi: 
trattabilità del problema, capacità del programma normativo di strutturare la sua 
stessa implementazione, nonché variabili esterne al programma come consenso e 
condizioni socioeconomiche. In realtà, le condizioni indicate ben di rado sono 
presenti e di conseguenza i programmi pubblici registrano spesso un certo grado di 
fallimento; questo approccio rischia pertanto di fornire un contributo di scarso 
interesse, documentando al limite i continui esempi di scostamento tra obiettivi 
previsti e obiettivi raggiunti. In particolare, si possono muovere diversi ordini di 
critiche: 
a) i policy-makers non sono mai davvero in grado di esercitare un controllo 
stringente sull’attuazione delle politiche che formulano; per di più la fedeltà di 
esecuzione non è condizione necessaria, e nemmeno sufficiente, per assicurare 
l’efficacia delle politiche, poiché può darsi il caso di politiche pubbliche che 
raggiungono gli obiettivi dei loro decisori proprio grazie al fatto che la 
burocrazia esercita un ruolo “creativo” nell’attuazione, oppure che non li 
raggiungono proprio perché gli apparati statali non sanno discostarsi dagli 
strumenti (oggettivamente inidonei) di attuazione previsti dai decisori; 
b) spesso i programmi contengono una pluralità di obiettivi, anche in parziale 
contrasto fra loro, generici o ambigui, che rispecchiano i conflitti esistenti tra i 
diversi soggetti coinvolti nella formulazione delle politiche. Questi accettano 
compromessi o tregue solo temporaneamente in modo da poter raggiungere 
accordi, ma in realtà le ostilità sono destinate a riprendere subito dopo la 
formalizzazione della decisione, nella fase attuativa. Gli esecutori dovranno 
allora risolvere le questioni che i decisori hanno lasciato insolute in sede di 
formulazione della policy; 
c) non sono rare politiche con intenti simbolici che si esauriscono in un effetto 
enunciativo, in relazione alle quali l’attuazione non dovrebbe avere luogo nelle 
stesse intenzioni dei policy-makers; 
d) le cause dei fallimenti possono essere già iscritte negli stessi programmi, per 
esempio nella fissazione di obiettivi eccessivamente ambiziosi o 
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nell’assegnazione di risorse inadeguate rispetto ad essi, oppure nell’assunzione 
di una teoria errata circa rilevanti relazioni di causa-effetto; 
e) infine esistono casi di attuazione anche in assenza di programmi (solo in seguito 
viene approvato un programma che legalizza le attività già poste in essere) o in 
cui vi sia una molteplicità di programmi sovrapposti in competizione tra loro. 
Traendo spunto dai limiti dell’approccio top-down, tra la fine degli anni 70 e gli 
inizi degli anni ottanta emerge l’approccio bottom-up che, considerando il 
verificarsi di deficit di attuazione un fenomeno fisiologico piuttosto che patologico, 
rovescia l’approccio analitico partendo dal basso verso l’alto. La domanda è ora 
quali siano gli impatti delle politiche sui problemi che intendono affrontare, i 
comportamenti degli attori (decisori, attuatori e destinatari) coinvolti e le 
motivazioni alla base di questi, nonché gli outputs politici e amministrativi. 
Principali limiti dell’approccio bottom-up sono: 
a) rischio di sottovalutare la capacità dei decisori di influenzare obiettivi, 
preferenze e strategie degli altri attori, grazie all’impiego delle risorse che 
controllano; 
b) elevata soggettività lasciata al ricercatore nella valutazione degli esiti della 
policy, non essendoci più il parametro rappresentato dagli obiettivi dichiarati del 
programma. 
Una possibile sintesi di questi due approcci potrebbe comprendere: 
a) verifica di quanto i policy-makers siano in grado di conseguire gli obiettivi che 
si prefiggono; 
b) indagine anche dal basso, per cercare tutti i fattori che hanno influenzato 
l’efficacia della policy; 
c) considerazione non solo dei soggetti il cui intervento sia previsto dai programmi 
da mettere in opera, ma anche di altri attori (compresi i destinatari) che abbiano 
svolto un ruolo significativo, quali che siano le previsioni formali circa la 
distribuzione di competenze e poteri. 
La corrispondenza tra burocrazia e attuazione va mitigata alla luce del fatto che le 
burocrazie intervengono anche in altre fasi del processo di policy, in particolare 
consigliando i decisori, contribuendo a formare l’agenda e valendosi dei margini di 
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autonomia di cui godono per plasmare in maniera sostanziale le politiche nel corso 
della loro attuazione, magari per aumentarne l’efficacia nel produrre beni pubblici.  
Inoltre gli stessi destinatari non recepiscono passivamente le politiche ma 
esercitano pressioni su decisori e attuatori affinché mutino le politiche in itinere. 
Spesso più pubbliche amministrazioni sono responsabili dell’attuazione della stessa 
policy, per cui la loro capacità di collaborazione influenza l’efficacia.  
Si può pertanto pervenire a due generalizzazioni: 
a) contrariamente all’attuazione come mera attività tecnico-esecutiva, essa risulta 
avere una valenza politica. E’ in sede di attuazione che si determina in cosa 
consista effettivamente una politica pubblica, quali siano i suoi reali scopi e 
soprattutto le sue reali conseguenze in termini di allocazione di risorse. I 
soggetti portatori di interessi e aspirazioni intervengono anche durante 
l’attuazione ottenendo correzioni di rotta. Pertanto la reale distribuzione del 
potere è verificabile soltanto considerando l’intero processo di policy, e non 
solo la fase della sua formulazione da parte dei decisori. 
b) La distinzione tra fasi di formulazione e di attuazione si riferisce a una sequenza 
logica ma non cronologica, per via delle continue riformulazioni e 
trasformazioni in fase attuativa decise anche in base ai risultati prodotti o ai 
cambiamenti del contesto sociale in cui la politica pubblica si sviluppa.