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Vantaggi e svantaggi del modello dell'ottima corrispondenza


Nel modello dell’ottima corrispondenza qual è il rischio che noi abbiamo? Che per ogni funzione, per ogni bene o servizio che viene fornito dal settore pubblico locale, noi rischiamo di dover costruire una giurisdizione: quindi avremo un numero di n giurisdizioni per ogni numero n di servizi, con il rischio di una inflazione di giurisdizioni.
In più si finirebbe con l’avere un eccessivo numero di amministratori da controllare, in quanto avremmo un’assemblea per ogni servizio; avremmo un modello puro di tipo funzionale; avremmo un grosso costo amministrativo perché avremmo il massimo di diseconomie di funzione, perché avremmo costi di amministrazione per ogni servizio, e anche dei costi di coordinamento in quanto ci sarebbero dei servizi con delle forti interdipendenze (esempio dei servizi stradali e di trasporto pubblico locale).
I vantaggi sarebbero dati dal poter tenere conto delle preferenze dei cittadini, si avrebbe una maggiore possibilità di controllo delle politiche settoriali; e si ha il vantaggio principale dell’efficienza.
Evidentemente non si può arrivare ad una situazione di polverizzazione di enti polifunzionali, però siccome si hanno sia costi che vantaggi, si deve cercare di arrivare ad un equilibrio.
In Italia abbiamo casi di amministrazioni settoriali funzionali, come ad esempio le amministrazioni regionali per la protezione ambientale.
Questi casi sono la dimostrazione che il modello dell’ottima corrispondenza ha trovato delle realizzazioni pratiche che rispondono a delle esigenze di tipo economico.
Questi ragionamenti, che sembrano molto astratti, hanno finito con l’incidere anche a livello costituzionale nell’Unione Europea: uno dei grandi dibattiti che c’è stato è quello inerente la dimensione del governo locale, questo grande dibattito c’è stato sui cosiddetti piccoli villaggi delle grandi città, vale a dire uno dei grandi problemi che abbiamo avuto e che abbiamo cercato di affrontare con le grandi riforme, cioè “il problema del piccolo e del grande”. C’è stato il rischio di dire troppo che il piccolo è bello e che il grande è brutto, e abbiamo avuto un grosso problema di necessità di riorganizzazione a livello locale per superare soprattutto i due grandi problemi che abbiamo visto per trovare la dimensione territoriale ottimale dei governi locali, ovvero le economie di scala e le esternalità. I problemi dominanti nei piccoli comuni sono quelli connessi alle economie di scala, in quanto abbiamo una polverizzazione dei servizi che non raggiungono delle economie di scala, in quanto si ha un problema di soglia minima di qualunque tipologia di servizio a livello di numero di abitanti; invece per le grandi città il problema non è quello tanto delle economie di scala, che comunque vengono raggiunte, ma il problema è quello del controllo delle esternalità: le conurbazioni sono per definizione un mondo di esternalità reciproche generate dal fatto che ormai nelle grandi aree metropolitane un cittadino risiede nel comune dove dorme, ma nello stesso tempo va a lavorare nel comune vicino, e poi magari utilizza il suo tempo libero in un altro comune ancora dove fruisce di certi servizi. Abbiamo quindi un’interdipendenza in cui il cittadino utilizza i servizi di un comune senza pagarne i costi; quindi il problema è proprio quello del controllo delle internalizzazioni delle esternalità.
Già nella legislazione degli anni ’90 osserviamo il riconoscimento del principio di differenziazione dell’allocazione delle funzioni in considerazione delle diverse caratteristiche associative, demografiche, strutturali e territoriali, cioè la Legge 59 meglio conosciuta come Legge Bassanini 1 ha riconosciuto per prima questo principio, il principio di differenzione, secondo cui dobbiamo attribuire funzioni diverse in base alle caratteristiche dell’ente, quindi dimensioni diverse possono ricevere funzioni diverse.
L’altro principio che poi è stato riconosciuto nel nuovo articolo 118 della Costituzione è un triplice principio, di sussidiarietà, di differenziazione (che era già stato riconosciuto nella Bassanini) e di adeguatezza (secondo cui l’attribuzione delle competenze deve essere garantita dall’adeguatezza dell’ente ricevente). Infine è stato riconosciuto il principio dell’autonomia statutaria organizzativa dei comuni nell’articolo 114 della Costituzione e diversi articoli del testo  unico delle autonomie locali, è questo è un riconoscimento dell’autonomia politica.
Dove si trova quel problema dei piccoli villaggi e delle grandi città? La struttura demografica della popolazione italiana è articolata in comuni in cui ci troviamo di fronte ad una massiccia presenza dei cosiddetti comuni lilliput, con più del 55 % dei comuni che hanno neanche il 10 % della popolazione, mentre abbiamo 12 comuni superiori a 250mila abitanti che hanno più dei 15 % della popolazione.
Questo è sostanzialmente il grande problema della riforma locale nel nostro Paese, e per affrontarlo, le ipotesi avanzate erano quelle dell’aggregazione dei comuni attraverso forme di operazione intercomunali oppure di regime differenziato nelle grandi città per cui praticamente per le 12 maggiori città italiane si sarebbe previsto un regime differenziato (il cosiddetto regime delle città metropolitane), ma che ancora non sono state istituite, almeno non qui da noi in Italia. Questo perché un governo locale metropolitano in Italia sarebbe troppo forte, forte come una regione, e quindi si avrebbero problemi di concorrenza istituzionale, di conflittualità.
Come convertire questa concorrenza in un vantaggio per il cittadino? È il problema su cui si confrontano anche gli strumenti dell’analisi economica.
Quando si guarda alla dimensione media dei comuni in alcuni Paesi dell’OCSE, ci rendiamo conto però delle enormi differenze che ci sono, ma comunque non siamo neanche i peggio messi: in Germania, Spagna e Francia abbiamo strutture di associazionismo intercomunali molto più forti, e in Germania abbiamo proprio un sistema di governo federale in cui gli stati federati hanno molto poteri rispetto ai governi locali, e quindi impongono forme di aggregazione e di politiche intercomunali molto strutturate.
La Francia è il Paese dove per mantenere questa dimensione intercomunale molto bassa si è accettato un ruolo molto forte della cosiddetta intercomunalitè, con forme intergovernative regolate da leggi statali molto accentuate; è una scelta alternativa a quella delle fusioni intercomunali.
Il Regno Unito ha avuto grandissime riforme fra gli anni ’60 e gli anni ’70 che hanno ridotto drasticamente il numero delle istituzioni locali.
Il problema della frammentazione è stato comunque affrontato da tutti i Paesi più sviluppati, e per trovare soluzioni ci si è confrontati prima con il disegno territoriale con l’attribuzione delle funzioni, come avvicinarsi a modelli funzionali senza perdere le caratteristiche dei modelli di decentramento.
Il caso italiano è quello delle aggregazioni intercomunali definibili unioni, che è il più interessante e il più versatile.
Le unioni fra comuni sono una forma aggregativa che si basava su un livello di governo di secondo grado come le assemblee, regolata dalla legge: abbiamo avuto unioni di comuni molto piccoli, con obiettivi massimi di efficienza gestionale nei servizi di base, e unioni fra comuni medio grandi con obiettivi di politiche generali di area vasta; quindi nel primo caso erano obiettivi connessi al raggiungimento di economie di scala, mentre nel secondo gli obiettivi erano finalizzati ad un discorso di controllo delle esternalità.
In tutti i casi però il decollo ha stentato perché è risultato difficile nel sistema italiano, a differenze invece di quello francese, trovare i modelli di finanziamento delle unioni efficaci, cioè la cooperazione intercomunale funziona se queste aggregazioni dispongono di risorse proprie. Nel caso italiano questo non è stato reso possibile dalla Legge, mentre nel caso francese le intercomunalità si è basata anche su risorse proprie.
Abbiamo la curva classica degli studi di finanza locale degli ultimi cinquant’anni, è la cosiddetta curva ad U del governo locale, cioè la curva che prendendo i livelli di spesa procapite medi per classi di popolazione, banalmente mostra che aggregando i comuni noi possiamo arrivare ad una spesa procapite media più bassa fra 5 e 10mila abitanti; questa curva ad U è dovuta soprattutto alle cosiddette     economie di funzione, cioè la diminuzione delle spese è dominata dalle economie di scala delle spese amministrative.
Avevamo cominciato ad affrontare la verifica pratica di alcuni problemi di tipo teorico-concettuale che avevamo analizzato nelle precedenti lezioni. Avevamo visto quattro punti:
primo punto: metafora delle grandi problematiche del governo locale si riconduce al discorso delle grandi città e dei piccoli villaggi. In realtà se si guarda alle problematiche dei governi locali, una grossa quantità di questi problemi nasce dalle dimensioni dei governi locali. Ad esempio si prenda il livello più basso di governo locale: il comune. I problemi sono legati alle sue dimensioni. Se guardiamo tutte le leggi di riforma del governo locale (in Italia ma anche in Francia, che ha una situazione simile alla nostra), gran parte di queste leggi sono create per identificare strumenti di tipo istituzionali ma anche finanziari per ovviare al problema del “troppo piccolo o troppo grande” e quindi identificare strumenti soprattutto di tipo cooperativo per quanto concerne le dimensioni troppo piccole oppure sia di tipo cooperativo sia di tipo in termini di indomazione istituzionale per quello che concerne le aree territoriali troppo grandi (le aree metropolitane). Nel mondo le popolazioni che vivono in aree urbane è in continua crescita (oggi si attesta intorno al 60% della popolazione mondiale). Questi fenomeni socio-economico-demografici che sono da un lato l'urbanizzazione e dall'altro, ad esempio, lo spopolamento delle aree montane (come sta succedendo da diverso tempo in Italia), provocano diversi problemi all'organizzazione dei governi locali e portano a far emergere il secondo punto: principio di differenziazione dell'allocazione delle funzioni tra governi locali in considerazioni di queste differenti caratteristiche demografiche territoriali e strutturali degli enti in questione → questo è stato recepito nelle riforme anche in Italia a partire dagli anni '90 per la prima volta rispetto a un modello di organizzazione amministrativa di un governo locale che arrivava dall'unità d'Italia e poi con le leggi fatte sotto il fascismo che si basavano sull'uniformità completa indipendentemente dalla grandezza di questi governi locali. Si arriva poi a recepire il concetto di differenziazione e l'articolo 118 della costituzione che riconduce tutti i principi di organizzazione del governo locale al principio di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Sussidiarietà è stato già analizzato. Differenziazione significa che noi possiamo pensare per enti di governo locale dello stesso livello a regimi differenziati, quindi il comune metropolitano avrà più funzioni del comune medio e soprattutto  di quello piccolo, potrà avere regimi differenziati. Perciò si inserisce nell'organizzazione amministrativa un margine di flessibilità che cerchi di tenere conto maggiormente della continua mutevolezza dei fenomeni socio-economici che coinvolgono tutti i paesi oggi. In più si riconosce un principio grosso di autonomia statutaria organizzativa soprattutto per i comuni riconosciuto dall'art. 114 della Costituzione e anche dalle norme del testo unico del 2000 (è una legge che ha riunito tutte le leggi che hanno fatto delle modifiche a partire dalla 142/90 - quest'ultima è stata la prima grande del governo locale che ancora si basava sulle leggi del 1931 – 1934 che erano anch'essi testi unici) che ha ribadito tutta una serie di principi che poi di fatto sono stati potenziati  dalla riforma della costituzione del 2003. Abbiamo questa enorme differenziazione tra il peso percentuale dei comuni e il peso della popolazione →  lo 0,2% dei comuni copre il 15% della popolazione italiana! Perché tutto questo è importante? Perché se introduciamo un principio di differenziazione nell'ordinamento e nelle funzioni dei comuni allora dobbiamo implicitamente accettare una differenziazione nei sistemi di finanziamento però (e se ne parlerà più avanti) ci sarebbe da discutere sui regimi differenziati di finanziamento per enti locali di pari livello. Fino ad oggi questo non si è realizzato (anche se sta emergendo → ad esempio il decreto delegato della legge 142 dopo la riforma del sistema fiscale del 2009 è sull'ordinamento di Roma capitale, proprio un ordinamento differenziato rispetto alle altre grandi aree metropolitane previsto dalla costituzione ma che certamente è una prima applicazione pratica di questi principi). In realtà i decreti delegati fanno piccoli passi in avanti ma rinviano a successivi decreti la definizione concreta degli strumenti di finanziamento di Roma capitale → i principi sono accennati, ma la loro messa in pratica è molto complessa! Tutta la teoria economica del governo locale e poi anche tutti i principi che abbiamo visto (“economie di scala” ed “esternalità” come criteri per l'assegnazione delle funzioni) li ritroviamo subito sulle due tipologie di comuni: sui comuni piccoli il principio dominante per la riorganizzazione sarà il principio di aggregazione intercomunale dominato dal punto di vista economico dall'obiettivo del raggiungimento dell'economicità (se non ci fosse questo problema non ci sarebbe motivo per non avere tanti piccoli comuni – idea di democrazia comunale – ma il vero problema è che questo ha un costo; non è un costo enorme - in cifre assolute, i risparmi della spesa pubblica non sarebbero enorme se i piccoli comuni raggiungessero  i livelli dei costi pro capite dei comuni medi; il vantaggio sarebbe sui costi di transizione che avvengono a vari livelli verso la moltitudine dei comuni). Rispetto ad altri paesi (Svezia, Belgio) noi abbiamo avuto ancora negli anni '70 fenomeni di aggregazione di comuni molto rilevanti. La Francia è invece uno dei paesi con la maggiore polverizzazione comunale che ha risolto con una legislazione di sostegno alla cooperazione intercomunale molto efficace → ci sono troppi comuni ma dobbiamo pensare anche alla bontà delle politiche (strumenti di cooperazione di tipo fiscale attraverso associazioni di comuni che compartecipano alle principali basi imponibili). Gli studi fatti sulle unioni intercomunali hanno presentato caratteristiche molto differenziate fra comuni piccoli e comuni grandi → mentre le unioni dei comuni piccoli si pongono obiettivi di efficienza gestionale, quelle tra i comuni medio-grandi che vanno ad investire enti con più funzioni e aree più grandi si pongono problemi anche di pianificazione territoriale. Questi soggetti funzionano abbastanza bene ma non sono dotati di risorse proprie (e questa è una differenza rispetto al modello francese). Le ultime proposte spingono nella direzione di una compartecipazione al gettito per fornirle.

Tratto da SCIENZE DELLE FINANZE di Andrea Balla
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