II
temperamento illuminista si sposa così bene in Beyle con quello romantico. Ciò che 
per gli altri appare una contraddizione, per Stendhal è solo una coincidentia 
oppositorum. Stendhal cambia le carte del gioco; unisce immaginazione e senso della 
realtà, logica e vaghezza, facendoli risultare due facce della stessa medaglia. Ciò sta 
alla base della sua estetica, ma le radici di questo atteggiamento si trovano molto 
lontano, già nella sua infelice infanzia. Beyle ha dovuto fin da giovane lottare per 
contrastare l’aridità paterna, pronta a giudicare ogni suo slancio di immaginazione, 
sintomatico di ogni temperamento artistico, come un sintomo di follia. E nella sua 
follia romanzesca Stendhal ha cercato di preservarsi: “Vivevo solitario e pazzo come 
uno spagnolo a mille leghe dalla vita reale”
1
, si ripete l’autore nei ricordi 
autobiografici. Da questa prospettiva ha iniziato ad osservare il mondo e se stesso, ed 
è sempre da qui che ha gettato le basi, se pur non del tutto ancora consapevolmente, 
della sua futura vita artistica. 
 Stendhal ha scritto il suo primo romanzo a quarantatre anni. Se ciò può 
sembrare strano, è anche vero che quella di diventare romanziere non fu affatto 
un’illuminazione improvvisa. Stendhal, come suggerisce in maniera molto 
convincente Michel Crouzet
2
, già per il solo fatto di essere un assiduo lettore, si 
trovava all’interno dei problemi del romanzo prima ancora di scoprire la sua vera 
vocazione. E le origini del suo pensiero estetico le troviamo già nell’infanzia, in quel 
godere nascondendosi, in quel darsi dissimulandosi, che oltre a darci un’idea della 
sua personalità, ci schiude le porte per un interpretazione coerente della sua opera. 
                                                 
1
 Stendhal, Vita di Henry Broulard. Ricordi d’Egotismo, Adelphi, Milano 1964, p.11 
2
 M. Crouzet, Come e perché Stendhal è diventato romanziere, in Stendhal, Romanzi e 
racconti, Mondadori, Milano 1996 
 III
Non è un caso che Adorno nella Teoria Estetica
3
 citi più di una volta una 
delle famose frasi stendhaliane, ovvero che la bellezza è promessa di felicità. Se 
Stendhal nascondeva la felicità che una lettura divertente gli procurava, è perché in 
tale felicità si nascondeva a sua volta qualcosa di più pericoloso: la perdita del senso 
della realtà propria della dimensione ‘romanzesca’. Ma ancora di più, l’appassionato 
lettore era già abbastanza scaltro da comprendere che tale felicità era apparente. 
Chiuso il libro, si riaffacciava minacciosa la sua quotidianità. Perciò, per meglio 
goderla, bisognava dissimulare questa felicità e tuttavia tale dissimulazione 
conteneva un po’ di verità nella consapevolezza dell’apparenza, cioè della falsità di 
ciò che faceva intravedere come vero. Il paradosso dell’arte è per Adorno proprio un 
‘dire disdicendo’. Alla base di questo paradosso sta il concetto, anch’esso di 
conseguenza paradossale, dell’autonomia dell’arte. Il concetto dell’ art pour l’art 
contiene già in sé quello opposto della mimesis del mondo. L’arte può essere una 
rappresentazione del mondo solo se è supposta la sua autonomia dal mondo; in altre 
parole, l’arte solo dal proprio interno può riflettere il mondo. Un’arte che non fosse 
consapevole di ciò, risulterebbe solo astratta e verrebbe meno al fine che si è 
prefissata, ovvero quello di proporre una valida alternativa al ‘tutto vigente’. 
L’autonomia dell’arte comporta allora che essa sia ad un tempo apparenza ed 
essenza; vale a dire che solo manifestando la propria apparenza, il suo essere forma e 
quindi finzione, può arrivare alla sua essenza. 
Il concetto di autonomia dell’arte trova, a mio avviso, una sua conferma 
proprio nel romanzo stendhaliano. Per Stendhal il romanzo è uno specchio che ci 
portiamo dietro lungo la strada e che riflette indifferentemente il brutto e il bello 
della realtà. Secondo questo punto di vista, allora il romanzo rispecchia la realtà 
                                                 
3
 T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975 
 IV
senza operare scelte aprioristiche. Lo specchio è metafora della finzione letteraria 
dalla quale, come un riflesso, si intravede la realtà. Ma lo specchio non è ovviamente 
la realtà: è apparenza, cioè forma artistica e perciò stesso autonoma dalla realtà.  
Georges Blin
4
 a proposito dell’estetica dello specchio specifica che Stendhal 
pone lo specchio sempre in una posizione privilegiata, come a riflettere le cose da 
una prospettiva aerea. Questa altezza è propria, continua l’autore, dello spagnolismo, 
termine utilizzato per definire il romanzesco stendhaliano (spagnolismo appunto 
perché deriva dal Don Chisciotte di Cervantes). Il romanzesco si nutre di letture che 
falsano la realtà, come le letture cavalleresche di Don Chisciotte, di modo che l’eroe 
del romanzo crede che sia la realtà a non essere vera, ovvero la scambia per un 
illusione. Di qui il necessario fallimento dell’eroe, che vede vanificato ogni sforzo di 
conciliare il suo ideale con la realtà. L’originalità di Stendhal sta proprio infatti 
nell’aver unito romanzesco e realtà, nell’aver capito che l’essenza dell’opera d’arte si 
dà solo attraverso l’apparenza dello specchio. Ciò, secondo Crouzet, il romanziere lo 
ottiene proprio radicalizzando il romanzesco nel reale, smascherando cioè 
l’apparenza dell’opera d’arte e quindi della felicità che da questa deriva. Tale felicità 
è, per dirla con Adorno, quel di più che trascende l’opera d’arte. In questo caso il 
romanzo si dà come finzione letteraria e tuttavia, proprio nel manifestare la propria 
apparenza, rivela un contenuto di verità. Stendhal scopre in questo movimento che 
unisce romanzo e romanzesco, realtà e apparenza, ciò che rende la verità dell’arte, e 
con essa della vita, proprio perché l’apparenza romanzesca si autodenuncia come 
falsa. L’ironia, come insegna anche Lukács
5
, è il mezzo tramite il quale l’arte 
smaschera se stessa. L’ironia smaschera il romanzo proprio manifestando la sua 
                                                 
4
 G. Blin, Stendhal e les problèmes du roman, Ed. Josè Corti, Parigi 1954 
5
 G. Lukács, Teoria del Romanzo, Nuove Pratiche Ed., Parma 1994 
 V
apparenza. Secondo Peter Brooks
6
 il romanzo denuncia l’artificilità della trama in 
particolare nei finali; esemplari sono quelli di Stendhal in cui l’autore sembra aver 
fretta di concludere.  
In questa tensione tra dire e non dire, o meglio tra dire e disdire, l’arte 
manifesta la propria verità. Una verità che ancora una volta non può che essere 
paradossalmente una non verità, per il solo fatto che a dirla è l’apparenza, la finzione 
della forma; allora possiamo affermare con Adorno che “le arti il loro contenuto di 
verità lo hanno e non lo hanno”
7
. Ma cos’è questa verità? Per il filosofo tedesco la 
verità è la soluzione dell’enigma dell’opera d’arte; è la risposta alla domanda: l’arte è 
promessa o inganno? e la risposta è ancora una volta un paradosso: l’arte è la 
promessa di un inganno; è “promessa di felicità, ma una promessa che non viene 
mantenuta”
8
. L’arte promette ciò che non può promettere, altrimenti sarebbe 
redentrice e mentirebbe spudoratamente; invece, proprio per il fatto che l’opera 
d’arte sa di non poter mantenere la promessa, si salva. Bisogna quindi continuare a 
sperare anche se non c’è più speranza. Bisogna continuare a fare arte perché solo 
l’arte, dall’alto della sua finzione romanzesca, può dare la verità della vita. 
Partendo proprio dalla formazione di Stendhal, attraversando la critica 
artistica, fino ad arrivare ai problemi propri del romanzo, questo lavoro scaverà alla 
ricerca della genesi, fin all’analisi del concetto di bellezza in Stendhal. Tale 
concezione della bellezza come promessa di felicità farà da filo rosso all’intera opera 
stendhaliana. 
                                                 
6
 P. Brooks, Trame, Einaudi, Torino 1995 
7
 T. W. Adorno, Teoria estetica, op. cit., p.184 
8
 ivi, p.194 
 VI
Già abbiamo dato un breve accenno della prima infanzia di Stendhal, nella 
quale l’allontanamento dal padre e il repentino avvicinamento alla famiglia materna 
porta il giovane Beyle a crearsi quel mito di una nascita adottiva che non tarderà a 
manifestarsi anche come desiderio di una nuova patria. La scelta di Stendhal cadrà 
sull’Italia, che oltre ad essere il paese originario della madre, rappresenta 
l’immaginario collettivo dell’amore, della vita, della felicità e quindi dell’arte. 
L’italianità è condizione primaria della possibilità dell’arte. Così facendo Stendhal si 
crea già la strada per la sua futura carriera artistica e, se comprende solo tardi la sua 
vocazione di romanziere, le motivazioni sono proprio da far risalire a quel suo amore 
appassionato per la lettura, che in Italia trova una sua realtà: in Italia non scrivono 
romanzi, perché qui i romanzi si vivono
9
.  
La felicità che lo colpiva come un’improvvisa evasione alla lettura di un libro 
è la stessa che Stendhal ritrova nella pittura, in particolare nei quadri del Correggio. 
Osservando i suoi dipinti, lo sguardo dell’osservatore passa dai primi piani, che per 
Stendhal rappresentano la “prosaica realtà”, ai secondi piani, fino a perdersi nello 
sfondo, dietro la linea tracciata dalle montagne. Stendhal considera la pittura un “arte 
delle lontananze”
10
, lontananze dove l’immaginazione si perde in luoghi romanzeschi 
che danno il miraggio di una felicità. Per far sì che ciò avvenga, l’osservatore si deve 
trovare a un tempo fuori e dentro il quadro; ecco perché diciamo che il quadro ci 
guarda. La rappresentazione del visibile, cioè delle linee e dei colori del dipinto, è ad 
un tempo, “presentazione di se stessa”
11
, ovvero di ciò che in essa sfugge alla vista. È 
quest’invisibile, in ultimo, la condizione di possibilità del visibile; è solo attraverso 
                                                 
9
 Cfr. M. Crouzet, Come e perché Stendhal è diventato romanziere, op. cit., pp.CXXIX- 
CXXX 
10
 Cfr. J.-P. Richard, Conoscenza e tenerezza in Stendhal, Rizzoli, Milano 1969 
11
 Cfr. G. Di Giacomo, Icona e arte astratta, Aesthetica Preprint, Palermo 1999 
 VII
quel frugare dello sguardo sulla tela che si può provare quella felicità evasiva di cui 
parla Stendhal.  
Per questo in un quadro è tanto importante l’espressione, perché solo questa 
riesce a comunicare con l’osservatore. L’espressione di un quadro deve pertanto 
rilevare lo stile di un pittore; stile che lo stesso Stendhal, seguendo i suoi maestri di 
arti visive, riporta all’interno dei suoi romanzi. Lo stile implicito dell’autore 
rispecchia coerentemente la concezione dell’arte come espressione, manifestando 
inoltre quell’intento di nascondere il dicibile dietro un velo di silenzio che, più che 
acquietare l’animo del lettore, lo turba.  
Stendhal trasporta nei suoi romanzi il senso di quella felicità che ha 
assaporato alle sue prime letture e che ha ritrovato nella contemplazione dei quadri 
del Correggio. I suoi romanzi colpiscono, catturano e rapiscono tanto più che la 
felicità che ne deriva, rimane intrappolata fra le pagine del libro.  
L’estetica lukácciana riporta alla luce il tema della felicità apparente 
attraverso la dialettica del senso e del non senso. Nel mondo abbandonato dagli dei 
l’immanenza del senso, che caratterizzava il mondo greco, è andata perduta. La vita 
nell’epoca attuale rimane abbandonata al non senso, alle “sue crepe e ai suoi abissi” e 
la ricerca del senso, ovvero la ricerca della felicità, si è fatta problematica. La forma-
romanzo nasce proprio come esigenza di ricerca di questo senso perduto e Lukács, 
attraverso le forme di questa ricerca, traccia una fenomenologia del romanzo 
moderno. Nonostante le numerose affinità fra il romanzo stendhaliano e l’estetica 
della Teoria del Romanzo, Stendhal non viene mai menzionato dall’autore. Il motivo 
di questa assenza ingiustificata, tanto più che Lukács non poteva non conoscere un 
autore della portata di Stendhal, è da riscontrarsi nella particolare fisionomia del 
romanzo stendhaliano, che difficilmente si lascia rinchiudere in una sola delle 
 VIII
tipologie abbozzate da Lukács nella seconda parte del saggio. Se infatti il passaggio 
dal romanzesco al romanzo comporta il trapasso dal romanzo del “l’idealismo 
astratto” a quello del “romanticismo della disillusione”; l’analisi del tempo e dei 
finali nel romanzo stendhaliano, porta quest’ultimo addirittura fuori dalla ‘linea-
Flaubert’
12
, la quale ammette la ricerca del senso solo nel romanzo, e lo rende 
suscettibile di un’interpretazione che si avvicina di molto alla ‘linea-Dostoevskij’
13
, 
che al contrario ricerca il senso nel non senso della vita.  
Tipici sono i momenti di illuminazione che avvengono in una dimensione 
atemporale. In questa zona, dove il tempo sembra fermarsi, i personaggi evadono 
dalla loro vita; così facendo evadono dalla processualità del romanzo e si catapultano 
fuori, in un romanzesco assoluto che, più che fuggire la realtà, sembra accettarla ad 
un livello più profondo, in tutto il suo non senso.  
Così anche la famosa frase sulla bellezza come promessa di felicità rende 
ragione di quest’ultimo accostamento: la felicità, che deriva dal romanzo, è una 
felicità apparente proprio perché vive nel romanzo, mentre la vita resta altra dal 
romanzo e rimane abbandonata al suo non senso. Tuttavia, proprio perché nella vita 
non c’è più speranza, bisogna continuare a sperare; bisogna continuare a credere alla 
promessa che l’arte ci fa, perché solo l’arte può farci continuare a sperare; può, per 
dirla con Adorno, farci scorgere una possibilità che riesca a contrastare ‘la signoria 
del esistente’. La felicità che deriva dall’arte si prospetta allora come una delle 
possibilità non dispiegatesi nell’esistente, una possibilità che è anche una speranza 
per un mondo migliore.  
                                                 
12
 Cfr. G. Di Giacomo, Estetica e letteratura, Laterza, Bari 1999 
13
 Ibid. 
 IX
 
2.2 Il sublime 
Nella Storia della Pittura Stendhal descrive Michelangelo (quadro 
6) come l’artista che più di tutti esprime “forza e terrore”
14
. Nel Giudizio 
Universale ad esempio Michelangelo, continua l’autore, “non si è limitato 
al genere non gradevole, ma è passato a quello terribile”
15
. Le opere di 
questo grande artista infatti non danno piacere, piuttosto intimidiscono: 
“Michelangelo sconvolge la nostra immaginazione sotto il peso della 
sventura. Tocca il dolore”
16
. 
Questo genere di sentimento si discosta dalla piacevole 
contemplazione che fa evadere dolcemente la nostra immaginazione in 
mondi lontani e getta invece l’animo in un turbine di sensazioni 
spiacevoli, come paura, terrore, dolore, sconvolgendo per intero la nostra 
immaginazione. Tale sentimento si avvicina molto a ciò che Edmund 
Burke
17
 chiama sublime. Stendhal conosceva l’opera di Burke, Ricerca 
                                                 
14
 Stendhal, Storia della pittura in Italia, op. cit., p.83 
15
 ivi, p.379 
16
 ivi, p.392 
17
 Edmund Burke (1729-1797) filosofo inglese. Il suo nome è legato all’opera Ricerca 
sull’origine delle idee di bello e sublime in cui l’autore  presenta un’analisi del sentimento 
del bello e del sublime, dando per la prima volta una organizzazione sistematica del dibattito 
che aveva attraversato tutta la cultura inglese della prima metà del Settecento. In realtà 
l’analisi del sublime, come sentimento che si distingue dal bello, aveva radici più lontane. In 
un epoca incerta, fra il primo e terzo secolo dopo Cristo, in piena età ellenistica, comparse un 
trattato anonimo, attribuito allo Pseudo Longino, intitolato proprio Sul Sublime e conosciuto 
in tutta l’Inghilterra del tempo, dove si analizzava il sublime nell’arte oratoria. In Inghilterra 
il dibattito sul sublime si intrecciava con quello della poesia sacra e soprattutto 
nell’esaltazione della natura impetuosa. In Burke l’analisi del bello e del sublime si pone 
come analisi delle passioni. Egli distingue nettamente il bello dal sublime, definendo 
quest’ultimo come qualcosa che suscita terrore e insieme stupore; un piacere quindi che ci 
 X
sull’origine del Bello e del Sublime, nella traduzione in francese
18
, in cui 
l’autore distingueva nettamente il sentimento del bello da quello del 
sublime, definendo quest’ultimo come ciò che incute terrore e spavento. 
Un sentimento, in definitiva, ‘terribile’, lo stesso che Stendhal prova di 
fronte le opere di Michelangelo. Kant nella Critica della facoltà di 
giudizio definisce il sublime come “un movimento che può essere 
paragonato all’inizio ad uno scuotimento, vale a dire a un’attrazione e 
repulsione del medesimo oggetto che si avvicendano rapidamente”
19
. Ciò 
ha che fare con un piacere negativo, ovvero un piacere respingente, quasi 
violento per l’immaginazione. Stendhal, abbracciando il sublime, estende 
così il bello a tutto ciò che è tenebroso, fantastico e orrido, anticipando in 
questo modo quello che sarà un gusto propriamente romantico. Infatti 
Luigi Magnani scrive: “Si attua così il passaggio da una concezione 
razionale e intellettuale dell’arte, quale era in voga preso le accademie 
parigine dell’epoca, ad una naturalistica ed emotiva che porta Stendhal ad 
avvicinare il sublime a Michelangelo”
20
. 
 
                                                                                                                                          
respinge e ci attrae allo stesso tempo. Così si delinea un nuovo gusto, che anticipa quello 
romantico del brutto, in ciò che l’autore definisce come piacere negativo, contrapposto al 
piacere positivo del bello. Ma la vera sistematizzazione teorica di tali concetti la diede Kant 
nella Critica della facoltà di giudizio (1790). (crf. AA.VV. Manuale di storia della filosofia 
2, Laterza Bari 1999, pp. 285-288)  
18
 E. Burke, Ricerche philosophiche sur l’origine de nos idées du Sublime et du Beau, trad. 
Par E. Lagente, Pichon et Dapierreaux, Paris 1803 (cfr. Luigi Magnani, Stendhal e il sublime, 
in L’idea della Certosa, op. cit., p.52). 
19
 I. Kant, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino 1999, p.94 
20
 L. Magnani, L’idea della Certosa, op. cit., p.55 
 XI
3.1 La polemica tra Balzac e Stendhal 
Sulla Reveù Parisienne appare un lungo saggio di Balzac a proposito 
della Certosa di Parma di Stendhal, autore in dell’epoca ancora poco 
conosciuto. Lo stesso Balzac si difende, quasi prendendosi beffe di eventuali 
critiche, dichiarando: “Mi si dirà che mi diverto a creare paradossi, a dare 
valore a dei nonnulla, che anche io, come Sainte-Beuve, ho i miei cari 
sconosciuti!”
21
. In realtà Balzac, con sorprendente spirito anticipatore, 
intuisce a pieno la grandezza di quello che non tarderà, per i posteri, a 
divenire il suo più grande rivale. Ciò che affascina nello scritto di Balzac è il 
suo appassionato sforzo, unito ad una ammirevole onestà letteraria
22
, di far 
comprendere ai lettori la genialità di Stendhal. Difficilmente non si resterà 
catturati, leggendo il resoconto minuzioso che l’autore fa delle intricate 
trame della Certosa, dal fascino che la sincera ammirazione di Balzac nutre 
per l’autore che ha fatto “un libro in cui il sublime erompe capitolo per 
capitolo”
23
. Lo stesso Stendhal, a quanto scrive Lukács, ne resta lusingato, 
ma le divergenze tra i due autori non sono affatto soffocate dalla loro 
reciproca ammirazione. Ciò che Balzac ammira in primo luogo in Stendhal, è 
proprio il suo ostinato impegno nel tendere all’essenzialità del discorso come 
dell’evento raccontato, tanto che, dice l’autore, il poeta non si china neanche 
per un istante a raccogliere un fiore lungo il sentiero, ma punta dritto 
                                                 
21
 H. de Balzac, Studi su M. Beyle, in Poetica del Romanzo, Sansoni, Firenze 2000,  p.343 
22
 Balzac scrive: “Se, malgrado la sua importanza, ho atteso così a lungo prima di parlare di 
questo libro, credetemi: mi risultava difficile acquistare una certa imparzialità. Non sono 
ancora certo di poterla mantenere, a tal punto trovo quest’opera straordinaria ad una terza 
lettura, lenta e meditata” (ivi, p.337) 
23
 Ibid. 
 XII
all’essenza del suo dramma, che pagina dopo pagina accelera gli eventi 
proprio come un ditirambo
24
. La tensione che suscita passo dopo passo, 
accadimento dopo accadimento, misura esattamente quella di un’opera 
teatrale, dove, alla fine, sebbene Stendhal tratti più di cento personaggi 
insieme e costruisca trame intrecciate le une alle altre, la visione d’insieme 
non si perde minimamente, così come la tensione drammatica che lega scena 
dopo scena. I fiori, come scene cucite nella trama del libro, non vi sono 
applicati, ma cuciti nella stoffa
25
. La parola di Stendhal è tagliente e ha, 
come l’espressione teatrale, qualcosa di oscuramente violento
26
. Ma leggiamo 
direttamente Balzac: “Leggendo questo romanzo non incontrerete quelle 
digressioni che vengono giustamente definite tirate. No, i personaggi 
agiscono riflettono, provano sentimenti e il dramma non si arresta mai”
27
. E 
poche pagine più avanti: 
Alla prima lettura, quella che mi ha letteralmente sbalordito, ho trovato dei difetti. 
Rileggendo, le lungaggini sono sparite, capivo la necessità del dettaglio che, 
dapprima, mi era parso troppo lungo e diffuso. Per rendere conto a voi lettori come 
si doveva, ho percorso l’opera. Occupato allora dello stile, ho contemplato questo 
bel libro più a lungo di quanto volessi, e tutto mi è parso molto armonioso, 
collegato con naturalezza e con arte, ma coerente
28
. 
                                                 
24
 Cfr. ivi, p.367 
25
 Cfr. ivi, p.359 
26
 Cfr. M. Crouzet, Stendhal et la poétique du fragment, Stendhal Club. Losanne XXIV 
1981-82, p.167 
27
 H. de Balzac, Studi su M. Beyle, op. cit., p.367 
28
 ivi, p.383 
 XIII
5.2 Il tempo nel romanzo 
Non è un caso che Lukács introduca la trattazione del tempo proprio 
all’interno del romanzo del “romanticismo della disillusione”; è infatti grazie 
al tempo, inteso come durata
29
, che si esplicita il fallimento di questo tipo di 
romanzo. Non è tanto l’astrattezza dell’ideale perseguito dall’eroe, ma lo 
scorrere del tempo che fa emergere “la discrepanza di idea e realtà”
30
 propria 
della nostra epoca. Come scrive Lukács: “La soggettività non è in grado di 
non perdere terreno nei confronti del fluire costante, monotono del tempo”
31
.  
                                                 
29
 G. Lukács intende per tempo effettivo la durée bergsoniana: “Soltanto la forma del 
trascendentale esilio dell’idea, il romanzo, introduce nella serie dei suoi principi costitutivi il 
tempo effettivo, la durée bergsoniana” (Lukàcs, op. cit., p.150).  Henri Bergson in uno dei 
suoi primi scritti, Saggio sui dati immediati della coscienza, distingue il tempo spazializzato, 
proprio dei procedimenti scientifici, dal tempo vissuto, ossia la durata effettiva e interna della 
coscienza. Il tempo vissuto a differenza di quello spazializzato, il quale è frutto di 
un’operazione dell’intelligenza che riduce all’omogeneo, ossia a distinzioni e rapporti 
soltanto quantitativi e perciò misurabili, è sempre intrinsecamente diverso, 
incommensurabile, qualitativamente eterogeneo. Eppure il tempo vissuto dà più l’idea di un 
tempo reale perché non semplifica la coscienza come tanti atomi distinti e isolati di cui essa 
ne sarebbe il semplice aggregato o la somma, ma, al contrario, la riconosce come un’unità 
profonda e complessa. Nel tempo vissuto non ci possono essere rapporti meccanici fra i 
singoli momenti, in quanto ogni momento è intrinsecamente qualificato dalla sua unità con 
tutti gli altri. Un ruolo importante svolge in questo senso la memoria in quanto, tramite la 
memoria, in ogni istante della nostra vita confluisce l’intero nostro passato, e questo spiega 
perché la durata, come tempo vissuto, sia irreversibile e perciò stesso reale, al contrario 
dell’astratto tempo spazializzato considerato invece reversibile. (Cfr. Adorno, Gregory, 
Verra, Manuale di storia della filosofia 3, Edizioni Laterza, Roma-Bari 1996, pp.287-288) 
30
 G. Lukàcs, La Teoria del Romanzo, op. cit., p.150 
31
 Ibid. 
 XIV
È nel romanzo, “forma trascendentale dell’esilio dell’idea”, che il 
tempo trova il suo compimento. Sembra infatti che “l’intera azione del 
romanzo si tramuti in una lotta continua contro il tempo”
32
.  
Ciò distingue profondamente il romanzo dall’epopea. L’epopea non 
possiede che solo apparentemente il concetto del tempo. Esso esiste solo 
come una constatazione, un dato di fatto, si pensi ai dieci anni dell’Iliade e 
dell’Odissea
33
, che in realtà non apportano nessun effettivo cambiamento: gli 
eroi dell’epopea non invecchiano mai, la loro età fa tutt’uno con il loro 
carattere e così: “Nestore è vecchio, come Elena è bella, e Agamennone 
possente”
34
. Il tempo ha perciò solo la funzione di valorizzare le imprese 
degli eroi, ma essi non vivono nel tempo, non lo sperimentano come veri 
uomini, ma vivono in una dimensione di atemporalità propria degli dei 
dell’Olimpo. Il tempo nell’epopea è qualcosa di statico, immobile, 
“l’invecchiamento, la morte solo una constatazione”
35
. Esso prende le 
dimensioni di uno spazio dove gli eroi sono liberi di muoversi avanti e 
indietro, in maniera cioè reversibile (mentre il tempo reale è irreversibile) 
senza nessuna direzione che indichi dove vadano. 
Solo quando è cessato il legame con la patria trascendentale, ed essa 
diventa un ideale non più raggiungibile, il tempo acquista il suo carattere 
costitutivo. Il tempo è perciò costitutivo della forma-romanzo nella misura in 
cui questo è un continuo cercare e non trovare, una tensione infinita verso 
                                                 
32
 ivi, p.152 
33
 ivi, pp.150-151 
34
 ivi, p.151 
35
 Ibid. 
 XV
l’ideale irraggiungibile. Il legame tra epopea e romanzo sta proprio in 
questo: il tempo dà l’obbiettività epica nel momento in cui rappresenta la 
perdita dell’immanenza del senso. Il tempo si concretizza nel romanzo 
proprio come la forma di questa immanenza, nel suo essere “un continuum 
concreto”
36
, opposto all’astratta temporalità dell’epopea, che avendo già di 
per sé l’immanenza del senso nella vita, non aveva bisogno del tempo, non 
aveva bisogno di cambiare per cercare altro. La staticità del tempo 
nell’epopea raffigurava proprio la pienezza della vita e il conseguente 
appagamento che caratterizzava quell’epoca ancora non abbandonata dagli 
dei. Tornando al tempo nel romanzo si può affermare che esso, se da un lato 
determina il processo di dissoluzione del “romanticismo della disillusione”, 
dall’altro è il solo che potrebbe salvare il romanzo da tale dissoluzione. Se 
l’ideale appare infatti quale costitutivo solo dell’immaturità dell’anima
37
, 
allora il romanzo è la forma della virilità matura
38
 nella misura in cui il 
tempo rappresenta la pienezza della vita nell’unico modo possibile 
nell’epoca abbandonata dagli dei: esplicitando l’inutilità della ricerca. Il 
tempo supera la frammentarietà della realtà nel suo essere un processo 
infinito, un continuum organico
39
. La speranza, proiettata al futuro, e la 
memoria, al passato, sono le uniche due forme per mezzo delle quali il tempo 
esprime la sua organicità.  
                                                 
36
 ivi, p.155 
37
 ivi, p.152 
38
 ivi, p.153 
39
 ivi, p.155 
 XVI
Speranza e memoria sono le sole cose reali in un mondo dove le 
convenzioni hanno reso tutto apparente, esse sono i due poli che uniscono 
passato e futuro, gli estremi entro i quali si concretizza il procedere del 
tempo.