Il crollo dell’Unione Sovietica ha posto fine a questa sorta di alleanza 
strumentale ed allo stesso tempo la lenta ma costante apertura della Cina 
all’economia di mercato ha portato ad una rapida e intensa internazionalizzazione dei 
suoi scambi economici. Questi due fattori hanno indotto i due paesi a trovare al loro 
interno delle motivazioni positive alle proprie relazioni bilaterali. 
Esse hanno assunto un carattere ambivalente di cooperazione e competizione, 
con oscillazioni anche ampie a seconda del prevalere di differenti Amministrazioni 
statunitensi e di comuni o divergenti approcci a problemi o contesti internazionali, 
mentre a Pechino, nonostante il lento ricambio ai vertici politici cinesi e il 
mantenimento di una certa influenza dell’ala più dogmatica e contraria a ogni 
accelerazione ai rapporti con l’ Occidente, è prevalsa una linea di approfondimento 
dei rapporti bilaterali. 
Il carattere dominante, destinato a permanere almeno nel breve e medio 
periodo, risulta comunque il progressivo allontanamento tra contenuti economici e 
obiettivi politici. 
A favore della cooperazione spinge la precisa coscienza di un’interdipendenza 
economico-commerciale sicuramente irreversibile, enorme per volumi di traffico, 
rilevante per la qualità delle merci scambiate e per la costante e forte crescita di 
prodotti ad alto contenuto tecnologico. 
Le multinazionali statunitensi hanno trovato in Cina un ambiente ideale per il 
mix di livello tecnologico in rapida crescita, la laboriosità della manodopera e il 
costo del lavoro irrisorio, fattori che hanno portato il valore degli investimenti 
provenienti dagli Stati Uniti a toccare cifre molto elevate. Inoltre l’ invasione di 
prodotti cinesi a basso costo sul mercato interno americano ha limitato l’ inflazione e 
ha sostenuto il potere d'acquisto dei consumatori.  
Contro l’ approfondimento dei rapporti gioca, invece, la percezione d’interessi 
divergenti (o, quanto meno, sempre più spesso non coincidenti) sul piano regionale e, 
in prospettiva, la probabilità che la Cina si presenti per gli Stati Uniti come il vero e 
più pericoloso sfidante alla loro supremazia mondiale, con inevitabili effetti negativi 
tanto sul piano economico-commerciale, quanto su quello politico-strategico.  
 
 
 
6
Una lettura in negativo delle prospettive del rapporto bilaterale sembra darla 
soprattutto l’Amministrazione Bush jr, che vede nella Cina un pericoloso 
sovvertitore dello status quo internazionale, poiché cerca di spostare a proprio favore 
gli equilibri estremo-orientali. 
Per quanto riguarda le previsioni di breve e medio termine, occorre focalizzare 
l’attenzione sul contesto regionale. Entrambe le parti ritengono l’Estremo Oriente 
un’area dalle enormi potenzialità economiche, su cui l’influenza, se non il controllo, 
sarà certamente essenziale per gli equilibri mondiali globali. Già ora questa regione 
concentra il 44 per cento della popolazione mondiale, secondo l’ultima stima 
demografica fornita dall’ONU, e il 41 per cento della ricchezza globalmente 
prodotta. Questi valori, secondo le stime più attendibili, nel 2050 passeranno 
rispettivamente al 41 per cento e al 60 per cento circa. 
Su di essa gli Stati Uniti esercitano un’influenza tuttora enorme, residuo 
risultato della rete di alleanze politico-militari stabilite negli anni ’50 e ’60 
applicando alla regione la dottrina del “containment” anti-comunista. 
In quest’area Washington mantiene tuttora una quota notevole delle proprie 
truppe dislocate all’estero, concentrate quasi tutte in Giappone, Corea del Sud e nelle 
Filippine, e in misura minore anche a Singapore, in Thailandia e in Australia. 
Questa influenza, almeno nel breve-medio periodo, appare però avviata a lenta 
riduzione, legata com’è alla necessità per gli Stati Uniti di concentrare le proprie 
forze militari, e le relative ingenti risorse umane ed economiche, nella lotta contro il 
terrorismo internazionale (ritirandole, quindi, dalle aree dove la loro presenza appare 
ormai secondaria, come l’Europa, o momentaneamente meno necessaria, come         
l’ Estremo Oriente) e, soprattutto, al protrarsi della spedizione militare in Iraq. 
Pechino, al contrario, appare pronta a colmare ogni vuoto di potere lasciato 
dagli Stati Uniti, e ad approfittare di ogni circostanza favorevole per estendere la 
propria influenza politico-strategica e la propria forza economica, 
Se la Cina abbia realmente identificato negli Stati Uniti l’ avversario che ne 
ostacolerà i piani di espansione e visto che non intende misurarsi con loro in campo 
aperto per l’indiscutibile inferiorità militare attuale e a breve e medio termine, appare 
evidente come la storia recente dell’Estremo Oriente, almeno nell’ultimo ventennio, 
 
 
 
7
abbia permesso un cospicuo aumento del ruolo della Cina, simmetrico alla perdita 
d’influenza degli Stati Uniti. 
L’ area dell’Estremo Oriente è anche quella dove geograficamente si collocano 
i più importanti punti di crisi che condizionano i rapporti presenti e futuri tra Stati 
Uniti e Cina, vale a dire Taiwan, Corea del Nord e Tibet. 
Nel presente lavoro verranno esposti i principali temi di attualità che incidono 
in maniera rilevante sulle odierne relazioni tra Stati Uniti e Cina. 
Nel primo capitolo verranno inizialmente descritte le linee guida della politica 
estera americana dell’Amministrazione Bush, contenute soprattutto nel documento 
denominato “The National Security Strategy of the United States of America” 
(USNSS), emanato all’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. 
Successivamente verrà tracciata una breve storia delle relazioni internazionali tra i 
due paesi a partire dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese il 1 ottobre 
1949. Nell’ultimo paragrafo, infine, verranno esposti gli elementi di novità introdotti 
dalla seconda amministrazione Bush nell’ambito della politica attuata nei confronti 
della Cina. L’ ostilità programmatica dell’ Amministrazione Bush verso la 
Repubblica Popolare Cinese è chiaramente espressa dal concetto per cui gli Stati 
Uniti considerano la Cina un “avversario strategico”, mentre durante                            
l’ Amministrazione Clinton la Cina era un potenziale “partner strategico”, nonostante 
le incalzanti critiche mosse a Pechino dai democratici in nome dei diritti umani. La 
Repubblica popolare cinese è vista esplicitamente nella Washington della presidenza 
repubblicana come l’ unico avversario che insidia il potere dominante degli Stati 
Uniti nel mondo, ora che  l’ Unione Sovietica non rappresenta più un rivale temibile. 
Nel secondo capitolo verrà trattato uno dei argomenti più spinosi e destinati a 
condizionare in maniera notevole i rapporti reciproci e cioè la questione di Taiwan. 
Fin dalla nascita della Repubblica di Cina nel settembre 1949 l’ isola fu il centro 
della guerra fredda in Asia in quanto gli Stati Uniti la riconobbero come legittimo 
rappresentante della Cina fino al 1978, e fino al 1971 ne appoggiarono la 
rappresentanza all’ ONU. A partire dal 1978, invece, riconobbero ufficialmente la 
Repubblica Popolare secondo la formula di Pechino per cui “esiste una e una sola 
Cina e Taiwan fa parte di essa”. Washington ha sempre difeso militarmente Taiwan, 
 
 
 
8
prima in forza di un vero e proprio trattato militare di assistenza valido fino al 
dicembre 1978 e da allora, dopo l’allacciamento di rapporti formali con il governo di 
Pechino, nell’ambito del “Taiwan Relations Act” del 10 aprile 1979. Inoltre una 
legge del Congresso il “Taiwan Act” del 1999 obbliga gli Stati Uniti a difendere 
militarmente Taiwan da un eventuale attacco cinese. Il governo di Pechino, d’altro 
canto ha sempre considerato l’ isola come parte integrante del suo territorio ed 
appare intenzionato prima o poi a recuperare quella che considera una provincia 
ribelle, avendo anche approvato nel 2005 una legge anti-secessione che autorizza            
l’ esercito nazionale ad invadere l’ isola nel caso in cui il governo di Taipei 
dichiarasse l’indipendenza.  Appare, quindi, evidente  che il caso di Taiwan potrebbe 
portare ad una guerra tra Stati Uniti e Cina. 
Il terzo capitolo si occupa, invece, della minaccia nucleare della Corea del 
Nord, un argomento particolarmente importante sia per la Cina che per gli Stati Uniti 
che insieme hanno scelto la via della trattativa e del dialogo per giungere ad una 
efficace risoluzione del problema. La Corea del Nord vuole garanzie di sicurezza ed 
è probabilmente disposta a rinunciare al suo programma nucleare ma pretende una 
serie di impegni dagli Stati Uniti, sia di carattere politico militare che economico 
finanziario. Né intende più essere considerato uno stato canaglia.  
Bush, invece,  non appare intenzionato a cedere ai ricatti e quello di Pyongyang 
è sicuramente un ricatto utilizzato attraverso armi nucleari, vere o presunte, per 
ottenere dei risultati che altrimenti non otterrebbe. La Cina non ha nessuna 
intenzione di avere alla sue frontiere meridionali uno stato nucleare in grado di creare 
problemi che prima o poi finirebbero inevitabilmente per coinvolgerla. Ecco perché i 
cinesi spingono affinché Pyongyang rinunci al suo programma nucleare. Inoltre non 
hanno nessuna intenzione di vedere aumentare il coinvolgimento degli Stati Uniti 
nell’area e tantomeno vogliono avere a che fare con le prospettive di una guerra a 
ridosso dei loro confini. Però va anche aggiunto che i cinesi non sono affatto 
interessati allo smantellamento del regime nord-coreano, mentre invece quello a cui 
mirano gli Stati Uniti è proprio un cambio di regime. Il crollo del regime a 
Pyongyang comporterebbe nuovi equilibri nella regione e non è detto affatto che 
potrebbero essere più favorevoli degli attuali per Pechino. Quindi, se vogliamo, i 
 
 
 
9
cinesi sono per certi aspetti schierati su una posizione simile a quella degli Stati Uniti 
ma gli obiettivi di fondo dei due paesi sono sostanzialmente diversi. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
10
CAPITOLO 1  
 
LA DOTTRINA BUSH E LA STRATEGIA DI CONTENIMENTO 
 
1.1 LA DOTTRINA BUSH  E LA GUERRA PREVENTIVA 
Con l’ espressione “dottrina Bush” si intende la strategia della sicurezza 
nazionale degli Stati Uniti d’ America elaborata dall’Amministrazione del Presidente 
americano George W. Bush in seguito agli attentati terroristici dell’ 11 settembre 
2001. 
Il documento principale in cui è stata espressa la dottrina Bush è “The National 
Security Strategy of the United States of America” (indicato con la sigla USNSS) che 
contiene le linee guida della politica estera americana. Siglato dal Presidente il 17 
settembre 2002 è stato trasmesso al Congresso il 20 settembre 2002, così come 
prevede il Goldwater-Nichols Department of Defense Reorganization Act del 1986, 
che richiede al Presidente di illustrare regolarmente al Congresso e al popolo 
americano la strategia della sicurezza nazionale. 
Dall’ analisi del principale documento strategico in cui è espressa la dottrina 
Bush, risulta evidente che le nuove minacce alla sicurezza nazionale sono individuate 
principalmente nel terrorismo internazionale, negli stati canaglia e nella diffusione 
delle armi di distruzione di massa, che potrebbero essere utilizzate tanto dalle reti 
terroristiche, quanto dai leaders senza scrupoli dei paesi nemici degli Stati Uniti
1
. 
Da una lettura più approfondita, però, emerge la considerazione che 
l’attenzione della dottrina Bush è maggiormente concentrata sugli stati canaglia, 
piuttosto che, sul terrorismo internazionale
2
. 
La dottrina Bush probabilmente passerà alla storia come la dottrina della guerra 
preventiva. La USNSS presenta la “pre-emptive war” come la grande innovazione 
strategica in grado di sostituire il contenimento e la deterrenza. Risulta difficile 
comprendere appieno il senso di questa nuova strategia. Se da un lato, infatti, essa è 
                                                 
1
 John, Bolton,  “Nuclear Weapons and Rogue States: challenge and response”, US Department of 
State, dec. 2 2003 
2
 Jason D., Ellis, “The best defense: counterproliferation and U.S. National Security”, Washington 
Quarterly vol. 26 n. 2 spring 2003 
 
 
 
 
11
presentata come la risposta adeguata alle minacce più gravi e imminenti, dall’altro, 
nella stessa USNSS, si legge che l’ azione preventiva deve essere attuata prima che 
gli stati canaglia siano in grado di rendere operative ed effettivamente utilizzabili le 
armi di distruzione di massa (weapons of mass destruction WMD). 
La dottrina Bush si caratterizza per l’ affermazione esplicita                            
dell’ unilateralismo; l’Amministrazione statunitense, cioè, intende agire da sola, 
dettando agli alleati “occasionali”, che costituiscono le c.d. coalizioni dei volenterosi, 
le condizioni per partecipare alle missioni. Il rapporto con le Nazioni Unite, nelle 
enunciazioni e nei fatti, è assai problematico. Il tratto caratteristico della dottrina 
Bush è proprio quello di voler ridefinire, diminuendolo, il ruolo delle organizzazioni 
internazionali; non solo dell’ ONU, ma anche della NATO. Tutto quello che può 
costituire un impedimento e rallentare l'azione politica degli Stati Uniti viene visto 
con diffidenza. Agire unilateralmente, però, richiede una grande forza e una notevole 
capacità di assorbimento dei costi politici ed è difficile capire fino a che punto gli 
Stati Uniti siano in grado di farsene carico
3
. 
In realtà non è chiaro se la dottrina Bush costituisca realmente una strategia da 
applicare come norma generale a tutta la politica estera americana. Molti osservatori 
hanno messo in evidenza che essa potrebbe piuttosto rappresentare una soluzione 
elaborata appositamente per il caso specifico dell’ Iraq. Tant’è vero, ad esempio, che 
mentre è stata applicata, appunto, per fronteggiare la crisi irachena, per la Corea del 
Nord si sono cercate altre soluzioni. 
Si è poi constatato che l’ Amministrazione Bush possiede, comunque, un 
progetto per la ridefinizione del sistema internazionale e dei rapporti di forza tra le 
potenze. Questo progetto, però, non può essere definito come una vera e propria 
strategia. Esso è più che altro la linea politica dell’ Amministrazione Bush, ma 
sembra mancare la strategia, che consentirebbe di perseguire tale linea politica. La 
dottrina Bush sembra essere, quindi, una tattica finalizzata all’ intervento in Iraq, 
obiettivo che si inserisce nel contesto di un progetto politico, che, però, non riesce a 
trovare, ancora una volta, un’ elaborazione strategica in grado di superare le esigenze 
                                                 
3
 Andrei, Lankov, “Staying Alive”, Foreign Affairs March/April 2008 
 
 
 
12
contingenti e produrre delle regole generali in grado di orientare la politica estera 
statunitense nei prossimi anni
4
. 
La questione dei “rogue states” (i c.d. stati canaglia o stati fuorilegge) viene 
affrontata esplicitamente solo nel capitolo V della USNSS, dove vengono definiti 
come stati che: maltrattano il proprio popolo e sperperano le risorse nazionali per 
l’arricchimento personale dei governanti; disprezzano il diritto internazionale e 
minacciano i loro vicini; sono determinati ad acquistare armi di distruzione di massa 
e, infine, sponsorizzano il terrorismo internazionale e odiano gli Stati Uniti
5
. 
I “rougue states” sono quindi l’altra nuova minaccia che gli Stati Uniti devono 
fronteggiare insieme al terrorismo internazionale. Questi due pericoli, però, non sono 
distinti con chiarezza nella USNSS. Il legame evidenziato è che i “rogue states” 
offrirebbero protezione alle reti terroristiche e, soprattutto, potrebbero vendere armi 
di distruzione di massa (weapons of mass destruction, WMD) ai terroristi
6
. È proprio 
la natura del legame “rogue states”/WMD/terrorismo, però, a non essere molto 
chiara. 
È vero che nella USNSS si arriva a stabilire una vera e propria sovrapposizione 
tra stati canaglia, terrorismo e armi di distruzione di massa. L’ attenzione, però, è 
tutta rivolta al rapporto stati canaglia/WMD, piuttosto che a quello stati 
canaglia/terrorismo. Gli unici stati canaglia citati ad esempio nella USNSS, l’ Iraq e 
la Corea del Nord, sono accusati, infatti, di voler sviluppare arsenali chimici, 
batteriologici e nucleari. Nessuna accusa esplicita viene mossa riguardo alle loro 
relazioni con le reti terroristiche. 
Riassumendo si potrebbe affermare che la dottrina Bush individua nei “rogue 
states” e nel terrorismo internazionale i nuovi nemici degli USA. È difficile, però, 
                                                 
4
 Thomas, Carothers, “Promoting democracy and fighting terror” Foreign Affairs, January/February 
2003 
5
 Al cap. 5 della USNSS pag. 14 si legge: “These states: brutalize their own people and squander their 
national resources for the personal gain of the rules; display no regard for international law, threaten 
their neighbors, and callously violate international treaties to which they are party; are determined to 
acquire weapons of mass destruction, along with other advanced military technology, to be used ad 
threats or offensively to achieve the aggressive designs of these regimes; sponsor terrorism around the 
globe; reject basis human values and hate the United States and everything for which it stands.” 
6
 John, Bolton, “Nuclear Weapons and Rogue States: challenge and response”, US Department of 
State, dec. 2 2003 
 
 
 
13
comprendere con precisione cosa si nasconda sotto queste due “etichette”: non c’è, 
infatti, né un elenco di stati canaglia, né un elenco di reti terroristiche.  
L’ ipotesi che la USNSS sia focalizzata sul legame “rogue states”/WMD 
sembra trovare una conferma nel fatto che la strategia si prefigge come obiettivo 
primario, anche se non esclusivo, quello di fermare gli stati canaglia prima che 
divengano capaci di usare le WMD contro gli Stati Uniti e i loro alleati. 
La counterproliferation e la nonproliferation sono i due pilastri della strategia 
per combattere le armi di distruzione di massa, illustrate in modo specifico 
soprattutto nella National Strategy to Combat Weapons of Mass Destruction. 
La “counterproliferation” è un’interdizione effettiva che si realizza impedendo 
agli stati fuorilegge di ottenere e sviluppare le WMD (usando le capacità militari e di 
intelligence e rafforzando una legislazione internazionale restrittiva), adottando una 
strategia della deterrenza che presupponga una risposta convenzionale e nucleare ad 
un attacco con WMD ed agendo con attacchi preventivi nei casi di minaccia 
imminente. 
La nonproliferation prevede una “active nonproliferation diplomacy” ed il 
rafforzamento dei trattati multilaterali esistenti.
7
 
L’ enfasi posta sulla counterproliferation (in aggiunta alla “classica” 
nonproliferation) evidenzia la preminenza riservata alle strategie attive piuttosto che 
a quelle reattive. La dottrina Bush, infatti, riserva una grande importanza all’azione: 
“The greater the threat, the greater is the risk of inaction”, o anche “the only path to 
peace and security is the path of action”. È, dunque, una strategia “proactive” e 
preventiva. 
La dottrina della guerra preventiva è sicuramente l’ aspetto centrale della 
dottrina Bush ed ha suscitato un ampio dibattito per alcuni suoi aspetti problematici. 
Innanzitutto viene in rilievo la questione della sua compatibilità con il diritto 
internazionale. 
Bisogna ricordare che la disciplina internazionale proibisce l’uso e la minaccia 
dell’uso della forza da parte degli stati, con l’eccezione del caso della legittima 
                                                 
7
 Jeffrey Record, “Nuclear deterrente, preventive war and counterproliferation” Cato Institute july 2 
2004 
 
 
 
14