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CAPITOLO I 
 
 
PRESUPPOSTI TEORICI 
 
 
1.1 Il paradigma bio-culturale e il doppio sistema ereditario 
Per comprendere la complessità della relazione fra cultura e individuo è necessario capire i 
processi attraverso i quali le informazioni biologiche e culturali si influenzano e si 
modificano reciprocamente.     
La questione centrale si sintetizza nel trovare risposta alla seguente domanda: il 
comportamento umano è determinato dalla natura, quindi dall’insieme delle informazioni 
genetiche o dalla cultura, cioè dall’insieme delle informazioni extragenetiche? Il dibattito 
fra natura e cultura in psicologia (Wilson, 1975) è sintetizzato nell’opposizione fra 
innatismo e ambientalismo. Il primo, sostenuto da studiosi come Chomsky (1957, 1975) in 
campo linguistico e Plomin e McGuffin (2003), ritiene che la dotazione genetica attivi 
condotte specie-specifiche comuni a tutti gli esseri umani e che quindi direzioni dalla base 
lo sviluppo dei soggetti e dei gruppi, in qualunque luogo della terra si trovino. Secondo 
questa prospettiva la storia individuale non è altro che il decorso naturale e necessario delle 
informazioni genetiche contenute nel genoma. Il corredo genetico svolgerebbe una 
funzione normativa e prescrittiva nello sviluppo degli esseri umani. Seguendo questo 
modello, la cultura è considerata un epifenomeno di origine genetica che si sviluppa in 
conformità con le necessità e le leggi dell’evoluzione biologica (Lumsden e Wilson, 1981, 
1982). Tuttavia, tale paradigma risulta riduzionistico nel suo tentativo di spiegare in modo 
esauriente la complessità del comportamento umano. 
Al contrario, l’ambientalismo sottolinea l’influenza determinante della cultura (e 
dell’ambiente in generale) nel definire lo sviluppo dell’individuo, che avviene in modo 
indipendente rispetto alle sue predisposizioni o inclinazioni naturali. Secondo questo 
approccio al problema, sostenuto in origine da Watson (1924) e più recentemente dal 
costruzionismo sociale (von Glaserfeld, 1995), le differenze generate dalle diverse culture 
di appartenenza sono ritenute così profonde e irriducibili da determinare divari a volte 
incolmabili.  
Alcuni studiosi, in passato, hanno cercato di superare questa contrapposizione integrando 
le due posizioni e sostenendo che in realtà esiste una relazione di complementarietà tra 
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fattori biologici, socio-ambientali e culturali: Dewey (1925),  per fare un esempio, ha fatto 
ricorso al concetto di “interazione fra natura e cultura”. Le osservazioni che sono state 
mosse contro questa prospettiva criticano la concezione additiva “natura+cultura”, che 
appare un artificio meccanicistico e dualistico senza fondamento nei processi reali 
dell’esistenza (Anolli, 2006). 
Qualunque di queste posizioni dà per scontata, accreditandola, l’esistenza della dicotomia 
natura-cultura, che invece va considerata uno degli errori più gravi del pensiero 
occidentale. Questa posizione teorica rimanda ad una forma di pensiero cartesiana 
dualistica e radicale in cui natura e cultura sarebbero due entità distinte, dotate di una 
propria autonomia e legate fra loro da un qualche rapporto. E’ evidente che questa 
teorizzazione è incapace di spiegare l’unitarietà e la complessità  dello sviluppo e 
dell’esperienza umana.  
Oggi, alla luce dei risultati acquisiti dalla genetica e dallo studio della cultura, la 
distinzione fra natura e cultura non è più il centro del dibattito. Il comportamento umano è 
influenzato sia dal patrimonio genetico che dalla quotidiana interazione con la cultura di 
appartenenza poiché è l’ambiente culturale a trasmettere istruzioni comportamentali che la 
persona traduce in azioni quotidiane. Non esiste la natura umana nella sua assolutezza e 
non esiste una natura umana in astratto, indipendente dalla cultura, tanto che teorici come 
Ehrlich (2000) sono arrivati a parlare di tante e diverse “nature umane”.  
L’individuo è portatore di una doppia eredità (genetica e culturale). Tutte le informazioni 
genetiche e la loro trasmissione non sono a sé stanti e isolate, ma vengono influenzate e 
mediate dall’ambiente. Natura e cultura procedono, pertanto, in modo interdipendente, cioè 
influenzandosi reciprocamente e avendo a disposizione ciascuno i propri gradi di libertà di 
sviluppo. Secondo questo modello della interdipendenza reciproca, la cultura dipende 
dalla natura e allo stesso modo la modifica, nel senso che la adatta alle condizioni 
dell’ambiente per renderla ottimale ai propri scopi (Anolli, 2004). Siamo di fronte non a 
un’interazione, ma ad un processo co-costruttivo fra gene e cultura, come sottolineano le 
teorie dei Sistemi di Sviluppo (Developmental Systems Theory)  fra cui quella proposta da 
Oyama (2000) e supportata dalle ricerche di genetisti come Bateson (2004) e Lewontin 
(2000). In sintesi, secondo gli autori, non esiste una natura umana astratta e indipendente 
dalla cultura perché la cultura è il luogo indispensabile per colmare lo iato fra le 
informazioni genetiche e ciò che dobbiamo sapere e saper fare per vivere.   
Questo tipo di riflessione ha dato modo di sviluppare tutte quelle teorie che si fondano 
sull’approccio bioculturale per studiare il comportamento umano (Ruyle, 1973; Cloak, 
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1975; Durham, 1976, 1982; Richerson e Boyd, 1978; Boyd e Richerson, 1985; 
Csikszentmihalyi e Massimini, 1985; Massimini, Inghilleri e Delle Fave, 1996). La 
prospettiva bio-culturale è volta alla ricerca di una chiave di lettura esauriente del 
comportamento sociale umano inserito nella sua complessità e variabilità culturale. La base 
teorica di partenza assume che biologia e cultura siano protagoniste di un processo di co-
evoluzione per cui la storia di una persona o di un gruppo umano è guidata in modo 
congiunto dalla selezione naturale e dalla selezione culturale (Deacon, 1997; Ferrari e 
Mahalingam, 1998).  
In questa cornice teorica, cultura e biologia, pur mantenendo una reciproca autonomia, 
agiscono in modo complementare nel plasmare il comportamento umano. Tutto ciò ha 
numerose ed inevitabili implicazioni dal punto di vista sperimentale: il comportamento può 
essere compreso solo considerando sia la cultura di provenienza dei soggetti che le 
funzioni universali e biologicamente determinate, estesamente indagate dalla psicologia 
sperimentale, quali ad esempio la percezione o lo sviluppo delle funzioni cognitive. 
Il sistema nervoso centrale funziona secondo modalità comuni a tutti i membri della specie 
umana, tutti gli individui elaborano le informazioni provenienti dall’esterno nello stesso 
modo. Ciononostante, si osserva un’ampia variabilità nel comportamento individuale 
secondo la cultura di appartenenza. Si pensi alla scoperta nell’area corticale visuo-motoria 
del sistema dei neuroni “mirror”: essi sono attivati dalla visione di movimenti da parte dei 
consimili. Tale sistema consente di riconoscere e comprendere gli stati psichici 
dell’interlocutore e d’inferire la sua intenzione comunicativa (Rizzolatti e Arbib, 1998). 
Questo meccanismo è anche alla base dei processi di imitazione (Rizzolatti, Fogassi e 
Gallese, 2001). Da questi sviluppi della scienza si deduce che il processo di acquisizione 
ed elaborazione delle informazioni è comune ad ogni sistema nervoso, mentre il peso e il 
significato attribuiti alle informazioni acquisite dall’ambiente si costruiscono 
nell’interazione fra individui, perciò variano da cultura a cultura (Triandis, 1976). 
In alcune culture asiatiche, per esempio, la tendenza a non manifestare le proprie emozioni, 
soprattutto quelle negative, è segno di saggezza e di un profondo rispetto per l’altro; in altri 
contesti culturali lo stesso comportamento sociale viene considerato un segno patologico. 
In sostanza, un atteggiamento può assumere un significato differente secondo il contesto 
culturale di appartenenza e il mondo di significati socialmente costruiti. 
Alcuni studi sugli adolescenti dell’Isola di Samoa (Mead, 1934) hanno evidenziato un 
passaggio dall’infanzia all’età adulta privo di conflitti o disagi e sono fra i primi che hanno 
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sottolineato che le fasi di sviluppo dell’essere umano hanno un carattere relativo e 
culturalmente determinato a seconda della società in cui l’individuo cresce.    
L’eredità culturale ha un ruolo significativo nel comportamento umano: il corredo genetico 
senza eredità culturale non permette all’individuo di accedere alle competenze 
fondamentali per vivere in una comunità umana. La co-evoluzione fra gene e cultura 
conduce alla costruzione di una nicchia ecologica che consente di modificare la pressione 
della selezione naturale e di regolare l’interazione fra organismo e ambiente, allo scopo di 
raggiungere un buon grado di adattamento e definire un proprio ruolo nella società.  
Dawkins (1976), ispirandosi al sistema di replicazione dei geni in biologia, ha utilizzato il 
termine meme per definire l’unità culturale di base di replicazione della cultura. Se il gene 
è l’unità primordiale della trasmissione biologica, il meme è l’unità primordiale relativa 
all’eredità culturale. La complessità biologica dell’essere umano è arrivata a produrre nel 
corso dell’evoluzione un sistema sociale costituito da relazioni e significati culturalmente 
trasmessi. Il comportamento individuale è inteso, secondo questa prospettiva, come 
espressione di un pool culturale, memoria di scelte che si sono stratificate a livello storico-
sociale del gruppo e vengono trasmesse nella relazione fra generazioni. Di conseguenza, 
per prevedere il comportamento di un essere vivente dotato di cultura è necessario 
conoscere il suo genotipo, il suo ambiente ed il suo culturotipo, ovvero il messaggio 
culturale che l’individuo ha ereditato da altri individui della stessa specie (Richerson e 
Boyd, 1978).  
Tale prospettiva di analisi ha evidenziato come lo sviluppo e l’evoluzione della cultura 
siano indipendenti dalla biologia, ed abbiano un loro ruolo specifico nell’influenzare il 
comportamento dell’individuo, potendo essere in relazione di cooperazione o, al contrario, 
di competizione con le leggi dell’evoluzione biologica. I processi di apprendimento relativi 
all’eredità culturale si articolano attraverso una costante trasmissione inter-generazionale 
di istruzioni culturali e normative; ogni individuo, pertanto, è portatore di un sistema 
ereditario culturale, trasmesso per imitazione, per via orale o attraverso vari veicoli 
extrasomatici, tra cui la scrittura.  Nel sistema ereditario culturale, infatti, contrariamente a 
quanto accade per il sistema ereditario biologico, la trasmissione di istruzioni culturali può 
avvenire attraverso gli individui (deposito intrasomatico) ma anche attraverso gli artefatti 
(deposito extrasomatico). Istruzioni non più memorizzate a livello del SNC sopravvivono 
all’artefice nell’artefatto e possono essere trasmesse alle generazioni successive 
condizionandone il comportamento esattamente con lo stesso valore delle istruzioni 
comportamentali intrasomatiche (Massimini, 1996). Esempi di questi veicoli di 
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trasmissione culturale non umani, ma creati e prodotti dall’individuo sono i libri, i mass-
media, gli oggetti e internet.  
Le istruzioni culturali e normative sono organizzate in sistemi culturali attraverso un 
processo di selezione: essi sono sistemi aperti, logici e mutabili come tutti i sistemi viventi. 
L’informazione contenuta nei sistemi appartenenti all’universo vivente si esprime in uno 
stato che consente al sistema di reagire agli stimoli esterni attraverso mutamenti della 
propria organizzazione interna. Il sistema aperto è condizionato dalle situazioni ambientali 
che lo portano a modificare il proprio ordine interno mantenendosi in un equilibrio 
dinamico. Il mutamento è direzionale e segue un ordine finalistico o trend evolutivo: 
procede verso un nuovo ordine interno basato su proprietà strutturali più adattate ai nuovi 
stimoli esterni.  
Esempi di istruzioni comportamentali sono gli artefatti normativi: essi mutano nel tempo 
grazie ad un processo dinamico di evoluzione. All’interno di un artefatto normativo 
esistono diversi livelli di ripartizione delle informazioni culturali o norme: si possono 
distinguere due gruppi di norme contraddistinti dai termini diritti e doveri dei cittadini. In 
un testo costituzionale possono comparire direttamente queste parole o dei loro sinonimi 
quali libertà e obbligo o sinonimi verbali come “può” e “si garantisce”. Dato questo 
presupposto, è stato realizzato uno studio transculturale di numerosi testi costituzionali 
(Calegari e Massimini, 1976; Massimini e Calegari, 1979), che ha evidenziato al loro 
interno la ricorrenza di alcuni elementi comuni definiti unità molari. Queste formano il 
reticolo culturale, cioè  l’organizzazione del sistema di informazioni culturali che regolano 
il comportamento degli individui e dei gruppi all’interno di una cultura. Nel dettaglio, il 
processo di elaborazione delle unità molari ha unito tutti gli elementi, presenti negli 
artefatti normativi, che da un punto di vista concettuale si riferiscono ad un ambito preciso. 
Per esempio, esistono concetti come il diritto al lavoro, il diritto di scegliere liberamente la 
propria professione e il luogo di lavoro, il diritto di gestire il proprio lavoro, etc. Allo 
stesso tema afferiscono dei doveri come l’obbligo di uniformare le condizioni di lavoro, 
osservare una disciplina di lavoro, partecipare al lavoro produttivo, etc. L’elemento 
comune a tutte queste norme è il lavoro, che diventa, all’interno dell’insieme costituito 
dalla totalità dei diritti e dei doveri, l’unità molare lavoro, cioè un sottoinsieme di diritti e 
doveri riguardanti il lavoro.   
Proseguendo nell’analisi, esiste una serie di diritti, di libertà e di doveri che riguardano il 
soddisfacimento di bisogni individuali volti a proteggere l’individuo, per esempio il diritto 
alla vita, al mantenimento, alla sicurezza materiale, ad un’esistenza personale libera e 
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dignitosa. I doveri riguardano più specificatamente la inviolabilità dell’individuo e la sua 
protezione. Questi valori individuali rappresentano il soddisfacimento sia di bisogni 
primari, legati alla sopravvivenza, che di bisogni secondari, di natura psicologica. 
Abbiamo così una seconda unità molare: i valori individuali. Il soddisfacimento di bisogni 
collettivi come il bene della collettività, il benessere pubblico, la tutela della pace, formano 
l’unità denominata valori sistemici o sociali. Un altro sottoinsieme che contiene elementi 
della natura del diritto e del dovere è rappresentato dall’istruzione: il diritto a ricevere 
un’istruzione, a riceverla nella propria lingua, l’obbligo scolastico, il dovere di rafforzare 
le possibilità di istruzione, etc. Un'altra unità fondamentale è la proprietà, costituita, per 
esempio, dal diritto di possedere una casa. Il reddito è considerato come il diritto ad essere 
retribuiti in modo proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. La 
decisionalità e la partecipazione, nonostante siano due momenti psicologici distinti, 
formano per fattori di somiglianza un’unica unità che fa riferimento ad elementi di tipo 
decisionale e partecipativo e si riferisce tanto ai diritti quanto ai doveri del singolo e dei 
cittadini. La circolarità dell’informazione o, più in generale la comunicazione, si riferisce 
alla libertà di propaganda, di stampa e di informazione. La giustizia, infine, è l’unità che 
riguarda tutte le attività degli organismi costituenti l’ordinamento giuridico. A queste dieci, 
va aggiunta un’undicesima unità, chiamata status, costituita dalle diverse partizioni di 
cittadini previste dalle prescrizioni costituzionali (donne, uomini, bambini, minori, etc.).  
Le unità molari sono sistemi aperti e comunicano per mezzo delle relazioni esistenti tra i 
loro elementi. Le undici unità, infatti, possono essere raggruppate in quattro categorie: a) la 
riproduzione bio-culturale (lavoro, proprietà, reddito); b) la riproduzione culturale 
(educazione, circolarità d’informazione, decisionalità, partecipazione); c) la prescrizione 
(giustizia e status); d) la valutazione e giustificazione (valori individuali e valori sociali). 
Ognuna delle unità molari rappresenta i problemi sociali pan-umani che tutte le 
popolazioni in ogni tempo e luogo devono risolvere (Massimini e Calegari, 1978). Le 
quattro grandi categorie che raggruppano le unità assumono la forma di una sfida che le 
società devono vincere, saturando quell’ambito al meglio, per poter sopravvivere e 
riprodursi nel tempo. I problemi sono costanti per tutte le società di individui, mentre le 
soluzioni variano a seconda della popolazione e della cultura; inoltre cambia la gerarchia 
dei problemi stessi e il loro grado di interazione (Delle Fave e Lombardi, 2000).   
Nelle relazioni interculturali le società possono esportare e scambiare i propri memi. 
D’altra parte, il processo di evoluzione culturale è un processo di cambiamento da 
considerarsi neutrale: esso non implica necessariamente un progressivo miglioramento, ma 
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un maggiore adattamento. Alcune società possono dominarne altre grazie alla loro capacità 
di sopravvivere e riprodursi utilizzando i propri memi (ad esempio, armi e tecnologie) e 
non perché portatrici di valori più desiderabili. Tale forma di selezione culturale impedisce 
il processo di differenziazione, che rappresenta una caratteristica fondamentale per tutti i 
sistemi viventi, siano essi specie o culture (Delle Fave e Massimini, 1999). 
La produzione delle istruzioni comportamentali necessarie, ai fini dell’adattamento, per la 
soluzione di un determinato problema, altro non è che la generazione di cultura.   
Nel tentativo di teorizzare questa complessa relazione individuo-cultura-ambiente, 
Massimini (1996) ha formalizzato l’equazione adattativa estesa così descritta: 
A = f (g, ic, n) + f (an, mc, n) + i (g + ic + mc) 
dove “A” rappresenta l’insieme totale delle costrizioni adattative che determinano il 
comportamento; “f (g, ic, n)” si riferisce al pacchetto di costrizioni individuali, e in 
particolare “ic” rappresenta la cultura intrasomatica in relazione con “g” attraverso i diversi 
gradi di penetranza  “n” o di “acculturazione” dell’individuo nel gruppo sociale; “f (an, mc, 
n)” rappresenta il pacchetto di costrizioni ambientali composto da costrizioni ecologiche 
naturali “an” e artificiali “mc” (cultura extrasomatica incorporata nell’ambiente); “n”, 
infine, rappresenta la diversa penetranza reciproca o l’importanza relativa dei due tipi di 
costrizioni. La terza parte dell’equazione riguardante l’inerzia “i” (g + ic + mc) merita 
particolare attenzione quando si valuta lo stato di adattamento di una popolazione 
osservata.  L’inerzia, infatti, si riferisce alla relazione del pacchetto di informazioni 
genetiche (g), intrasomatiche (ic) ed extrasomatiche (mc) con il vettore tempo. Il pacchetto 
di costrizioni incorporato negli artefatti può sopravvivere alle informazioni contenute 
nell’individuo, in quanto i tempi di inerzia di “ic” e “mc” possono essere diversi.    
L’equazione proposta formalizza le complesse interazioni tra costrizioni individuali, 
ambientali e culturali che si caratterizzano per una relazione di tipo circolare applicabile a 
tutti i sistemi sociali. Gli elementi citati nell’equazione sono infatti comuni a tutte le 
culture e ciò che cambia è il grado di influenza che ciascun pacchetto di costrizioni esercita 
nel ciclo interattivo. L’analisi della culture attraverso questa griglia interpretativa permette 
di approfondire in modo esaustivo la struttura della società osservata tenendo conto di tutti 
i fattori coinvolti: componenti individuali (genotipo e culturotipo); componenti ambientali 
e culturali (ambiente naturale e artificiale) e tutti i fattori relativi all’inerzia (Massimini, 
1996).  
 
 
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1.2 La Selezione Psicologica Umana e l’Esperienza Ottimale 
Descrivere i mutamenti delle culture nel tempo e il rapporto fra l’individuo e la sua eredità 
culturale è una delle possibilità per comprendere i grandi fenomeni che globalizzazione e 
modernizzazione stanno rendendo importanti alla nostra percezione.  
Vari modelli sono stati proposti per spiegare i processi che incanalano le risorse degli 
individui e dei gruppi verso il raggiungimento di obiettivi diversi. Alcuni studi hanno 
evidenziato il ruolo attivo dell’uomo in questo processo e l’influenza dei fattori sociali e 
individuali sulla costruzione dell’identità e dello sviluppo cognitivo (Freeman e Robinson, 
1990; Ferrarri e Mahalingam, 1998). Gli individui, in quanto sistemi aperti, scambiano 
informazioni con l’ambiente naturale e culturale in una relazione di reciproca 
interdipendenza: i valori e le opportunità d’azione che una società offre influenzano le 
potenzialità di sviluppo individuale (Delle Fave, 2006). Allo stesso tempo, gli individui 
sono agenti attivi di cambiamento in questo processo e si orientano in base a caratteristiche 
personali: l’integrazione di un individuo in una società è in parte riconducibile alla 
selezione attiva che la persona fa delle diverse opportunità disponibili nell’ambiente. Il 
livello di complessità e la rilevanza culturale delle attività coltivate preferenzialmente nel 
quotidiano influenza la qualità e l’entità del percorso evolutivo di un individuo (Massimini 
e Delle Fave, 2000). 
In sintesi, l’essere umano è veicolo di trasmissione dell’eredità bio-culturale e la influenza 
attivamente elaborando in modo soggettivo l’informazione bio-culturale (Richerson and 
Boyd, 1978) attraverso la selezione psicologica umana o replicazione differenziale di tale 
informazione (Csikszentmihalyi, 1975a; Csikszentmihalyi e Massimini, 1985).  
La consapevolezza oggettiva e soggettiva, e le risorse attentive a capacità limitata 
(Csikszentmihalyi, 1978) inducono l’individuo a selezionare gli stimoli ambientali, in 
termini di attività quotidiane, interessi e obiettivi. Numerosi studi hanno dimostrato che il 
fattore principale che modula e orienta la selezione psicologica è la qualità dell’esperienza 
percepita. Nell’ambito delle fluttuazioni dell’esperienza che caratterizzano la vita 
quotidiana, Csikszentmihalyi (1975a) ha distinto una particolare condizione caratterizzata 
da complessità e positività: l’Esperienza Ottimale. Le due dimensioni peculiari di questo 
stato, che ne determinano l’insorgenza, sono le opportunità d’azione percepite nell’attività 
in corso (challenge) e le abilità personali usate per far fronte a queste opportunità (skill).  
L’esperienza ottimale è caratterizzata dalla percezione di challenge e skill elevati e 
bilanciati fra loro. Altre componenti di questo stato di coscienza sono: elevata 
concentrazione, coinvolgimento, assenza di auto-osservazione, controllo della situazione, 
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chiara percezione dell’andamento dell’attività, positività dello stato affettivo 
(Csikszentmihalyi e Csikszentmihalyi, 1988; Csikszentmihalyi e Massimini, 1985; 
Massimini, Inghilleri, Delle Fave, 1996; Massimini e Delle Fave, 2000) e motivazione 
intrinseca (Deci e Ryan, 1985). 
La gratificazione, la positività e complessità percepite durante le attività associate a tale 
esperienza inducono gli individui a replicare e coltivare selettivamente tali attività. Esse 
diventano oggetto elettivo dell’interesse degli individui non solo nella vita quotidiana, ma 
anche nella selezione psicologica a lungo termine. L’esperienza ottimale gioca un ruolo 
fondamentale nella crescita individuale e nello sviluppo delle capacità personali: con la 
coltivazione preferenziale di attività specifiche, le relative competenze e prestazioni 
tendono a migliorare. Di conseguenza, l’individuo ricercherà opportunità d’azione sempre 
più elevate e questo faciliterà l’insorgenza dell’esperienza ottimale a livelli sempre 
crescenti di complessità, sia dei compiti che delle competenze. Nel tempo questo processo 
dinamico è fonte di sviluppo di complessità e ordine della coscienza (Massimini e Delle 
Fave, 1995); l’insieme delle attività, interessi e relazioni sociali che l’individuo decide di 
coltivare, e degli scopi fondamentali che si prefigge di perseguire vanno a costituire il tema 
di vita (Csikszentmihalyi e Beattie, 1979). Le numerose ricerche transculturali finora 
condotte sull’esperienza ottimale, che hanno portato alla campionatura di più di 5.000 
soggetti, ne hanno dimostrato la stabilità nelle caratteristiche indipendentemente dal 
contesto culturale di appartenenza degli intervistati e l’associazione con le più varie 
attività, a condizione che esse rappresentino per il soggetto opportunità d’azione 
sufficientemente complesse da richiedere impegno ed applicazione delle capacità 
individuali a livelli elevati (Csikszentmihalyi e Massimini, 1985; Massimini et al., 1996; 
Massimini e Delle Fave, 2000). Il contesto sociale, peraltro, non sempre è in grado di 
offrire opportunità d’azione ed espressione significative per la crescita individuale. Ad 
esempio, il processo di modernizzazione, avvenuto in alcune società ed avviato in altre, ha 
portato enormi vantaggi in termini di sopravvivenza biologica, comfort e tempo disponibile 
per l’educazione e il tempo libero. Tuttavia, è anche responsabile di una eccessiva 
automazione nelle attività quotidiane e nei processi di produzione, a scapito della creatività 
e dell’iniziativa personale. La perdita graduale di conoscenze tradizionali e di specifiche 
abilità, e l’eccessivo uso di artefatti, hanno intensificato la dipendenza degli individui da 
soluzioni già pronte per affrontare i bisogni quotidiani. Questo problema può riguardare 
per esempio i migranti che si allontanano dalla cultura di appartenenza per accedere ad 
un’altra solitamente più modernizzata. Si tratta di una fase critica che prevede da parte 
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dell’individuo un momentaneo abbandono degli usi e costumi tradizionali seguito da un 
processo di reintegrazione socio-culturale. In questi casi può accadere che istruzioni 
comportamentali e normative trasmesse dalla cultura di appartenenza non risultino 
adattative nella cultura di accoglienza (Searl e Ward, 1990; Ward e Kennedy, 1993). 
Le situazioni che vive il migrante possono rappresentare un’opportunità di vita migliore, 
ma sono anche fonte di disagio e disorientamento (Swarup e Delle Fave, 1999). E’ stato 
osservato che a seguito di circostanze destrutturanti, come può essere l’emigrazione, la 
possibilità di vivere esperienze ottimali influenza positivamente il processo di adattamento 
e integrazione sociale, rappresentando un indice di benessere psichico degli individui 
(Fianco e Delle Fave, 2006). Tuttavia l’emigrazione può indurre la persona e interrompere 
la replicazione di attività precedentemente associate nel paese di origine all’esperienza 
ottimale. Pertanto è utile indagare la qualità dell’esperienza soggettiva associata alle 
attività della vita quotidiana prima e dopo la migrazione, per descrivere come l’individuo 
attiva risorse emotive, cognitive e motivazionali nel cercare soluzioni funzionali 
all’inserimento in un nuovo contesto socio-culturale.   
 
 
1.3 La Psicologia Transculturale 
Negli anni 70 viene sancita la nascita ufficiale della Psicologia Transculturale attraverso 
due momenti fondamentali: la pubblicazione della prima rivista di settore (1970) - il 
Journal of Cross-cultural Psychology - e la fondazione della prima associazione che si 
occupa di questo argomento (IACCP, 1972).    
Questa prospettiva teorica risponde all’esigenza di ridurre quanto più è possibile 
l’etnocentrismo concettuale nello studio delle culture e di ampliare le conoscenze sui 
processi psicologici e sociali di popolazioni provenienti da diverse culture. Con stupore si 
può scoprire che alcune emozioni che sono ritenute naturali, arcaiche e biologiche non 
sono inscritte nella natura umana, ma esistono solo se coltivate; se i genitori non si 
preoccupano di trasmetterle ai loro figli, esse possono non emergere mai (Despret, 2001). 
Per questo ci si pone il problema di come il comportamento e l’esperienza siano influenzati 
dalla cultura o producano cambiamenti nelle culture esistenti (Triandis,1980). 
L’orientamento della Psicologia Transculturale allo studio delle differenze fra le varie 
culture, le confronta utilizzando metodi quantitativi e qualitativi (questionari, test 
psicologici, etc.) e modelli astratti di spiegazione (“dall’alto verso il basso”, Berry et all., 
1994).  
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Pervenire ad una formalizzazione univoca di questa disciplina, però, non è stato ancora 
possibile. Nel corso degli anni sono state sviluppate diverse definizioni di psicologia 
transculturale: alcune enfatizzano la possibilità di identificare relazioni di causa-effetto tra 
cultura e comportamento (Eckesenberger, 1972), altre tentano di isolare i tipi di esperienza 
culturale che favoriscono le differenze nel comportamento umano (Brislin, Lonner e 
Thorndike, 1973).  
Più recentemente, Berry, Poortinga Segal e Dasen, (1994, p. 4) hanno definito la psicologia 
transculturale come “lo studio delle similitudini e delle differenze nel meccanismo 
psicologico individuale, in gruppi etnici e culturali diversi; dei rapporti tra le variabili 
psicologiche e quelle socio-culturali, economiche e biologiche, e delle modifiche in corso 
di queste variabili ”.  
L’obiettivo fondamentale della psicologia transculturale è individuare elementi psicologici 
di somiglianza e di diversità tra le culture applicando il metodo scientifico, che si focalizza 
sulle variazioni sistematiche dei contesti culturali e utilizza strumenti standard 
(psicometrici) e metodologie quasi sperimentali (Berry et all., 1994). I risultati delle 
ricerche permettono di dare origine a banche dati che forniscono carattere scientifico alle 
teorie psicologiche (Berry e Dasen, 1974).  
La critica principale mossa a tale approccio sostiene che le risposte dei soggetti a strumenti 
di indagine elaborati in culture diverse dalla loro, possono non essere valide o non 
interpretabili. E’ indispensabile essere consapevoli dell’influenza culturale di cui gli 
strumenti risentono, essendo stati prodotti all’interno di una specifica cultura. In secondo 
luogo, questo tipo di studi può incorrere nel cosiddetto paradosso dell’equivalenza: ossia 
assumere che ciò che è valido in una certa cultura sia valido anche per altre. Questa idea 
implica il rischio di produrre distorsioni sistematiche nell’interpretazione dei dati (Van de 
Vijver, 2001). Inoltre, il contesto sociale e la relazione con il ricercatore straniero possono 
influenzare notevolmente e in modo imprevedibile le reazioni dei soggetti. Alcuni 
psicologi transculturali rispondono a tale critica sostenendo che questa disciplina si fonda 
su un assunto di base che giustifica l’approccio comparativo: il comportamento si distingue 
dalla cultura in quanto avrebbe una base biologica, legata alle esigenze di sopravvivenza 
che sono condivise dalle diverse popolazioni (Lumsden e Wilson, 1981). Ciò 
permetterebbe la comparazione tra popolazioni che si sono differenziate in seguito a fattori 
di tipo ambientale e storico. Nonostante queste riflessioni, nell’ambito degli studi 
transculturali il problema di stabilire concetti e metodi equivalenti ha una lunga storia di 
errori e distorsioni etnocentrici, che hanno influenzato il tentativo di comprendere il 
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comportamento umano (Berry et all., 1997). Numerosi psicologi occidentali hanno 
ripetutamente utilizzato test e strumenti di valutazione “culture bound”, cioè fortemente 
influenzati dalla cultura nella quale sono stati sviluppati, per misurare variabili 
psicologiche in altre culture e interpretando le differenze in termini di giudizi di valore.  
A questo livello si situa la frattura con la Psicologia Culturale, che considera invece il 
comportamento indissolubilmente legato al contesto culturale, tanto da non poter assumere 
significato al di fuori di esso. Questa disciplina critica il tentativo della psicologia 
transculturale di studiare la cultura “dall’esterno”, utilizzando un approccio definito etico, 
che compara le culture secondo criteri e categorie interpretative universali (Berry, 1969). 
La psicologia culturale ritiene che l’unico modo per poter studiare le popolazioni culturali 
sia “dall’interno”, quindi con un approccio emico, che adotta il punto di vista dei nativi 
appartenenti ad una specifica cultura e si concentra sulle forme peculiari e irripetibili della 
cultura in quel momento storico (Shweder, 1990).    
Gli strumenti metodologici della psicologia culturale si basano sulla descrizione e 
sull’analisi qualitativa.  
Questo approccio non esente da critiche. La principale è rappresentata dal relativismo 
culturale che, rendendo assoluto il valore dell’unicità rende impossibili procedure di 
controllo e di replica della raccolta  dei dati. Il rischio è quello di non avere alcun modo per 
evitare, o perlomeno essere consapevoli, delle distorsioni soggettive nell’interpretazione 
dei dati (Anolli, 2006). 
Il dibattito tra Psicologia Transculturale e Psicologia Culturale è acceso, tuttavia alcuni 
autori considerano le due discipline complementari, ognuna nel rispetto dei propri obiettivi 
(Poortinga e van de Vijer, 1987). La prima intende massimizzare la possibilità di 
generalizzare le spiegazioni, mentre la seconda considera prioritaria la comprensione degli 
aspetti unici di un fenomeno. 
Alcuni autori, alla ricerca di una complementarità dei due approcci, hanno tentato di 
combinare i due metodi. Secondo il metodo “emico combinato”, il ricercatore muove da un 
costrutto teorico generale (etico) e cerca di elaborare metodologie emiche, quindi generate 
all’interno della cultura, per verificare la teoria (Triandis, 1978).  
L’approccio “etico imposto” trascura il fatto che i costrutti e le procedure definiti come 
universali (etici) sono influenzati dal backgraund culturale in cui nascono e vengono 
imposti alla cultura nella quale vengono esportati. Per questo motivo il ricercatore 
dovrebbe individuare le componenti della prospettiva adottata per studiare un fenomeno 
legato alla propria cultura e poi esaminare attentamente similitudini e differenze 
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caratteristiche dell’altra cultura, al fine di elaborare costrutti teorici “etici derivati” (Berry, 
1989).  
Un ulteriore distinzione riguarda l’interpretazione dei dati relativi alla variabilità umana, 
che si differenzia a seconda dell’orientamento teorico: assolutismo, relativismo, 
universalismo.  La posizione relativista (Herskovits, 1948) evita di categorizzare e valutare 
il comportamento umano dall’esterno di una cultura, sostenendo che le variazioni 
psicologiche interindividuali sono spiegabili in termini di differenze dei contesti culturali 
che influenzano lo sviluppo dell’individuo. Secondo questo approccio emico, utilizzato 
dalla Psicologia Culturale, si evitano studi comparativi perché considerati etnocentrici.  
In netto contrasto si pone la posizione assolutista, che considera i fenomeni psicologici (ad 
esempio l’intelligenza) come costanti a livello transculturale. Essa utilizza strumenti 
standard quantitativi e ignora le influenze culturali, controllando al massimo l’equivalenza 
linguistica (approccio etico imposto).  
La posizione universalista, infine, ritiene che i processi psicologici di base siano pan-umani 
e che i fattori culturali influenzino il loro sviluppo e utilizzo, cioè la loro manifestazione. 
Le comparazioni si utilizzano con cautela, le interpretazioni quantitative sono ritenute 
valide solo per dimensioni di fenomeni analoghi e le procedure di valutazione sono 
modificate e adattate (approccio etico derivato). Questo è il modello oggi dominante nella 
Psicologia Transculturale (Berry et all., 1994)  .  
In generale per evitare riduzionismi, risulta utile un atteggiamento volto alla ricerca della 
complessità e della multifattorialità. A questo proposito la Psicologia Transculturale 
prende in considerazione diverse classi di variabili che risultano importanti per la 
comprensione di analogie e differenze nello studio del comportamento e dell’esperienza in 
culture diverse. Sono esempi il contesto ecologico, cioè la situazione in cui interagiscono 
gli organismi e l’ambiente fisico, determinando la gamma di possibilità di vita di una 
popolazione, è il contesto sociopolitico, che si modifica in funzione dei contatti culturali  
(invasioni, migrazioni e scambi commerciali). 
Fine ultimo della Psicologia Transculturale deve essere quello di promuovere studi che 
controllino il più possibile il rischio di etnocentrismo e offrano conoscenze nuove sulle 
risorse attivate dalle varie opportunità in diversi contesti culturali di sviluppo. A tale scopo 
l’uso di modelli e paradigmi deve essere funzionale a rendere le differenze un patrimonio 
di ricchezza  per l’evoluzione teorica e pratica della disciplina. 
 
 
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1.4 Aree di indagine  
In quanto forme di organizzazione, conoscenza e comprensione dell’esperienza, i modelli 
culturali sono dominio-specifici, poiché si riferiscono di volta in volta e in modo 
contestualizzato a particolari ambiti della realtà. La cultura non è un sistema monolitico e 
omogeneo e talvolta, per medesime situazioni, vi sono più modelli alternativi che possono 
anche entrare in competizione fra loro. I modelli culturali diventano operativi e sono in 
grado di influenzare la condotta dei soggetti solo se sono disponibili nella loro mente, resi 
accessibili in una data situazione e applicabili allo specifico contesto. Ne deriva che ogni 
cultura è un punto di vista sulla realtà umana e fisica; in quanto tale è parziale e limitato 
pur prendendo in considerazione la totalità dei fenomeni nel tentativo di spiegarli in modo 
soddisfacente.  
Gli ambiti di studio della Psicologia Transculturale sono molteplici e considerano sia 
aspetti generali della popolazione sia aspetti individuali. Le aree di interesse sono settori 
vari della psicologia generale e di un’ampia gamma di altre discipline: l’ecologia, 
l’antropologia, la biologia e la sociologia.   
Una delle tematiche centrali su cui si sono focalizzati molti studi riguarda la trasmissione 
culturale, cioè il processo grazie al quale i membri di un gruppo culturale trasmettono 
istruzioni comportamentali ad altri membri. Il passaggio di istruzioni può avvenire 
verticalmente, cioè dai genitori ai figli, orizzontalmente, cioè tra pari; oppure in modo 
obliquo, ovvero da altri adulti e istituzioni (Cavalli-Sforza e Feldmann, 1981).  
Si prendano le pratiche di educazione infantile come esempio di trasmissione verticale: 
esse variano sia nelle prassi ostetriche che nel ritmo dell’allattamento, a seconda della 
cultura di riferimento (Bronfenbrenner, 1986; Munroe e Munroe, 1994; Kağitçibaşi, 1996) 
In Occidente fino a pochi anni fa tutte le conoscenze in campo pediatrico sembravano 
concordare sull’utilità di regolare e scandire rigidamente gli orari delle poppate, nella 
maggior parte degli altri paesi le mamme si regolano in modo flessibile sulle esigenze del 
piccolo. Anche nell’ambiente fisico, quindi da un punto di vista ecologico, si riscontrano 
differenze. In culture non occidentali, spesso i bambini condividono lo spazio con animali 
d’allevamento, bracieri e utensili. In Occidente l’organizzazione dell’ambiente è pensata 
per impedire qualsiasi rischio di danno al bambino durante le sue esplorazioni.   
La trasmissione culturale obliqua ha subito profonde modificazioni in conseguenza del 
processo di modernizzazione che ha implicato lo sviluppo della tecnologia e dei mezzi di 
comunicazione di massa.