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cittadini di uno Stato chiedevano asilo presso le rappresentanze diplomatiche 
straniere che avevano sede in quello Stato. Veniva fondato su una presunta 
extra-territorialità della missione diplomatica, e lo Stato presso il quale 
aveva sede tale missione o rappresentanza diplomatica aveva l’obbligo di 
concedere alla persona il lasciapassare per poter uscire dalla sede e 
raggiungere il suo Stato di accoglienza e di asilo. 
Un concetto giuridico questo che esiste per lo più nel continente latino-
americano dove a partire dalla fine del secolo scorso molti sono i trattati e le 
convenzioni  in materia ( Trattato di Montevideo 1889, Convenzione 
dell’Avana 1928, Convenzione di Montevideo 1933, Trattato di Montevideo 
sull’asilo e sul rifugio politico 1939, Convenzione di Caracas 1954). Che per 
alcuni giuristi rappresenta una vera e propria consuetudine internazionale 
generale, ma per altri solo una pratica di umanità ed una convenienza 
politica. 
Altra forma è l’asilo territoriale, cioè la protezione concessa ad uno straniero 
entro il territorio di uno Stato, è una istituzione che ha radici lontane, ed è 
quella che normalmente invochiamo come asilo. 
Durante il Medioevo ed intorno al XVIII secolo coloro che erano colpevoli 
di reati comuni generalmente venivano estradati; mentre coloro che erano 
responsabili di reati politici venivano restituiti allo Stato di origine, in nome 
della solidarietà fra i principi nella lotta contro gli elementi sovversivi. 
Durante le guerre di religione si fece largamente ricorso a questo diritto di 
asilo,  non come diritto individuale di ottenere asilo ma come diritto dello 
Stato di concedere asilo a chi era perseguitato per motivi religiosi; pensiamo 
ai protestanti francesi rifugiati in Italia, Inghilterra ed in Prussia. 
La Rivoluzione Francese fece assurgere a principio giuridico e costituzionale 
il concetto dell’asilo per i perseguitati politici; infatti consacrato nella 
Costituzione francese del 1793 troviamo il diritto di ottenere l’asilo per 
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coloro che esiliavano in nome della libertà, così come   per coloro che 
lottano contro la tirannia , ma non per i tiranni stessi. 
La legge belga sull’estradizione del 1833 fu la prima che escluse 
l’estradizione per reati politici. 
Nel secolo scorso troviamo quindi l’asilo essenzialmente come strumento 
politico, per la lotta con i tiranni a favore del costituzionalismo, concedere 
l’asilo era un atto di interesse politico da parte dello Stato di accoglienza, 
non esisteva ancora un formale diritto d’asilo. 
Non è di facile ed immediata risposta la domanda: che cosa è il diritto 
d’asilo? Anche perché oggi nella sua moderna accezione trova fondamento 
nel diritto interno di vari Stati, forma oggetto di previsione e disciplina a 
livello costituzionale, legislativo o amministrativo, nel diritto internazionale, 
come atto umanitario, preso in considerazione da convenzioni e trattati di 
estradizione o in dichiarazioni e convenzioni sui diritti umani o relative alla 
protezione dei rifugiati. 
Inoltre per poter meglio comprendere tale diritto dobbiamo 
obbligatoriamente porlo nel contesto di due importanti concetti: il concetto 
di “non refoulement “ed il concetto di “status di rifugiato”. 
 
Lo scopo di questo mio lavoro è appunto quello di  riuscire in modo 
esauriente a rispondere a questa domanda analizzando tre ordini di Sistemi 
giuridici: quello internazionale quello europeo e quello italiano, con 
particolare rilievo al secondo, e riuscire ad evidenziare le lacune, le carenze 
ma anche le grosse innovazioni in tale istituto dell’asilo, che è sempre 
esistito, e che è antico quanto la storia dell’uomo. 
 
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CAPITOLO I 
 
LA TUTELA INTERNAZIONALE DEL DIRITTO 
D’ASILO  
 
 
1. Premessa storica, definizione di Rifugiato 
 
Durante tutto il corso della storia , in ogni regione del mondo, individui o 
intere popolazioni hanno dovuto abbandonare le loro dimore per sfuggire a 
persecuzioni, conflitti armati, e violenze, cercando rifugio altrove. Da 
sempre l’esilio rappresenta uno degli eventi più drammatici della vita 
dell’uomo, sia forma di repressione che di dissenso, e la concessione 
dell’asilo era un modo per ribadire la propria sovranità territoriale da parte 
degli Stati. 
Gli uomini hanno fatto risalire le origini dell’esilio a tempi addirittura 
precedenti alla storia: già Edipo, eroe della mitologia greca, perseguitato 
nella città di Tebe, fu costretto a rifugiarsi ad Atene. Lo stesso mito – con il 
re Teseo che offrì protezione allo straniero in fuga – mostra come, 
parallelamente all’esilio, nasce l’asilo, cioè la protezione dello straniero 
perseguitato; un dovere morale prima che un istituto giuridico. 
Interi popoli furono costretti a lasciare le loro case ed il loro paese per 
trovare rifugio altrove, popoli quali ebrei, berberi, armeni, rom, baschi, 
eritrei, curdi, ma anche persone singole, travolte da guerre e persecuzioni. 
Fra queste occorre citare delle figure di indubbia importanza quali: Abramo, 
che gli ebrei considerano padre del loro popolo ed i musulmani profeta, 
guidò il suo popolo in esilio; Maometto, che con la sua fuga dalla Mecca e 
poi dall’Abissinia per rifugiarsi a Medina, diede inizio all’era musulmana; 
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Gesù, che con la sua famiglia fu costretto a cercare rifugio in Egitto per 
sfuggire alla persecuzione di Erode.  
Ancora tra gli esempi del passato sono rilevanti quelli di Ovidio, Dante 
Alighieri, Nicolò Machiavelli, Victor Hugo, Bertold Brecht, Albert Einstein, 
Fredrik Chopin, Richard Wagner, Marlene Dietrich e Marc Chagall, tutti 
personaggi celebri questi scappati dal proprio paese e timorosi di farvi 
ritorno per paura di essere perseguitati. 
I conflitti e le persecuzioni di governi autoritari in tempi recenti hanno fatto 
sì che tutt’oggi personaggi celebri siano impossibilitati a far ritorno in patria, 
ricordiamo per esempio Milan Kundera, fuggito dalla ex Cecoslovacchia, ed 
Isabel Allende, fuggita dal Cile di Pinochet. 
Quando viene trattato il tema dell’asilo territoriale o politico, si cade 
facilmente nell’equivoco di considerarlo una semplice non-estradizione, 
confondendo i termini della questione. 
Innanzitutto l’estradizione è un istituto di diritto penale, mentre l’asilo 
appartiene alla legislazione sul trattamento degli stranieri, si tratta di due 
manifestazioni del diritto di sovranità: infatti per quanto riguarda 
l’estradizione, in assenza di previsti obblighi convenzionali, lo Stato è 
perfettamente libero di concederla o meno allo Stato richiedente, lo stesso è 
per il diritto d’asilo. 
Non vi è comunque identità fra la non-estradizione e l’asilo, semmai l’una è 
conseguenza dell’altro, nel senso che se lo Stato a cui viene chiesta 
l’estradizione non la concede e anzi permette al rifugiato di risiedere sul suo 
territorio e ne esclude l’espulsione verso il suo Stato d’origine, si ha una 
applicazione dell’istituto dell’asilo.  
Il principio di non-estradizione per reati politici, così come si è sviluppato ne 
XIX secolo, proteggeva solo colui che aveva commesso un mero reato 
politico, senza tener conto di che colui che aveva commesso un reato 
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comune per uno scopo politico, che sarebbe stato perseguitato nel suo Stato 
d’origine. D’altronde il confine tra un motivo politico ed uno personale è 
molto sottile, e la qualifica di “reato politico” è alquanto vaga. 
Quando una persona non  viene estradata, dunque, è probabile che essa 
ottenga l’asilo politico; ma la semplice concessione dell’asilo non ne fa 
necessariamente un rifugiato politico. Dal punto di vista del diritti 
internazionale generale, quando si parla di rifugiato si allude al “rifugiato 
politico”, è una figura giuridica che ha indicato e che ancora oggi indica 
colui il quale è costretto ad abbandonare il suo Stato d’origine o di residenza 
abituale a causa di persecuzioni politiche o a colui che per varie ragioni si 
trova in uno Stato straniero e non può tornare al suo paese di origine o di 
residenza abituale per timore di persecuzioni politiche. Lo Stato può 
attribuire alla persona che chiede asilo la qualifica di rifugiato, questo 
corrisponderebbe sul piano internazionale ad un diritto degli Stati di 
concedere asilo. La concessione dell’asilo, dunque, è un diritto degli Stati, 
rivendicato e considerato tale dalle norme generali e consuetudinarie di 
diritto internazionale, a cui corrisponde nei confronti degli altri stati 
l’obbligo di tollerare la concessione dell’asilo da parte degli Stati stessi.  
Mentre invece non c’è un obbligo di concedere asilo, riconosciuto a livello 
internazionale che vi corrisponde. Il rifugio, l’asilo e la loro concessione 
avvengono sempre sulla base di considerazioni di carattere prevalentemente 
politico e non strettamente giuridico, sono situazioni politiche che si 
verificano nell’ambito di certi Stati che inducono altri Stati a concedere 
asilo, esercitando così un loro diritto. 
Per quanto riguarda la figura del rifugiato non ha una definizione univoca e 
decisa nel diritto internazionale generale e consuetudinario  pur essendo stata 
trattata in una pluralità di strumenti normativi o di altra natura, appunto 
perché la norma generale che consente ad uno Stato di concedere asilo ed 
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impone agli altri l’obbligo di riconoscere l’asilo concesso e di non 
consideralo atto ostile, dal punto di vista giuridico non consente di ricavarne 
una definizione generale. Il carattere politico a cui si ispira la concessione 
dell’asilo giustifica il fatto che gli Stati hanno accuratamente evitato una 
precisa definizione dal punto di vista giuridico ed il consolidamento di una 
prassi internazionale che avrebbe indotto alla formazione di una casistica. 
E’ possibile invece distinguere il rifugiato dalle altre categorie di stranieri, 
quali per esempio gli apolidi, persone che nessuno Stato riconosce come 
cittadini, non possiedono cioè alcuna cittadinanza, gli immigrati, persone 
che emigrano volontariamente per migliorare la loro condizione economica 
o per interesse personale, gli indiziati di reato, i condannati di reato comune, 
poiché essi vengono a porsi in una situazione di rottura con il loro governo, 
determinata da una opposizione politica che li pone nell’alternativa di 
sottomettersi ad una autorità che non riconoscono come legittima, oppure ad 
abbandonare il paese, rompendo il normale legame sociale esistente fra Stato 
e cittadini. 
Così allo stesso modo non è identificabile con il profugo, il quale è 
sicuramente una persona che abbandona il proprio paese d’origine, costretto 
per determinati motivi, guerre, persecuzioni o catastrofi naturali, diretto 
verso un altro paese, ma ciò non implica automaticamente che una volta 
entrato costui chieda asilo. Qualora ne faccia richiesta la persona assume lo 
status di richiedente asilo, che dal punto di vista giuridico non è ancora un 
rifugiato. 
Altra figura che spesso viene confusa con quello del rifugiato è lo sfollato 
(internal displaced persons), persone comunque costrette ad uno 
spostamento fisico sia all’interno del proprio paese che al di fuori di esso, e 
non necessariamente per cause assimilabili a quelle dei rifugiati. Per lo più 
infatti questi sfollati hanno costituito nella storia grandi spostamenti di 
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massa da una parte all’altra del loro stesso paese in cerca di un posto sicuro, 
restandovi comunque all’interno e non sono certo rifugiati ai sensi della 
definizione universale, poiché all’atto di fuga costui deve attraversare i 
confini del proprio paese per entrare in un altro. 
Ultima categoria, sul cui inquadramento giuridico la dottrina non ha mai 
smesso di discutere, è quella dei rifugiati de facto, tale categoria ha creato 
non pochi problemi, sia per il numero elevato di appartenenti, non 
quantificabili a causa della impossibilità di classificazione, sia per la 
tendenza a rimanere nell’ombra per evitare possibili misure di polizia nei 
loro confronti.  
Tali rifugiati de facto sono richiedenti asilo, presenti nel territorio di Stati 
ospitanti, che non possono ottenere il riconoscimento ai sensi della 
Convenzione del ’51 e che non sono sotto il mandato di protezione 
dell’U.N.H.C.R., ma che non possono essere respinti poiché la loro vita è in 
pericolo nel paese di provenienza, usufruiscono quindi del principio del non-
refoulement sancito dalla Convenzione del ’51.  
Si capisce quindi da queste connotazioni che i rifugiati de facto non 
rientrano negli schemi classici ,e non godendo della protezione 
internazionale prevista per i rifugiati “classici” beneficiano invece 
esclusivamente di quella protezione che il paese che li ospita vorrà 
concedere loro, in base alla propria costituzione, alle proprie leggi, al proprio 
regime politico e soprattutto alle proprie relazioni con il paese di origine del 
rifugiato. 
Rientrano in questa categoria anche i disertori ed i renitenti alla leva, quando 
devono temere sanzioni gravi e sproporzionate. In numerosi Paesi i rifugiati 
de facto godono almeno di uno status “B”, ovvero di una protezione contro 
l’allontanamento forzato, ma il livello dei diritti concessi a tale status varia 
molto da Paese a Paese, rendendo così molto precaria la loro condizione. 
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Per concludere, per definizione più generale del termine “rifugiato” si 
utilizza quella contenuta nell’ art.1 della Convenzione di Ginevra del 28-7-
1951 sullo Status dei Rifugiati, che lo indica come  << colui che, temendo a 
ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, 
appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue ragioni 
politiche, si trova fuori dal paese di cui è cittadino e non può e non vuole, a 
causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese>>. 
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2. Il Principio del non–refoulement (non respingimento) 
 
Il concetto di non–refoulement è stato oggetto di varie discussioni, ma ha 
trovato tuttavia una sua collocazione in parecchie convenzioni internazionali 
anche anteriori alla prima guerra mondiale. E’ stato formulato 
originariamente nell’articolo 3 comma 2 della Convenzione di Nansen in 
base alla quale le Parti Contraenti si obbligavano a “dans tous les cas, à ne 
pas refouler les réfugiés sur les frontiéres de leur pays d’origine “. Il 
carattere volontario del rimpatrio del rifugiato è stato proclamato 
fermamente dalla Risoluzione n.8 dell’Assemblea generale  dell’ONU del 12 
febbraio 1946. In essa l’Assemblea affermava il principio generale che 
nessun rifugiato, il quale abbia espresso valida obiezione a rientrare nel 
paese di origine, può essere costretto a ritornare in esso.  
Particolarmente importante risulta l’articolo 33 della Convenzione di 
Ginevra sullo Status dei Rifugiati ( luglio 1951), che afferma nel comma 1 
che nessuno degli Stati contraenti espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, 
un rifugiato dalle frontiere di territori, ove la sua vita o la sua libertà 
sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua 
nazionalità,  della sua appartenenza ad un certo gruppo sociale o delle sue 
opinioni politiche; mentre nel comma 2 dichiara che tale disposizione non 
può essere invocata da un rifugiato che “raisons sérieuses” inducano a 
considerare come un pericolo per il paese in cui si trova , o che essendo stato 
oggetto di una condanna definitiva , per un reato grave, o un delitto, 
costituisca una minaccia per la comunità. In tale comma è stato inoltre 
inserito il limite al funzionamento del comma 1 costituito appunto dalle 
“raisons sérieuses”, per ritenere il rifugiato un pericolo per la sicurezza del 
paese in cui si trovi, la determinazione della quale sarebbe naturalmente 
spettata alla discrezionalità dello stato ospitante.  
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Notiamo come tale concetto è vicino a quello di asilo, nel senso di divieto di 
respingere il perseguitato verso il paese dove corre il rischio di persecuzione, 
in molti casi necessariamente obbliga lo Stato, almeno temporaneamente a 
farlo entrare. 
Tale principio è stato poi inserito in successive convenzioni come segno 
della sua ormai generale accettazione da parte degli Stati e della sua 
incorporazione in una norma di diritto internazionale generale, citiamo a 
titolo esemplificativo la Convenzione dell’Organizzazione per l’Unità 
Africana (settembre 1969), la Convenzione Interamericana (novembre 
1969). 
Per quanto riguarda la prassi degli Stati, non si è proceduto al refoulement 
neanche nei casi di afflusso di massa di rifugiati, rari dunque sono stati i casi 
di respingimento, e qualora uno Stato vi abbia fatto ricorso, ha sempre 
giustificato la sua azione dichiarando le persone respinte “non eleggibili per 
l’asilo”, riconoscendo così un obbligo di non-refoulement nei confronti di 
coloro che invece sono eleggibili per l’asilo. 
L’asilo è dunque un concetto positivo comprendente la protezione, la 
residenza e l’ammissione, il concetto di non-refoulement invece è un 
concetto negativo: si tratta dell’obbligo dello Stato a non agire in modo da 
costringere una persona a rimanere o a tornare proprio in un territorio dove 
può essere sottoposta a persecuzioni, non si tratta di un obbligo dello Stato 
ad ammettere la persona. Lo Stato non è tenuto a concedere la residenza, 
essendo sempre libero di espellere la persona verso uno Stato diverso da 
quello di origine, in cui non andrà incontro a persecuzioni, sempre che 
quest’ultimo sia disposto ad accoglierla. 
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3. Gli antecedenti del sistema di protezione internazionale dei rifugiati 
(dal ‘900 alla II Guerra Mondiale) 
 
Molto presto la Comunità Internazionale ha rivolto la propria attenzione al 
problema dell’asilo, muovendo dalla constatazione che la concessione 
dell’asilo da parte dello Stato costituisce un atto che coinvolge gli interessi 
di almeno 2 Stati, quello di origine e quello ricevente. 
 L’impossibilità di intervenire negli affari interni di ciascuno Stato e quindi 
di entrare nel suo “dominio riservato” per quanto riguarda il trattamento dei 
cittadini, ha indotto la Comunità Internazionale a indirizzare piuttosto la sua 
azione verso i rifugiati stessi, e questo per almeno 2 ordine di ragioni: 
innanzitutto perché il fenomeno ha assunto proporzioni così vaste da 
richiedere l’intervento delle organizzazioni internazionali per il 
coordinamento degli strumenti di protezione ed assistenza di persone i cui 
bisogni non possono essere sempre adeguatamente soddisfatti dagli Stati di 
rifugio. In secondo luogo, resta sempre la difficoltà di risolvere il problema 
del profugo che sia oggetto di una misura di espulsione da parte dello Stato 
di rifugio, in quanto nessun altro Stato all’infuori di quello di origine è 
tenuto ad accoglierlo e il ritorno di quest’ultimo lo sottoporrebbe a grave 
rischio di ulteriore persecuzione. Data la  natura, tale problema richiede la 
cooperazione degli Stati mediante una regolamentazione internazionale. 
E’ a partire dal ‘900 che nasce la convinzione che debba essere la Comunità 
Internazionale degli Stati e non soltanto le associazioni caritatevoli, i singoli 
governi a provvedere alla protezione dei rifugiati, all’interno della prima 
vera struttura sovranazionale mondiale, la Società delle Nazioni, creata il 28 
aprile 1919. Questa nonostante avesse poche possibilità di adempiere agli 
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alti compiti di pace e progresso che si era prefissata, riuscì a porre le basi per 
il moderno sistema legale internazionale. 
Il problema della tutela internazionale dei rifugiati si impose all’opinione 
pubblica alla fine della Prima Guerra Mondiale per una serie di eventi che 
hanno determinato un consistente flusso migratorio quali: la rivoluzione 
russa, seguito della quale molti dissidenti sono espatriati, lo smembramento 
dell’impero austro-ungarico che ha determinato spostamenti in massa di 
popolazioni, le trasformazioni avvenute in Asia minore. La Società delle 
Nazioni per dare appunto una risposta internazionale a tale problema istituì 
nel 1921 l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Rifugiati, la cui direzione fu 
affidata a Nansen, un diplomatico norvegese ma anche un famoso 
esploratore e scienziato, che come primo compito fu incaricato di occuparsi 
del rimpatrio dei rifugiati russi dalla Russia centrale e dalla Siberia, di cui 
già si stava occupando dall’anno precedente in collaborazione con la Croce 
Rossa.  
Di fatto egli però estese il suo mandato occupandosi del rimpatrio di circa un 
milione e mezzo di prigionieri di guerra austriaci e tedeschi, ed introdusse un 
documento il “Passaporto Nansen”, destinato a dare ai rifugiati russi uno << 
status giuridico >> nel paese che oggi si definirebbe asilo, consentendo loro 
di viaggiare sul territorio degli Stati che in quel periodo lo riconobbero. 
Questo dal momento che costoro erano per lo più profughi ed apolidi e non 
avevano documenti né carta d’identità. 
Era un primo passo per dare ai rifugiati la possibilità di intraprendere una 
nuova vita, spostarsi e trovare una nuova sistemazione. 
Prendendo atto delle finalità dell’Ufficio nel 1929 la Società delle Nazioni lo 
trasformò in Ufficio Internazionale Nansen per i Rifugiati, anche in seguito 
al fatto che ben 54 Stati riconobbero il “Passaporto”, e ne concessero 
l’utilizzo , come un documento d’identità internazionale. 
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Proprio negli anni ’20 cominciò invece a svilupparsi un fenomeno inverso: 
la progressiva chiusura dei confini, dovuta a motivi xenofobi, e la fissazione 
di quote di immigrazione fatte per bilanciare gli afflussi soprattutto quelli 
provenienti dall’Europa meridionale ed orientale. 
Come esempio citiamo l’applicazione di tali politiche negli Stati Uniti, in 
America del sud ed in Gran Bretagna. 
La Società delle Nazioni istituì una serie di organismi per affrontare i 
movimenti di rifugiati, e questo ogni volta che veniva definita una categoria 
di persone, in genere gruppi etnici, infatti il concetto di rifugiato in questo 
periodo risulta essere collegato all’appartenenza ad un gruppo di persone che 
sarebbero in pericolo in caso di ritorno nel suo paese d’origine, persone 
quindi minacciate non personalmente ma come facente parte di un gruppo 
etnico nazionale. 
Nonostante il lavoro di tali organismi, non si riuscì a creare una coscienza 
internazionale del problema, e di fronte all’ondata di profughi in fuga dal 
nazismo i governi spesso reagirono con la chiusura della frontiere. 
Infatti quando il nazismo andò al potere e cominciò la persecuzione dei 
dissidenti e dei non-ariani, l’emigrazioni per motivi politici o razziali 
divenne emigrazione di massa, soprattutto verso la Francia, l’Austria, la 
Cecoslovacchia e la Svizzera. La Società delle Nazioni nominò un Alto 
Commissario per i Profughi della Germania  nel 1933, per dare una 
sistemazione ad una tale ondata di profughi, causata anche dalle disposizioni 
dei Trattati di Pace imposte alla Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, 
ma cessò le sue funzioni solo nel 1938 per volontà della stessa. 
In quello stesso anno anche l’Austria cadde sotto il controllo nazista e una 
nuova ondata di profughi si riversò in Europa. Il Presidente degli Stati Uniti 
F. D. Roosevelt indisse una conferenza internazionale per trattare 
l’argomento, la Conferenza di Evian del luglio 1938, dalla quale emerse la 
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creazione di un Comitato Intergovernativo per i Rifugiati, allo scopo di 
facilitare l’emigrazione a quanti volessero lasciare i territori occupati dalla 
Germania. Nel periodo bellico infatti l’Alto Commissariato si è trovato 
nell’impossibilità di operare soprattutto nei territori occupati dalla Germania, 
nonostante che molte persone cercavano di salvarsi fuggendo dall’Europa, il 
suo mandato si concluse il 31 dicembre 1946 in seguito alla cessazione delle 
attività da parte della Società delle Nazioni, avvenuta con delibera 
dell’Assemblea della Società il 18 aprile 1946.