II
Qui Leopardi avanza, in modo ancora embrionale, il principio che 
troverà poi vastissima materia di trattazione nello Zibaldone, cioè le 
contraddizioni esistenti sin dall’origine in natura, una natura che già 
dai primordi tende a “danneggiare e a distruggere se stessa”. 
Ciò basta a ridimensionare questa convergenza, tanto ingigantita da 
certa critica, tra il sistema di natura leopardiano e quello rousseauiano, 
e induce a smitizzare e a ridurre a più ragionevoli proporzioni la nota 
formula scolastica di un pessimismo leopardiano dapprima storico e 
poi cosmico, nonché l’idea imperante, nella storia novecentesca della 
critica su Leopardi, di una duplicità di concezione della natura nel 
poeta recanatese: dapprima quella provvidenzialistica di una natura 
buona e poi quella materialistica, pessimistica e nichilista di una 
natura “matrigna”. 
Piuttosto, ad una presunta duplicità della concezione di natura, 
sarebbe meglio sostituire, come suggerisce il Pelosi
4
, una duplicità di 
genesi, in Leopardi, del concetto stesso di natura: mitologico-
rousseaiana, la genesi della concezione provvidenzialistica di una 
natura benefica, con la quale l’uomo intrattiene una relazione salvifica 
di reciproca corrispondenza, e materialistico-scientifica, quella 
dell’interpretazione della natura come circuito meccanico di 
costruzione e distruzione, volta alla sola conservazione della specie e 
non al benessere o alla felicità dei singoli. 
Da una concatenazione di queste due diverse impostazioni di pensiero 
sulla natura, Leopardi approda ad un’originale conclusione.  
Egli aderisce dapprima al principio preromantico-rousseauiano della 
benevolenza della natura; poi, man mano che i suoi orizzonti culturali 
si delineano chiaramente in senso razionalista e materialista, abbraccia 
l’impianto mentale e scientifico dell’Illuminismo settecentesco, dal 
sistema di natura di teorizzatori come Linneo e Buffon, al 
materialismo disincantato di La Mettrie o D’Holbach. 
Infine, non riuscendo a conciliare quei due diversi presupposti del suo 
sistema di natura –come anime divergenti del settecento illuminista-, 
ne fonde insieme gli aspetti negativi: dalla concezione mitologico-
rousseauiana della natura buona, trae un’antropomorfizzazione di 
                                                          
4
 cfr. P. Pelosi, Leopardi fisico e metafisico, Federico & Ardia, Napoli, 1991, pp.159-172 
 III
questa nel senso di una madre-matrigna che non si avvede affatto del 
della felicità dei mortali, e dalla impostazione scientifico-meccanicista 
del sistema naturale, ricava l’idea desolante di un ciclo eterno e 
meccanico di vita e di morte, dal quale la felicità individuale è 
irrimediabilmente esclusa. 
Insomma, come concluse il Pelosi, Leopardi va “dal mito alla scienza, 
e successivamente, di nuovo al mito in una sorta di regressione 
circolare che fa coincidere i due opposti: madre-matrigna, dal volto 
«a mezzo tra il bello e il terribile».(…). Leopardi, così, rimitologizza, 
invertendolo, il giovanile mito rousseauiano.”
5
 
In altri termini, Leopardi approda alla sua finale concezione della 
natura adattando un habitus razionalista e scientifico ad un sentimento 
irrazionale ed antropomorfo, come ricaduta in un individualismo 
antropocentrico di segno opposto rispetto a quello che il poeta aveva 
da sempre condannato.  
L’uomo non è più il dominatore della natura o, stando alla definizione 
del Rousseau dell’Emile, “il re della terra che abita”
6
, ma è la vittima 
per eccellenza della natura. Questa inedita riantropocentrizzazione 
leopardiana “non studia più i problemi dell’uomo, ma solo l’uomo 
come problema.”
7
 
Sarebbe questa, dunque, la principale differenza di percorso tra 
Leopardi e Rousseau nel loro tentativo di relazionarsi alla natura; ma, 
di là dalle divergenze anche notevoli che incontreremo tra i sistemi di 
natura dei due autori, il confronto qui sollecitato tra il pensiero di 
Leopardi e quello di Rousseau servirà soprattutto a sgombrare il 
terreno da una costante pregiudiziale: quella volta ad accusare la 
riflessione zibaldoniana di Leopardi di una perpetua contraddizione e 
di una scarsa sistematicità logica, quando queste gli derivano, invece, 
da una certa tradizione mentale del ‘700 e degli autori ai quali egli si 
era maggiormente avvicinato, compreso il Rousseau.  
Una giusta valutazione del pensiero leopardiano, che per definizione 
rifugge dal sistema pur aspirando ad una certa coerenza e organicità, 
non può prescindere da questa influenza della riflessione critica del 
                                                          
5
 P. Pelosi, Leopardi fisico e metafisico, op. cit., pp.169-170 
6
 J.-J. Rousseau, Emilio, a cura di P. Massimi, Mondadori, Milano 1997, p.376 
7
 P. Pelosi, Leopardi fisico e metafisico, op. cit., p.171 
 IV
‘700 illuminista, oscillante tra costruzioni utopistiche e applicazioni 
pratiche, tra teoresi ed empirismo, tra unità e contraddizione. 
Non tutti hanno rilevato a fondo che l’essenza dell’opera leopardiana 
risieda nel ridimensionamento di un Illuminismo assunto e poi 
rovesciato in termini assolutamente negativi, e che ritrovi i suoi punti 
di forza nell’illusione, nell’apparenza, nella filosofia salvifica 
dell’oblio (visto che la lucidità totale della coscienza conduce 
all’infelicità), e infine nell’ironia che tutto dissolve: questo “perché 
Leopardi si identifica interamente con la vicenda e il dramma della 
più pura lucidità moderna.” 
8
 
Il pensiero leopardiano scopre le più irrisolvibili contraddizioni della 
natura, ma esso non è altrettanto contraddittorio, bensì aperto, 
volutamente incompiuto, sempre all’inizio. Attraverso le sue modalità 
espressive, esso acquisisce una significazione piena, un’incarnazione 
reciproca tra idea e linguaggio.  
Tra le modalità espressive adottate, l’”appunto” zibaldoniano, molto 
più dei classici pensieri rivestiti e addomesticati da forme impeccabili, 
lascia il pensiero aperto, vitale nella sua immediatezza e nelle verità 
ed incertezze che suggerisce; è il frammento -come forma incompiuta 
per eccellenza- a rendere il pensiero in apertura e in movimento 
continui, un passaggio da una “filologia esteriore” ad una “filologia 
interiore”, da “una funzione che è esercizio letterario” ad una 
funzione che è “tessitura di un pensiero”, “anima di un pensiero”
9
.  
La frammentarietà di scrittura non è un espediente per esonerarsi dalla 
responsabilità delle proprie idee, ma è anzi il veicolo di realizzazione 
di una profonda e costruttiva intenzione: perlustrare una realtà che non 
può essere ricondotta a sintesi e dimostrare che l’unica verità sia in 
fondo l’incertezza, l’assenza di un senso definito, la sospensione. 
La circolarità della scrittura zibaldoniana consiste nella successione di 
nuclei essenziali di pensiero che nascono soprattutto dalla soggettività 
leopardiana e che cercano continue conferme nei contributi di altri 
sistemi di pensiero. 
                                                          
8
 M.A. Rigoni, Saggi sul pensiero leopardiano, Liguori, Napoli, 1985, p.112 
9
 S. Natoli- A. Prete, Dialogo su Leopardi. Natura, poesia, filosofia, Mondadori, Milano 1998, p.13 
 V
Leopardi e Rousseau appaiono accomunati anche 
dall’autobiografismo della loro scrittura, benché relativamente limitati 
di numero siano i pensieri autobiografici dello Zibaldone leopardiano 
rispetto alla vasta mole delle Confessions o dei Dialogues 
rousseauiani. 
Per Leopardi, quest’autobiografismo sottinteso fu una forma metodica 
di organizzazione e di esposizione del pensiero; egli guardò ai propri 
problemi di pensiero come a problemi autobiografici, la cui trattazione 
ed esposizione costituivano il racconto della propria stessa mente e 
non delle proprie vicende biografiche, se non nella misura in cui 
queste illuminavano i momenti di quel racconto essenziale: ed è 
proprio questo il carattere essenziale dei pensieri direttamente o 
allusivamente autobiografici dello Zibaldone. “E secondo queste 
osservazioni si conosce come il filosofo non sia filosofo nella vita e 
nelle azioni, s’egli non guarda se stesso e i fatti suoi come quelli degli 
altri, se egli non si osserva dall’alto, come quelli degli altri, se 
insomma non si spoglia dell’abitudine naturale di escludere se stesso 
e i fatti suoi dalla dottrina generale degli uomini e de’ fatti del 
mondo.”
10
 
Con un’implicita definizione della sistematicità, la perfezione del 
pensatore è qui per Leopardi la capacità di mettere in gioco se stesso e 
di autoriflettersi. 
L’autobiografismo della scrittura rousseauiana, scaturito dall’intento 
di analizzare il proprio io singolare, nella ricerca di un’immagine il 
più possibile coerente della propria vita e della propria immagine, ha 
spesso suscitato superficiali e fuorvianti analisi critiche da parte di 
studiosi che videro in esso un fenomeno morboso, per quanto vissuto 
con lucida consapevolezza ed espresso con straordinaria intensità di 
forme. 
Tuttavia, è proprio dalle pagine più strettamente autobiografiche che 
bisogna partire per comprendere a fondo il messaggio globale 
dell’opera di Rousseau, da quello pedagogico a quello politico, a 
quello religioso, morale e sociale.  
                                                          
10
 Zibaldone, op. cit., 1870, p.404 
 VI
Sottile è, infatti, in Rousseau la relazione che intercorre tra 
autobiografia vera e propria e riflessione astratta, e costante è questo 
trapasso dall’immediata reazione emotiva alla catarsi razionale da 
parte di un filosofo come lui che, similmente a Leopardi, “sente” 
prima di pensare e pensa per immagini, ma che è poi ossessivamente 
volto alla ricerca di una soluzione razionale alle contraddizioni 
esistenziali dalle quali si sente lacerato. E’ assente, invece, in 
Leopardi tale riconduzione costante della propria soggettività alla 
proposta di esempi o modelli morali e civili per la collettività. 
Un’altra capitale differenza tra Leopardi e Rousseau sta 
nell’individuazione del male e della contraddizione. 
La contraddizione, per Leopardi, s’insidia nel sistema della natura, 
disarmando l’uomo in vista di qualsiasi ottimistico tentativo o 
desiderio di comprenderlo e gestirlo fino in fondo.  
La natura regala all’uomo la ragione, lo strumento per fargli 
comprendere che in fondo le sue contraddizioni sono insolubili. 
La contraddizione è vista da Leopardi come un evento, come uno 
stravolgimento totale della naturalità, costituito dall’insorgere di 
un’opposizione fra pensiero e radici primarie dell’esistenza. Essa 
coincide con una totale mutazione, con un passaggio dalla condizione 
antica a quella moderna. 
Se la mutazione è totale, l’immagine e l’esperienza del negativo che 
essa porta con sé saranno altrettanto totali e radicali; ma a tale 
negatività Leopardi reagisce in un primo tempo in senso fortemente 
razionalistico, negando, cioè, la contraddizione in natura, e piuttosto 
attribuendola storicamente al distacco della civiltà umana dal 
fondamento naturale. 
La volontà leopardiana di razionalizzare, ovvero di eliminare la 
contraddizione, è condensata in un pensiero sul suicidio, del ’20: ”E 
vidi come sia vero ed evidente che(…) l’uomo non doveva per nessun 
conto accorgersi della sua assoluta e necessaria infelicità in questa 
vita, ma solamente delle accidentali(…): e l’essersene accorto è 
contro natura, ripugna ai suoi principi costituenti comuni anche a 
tutti gli altri esseri (come dire l’amor della vita), e turba l’ordine 
 VII
delle cose (poiché spinge infatti al suicidio la cosa più contro natura 
che si possa immaginare).”
11
 
Ma all’interno di questo tentativo “razionalizzante”, Leopardi sembra 
già spingersi in direzione del tutto opposta: le due concezioni di 
“natura”, benigna (ovvero priva di contraddizioni, anzi, organizzata 
secondo una ragione non priva di connotati provvidenziali) la prima, e 
matrigna (coincidente con la contraddizione stessa e, dunque, causa e 
luogo della sofferenza umana e universale) la seconda, sono due 
diverse interpretazioni dell’esperienza della contraddizione e della 
condizione esistenziale che ne è derivata, quella di un Io che è venuto 
a trovarsi in contraddizione con se stesso e con la propria natura, 
attraverso una radicale “autocoscienza” che è all’origine stessa dell’Io: 
l’”essersene accorto”, appunto. 
Di conseguenza, come osservò acutamente il Colaiacomo, “l’Io è 
‘antinatura’ e come tale difficilmente potrebbe essere senza una 
percezione della negatività o contraddittorietà della natura. Qui è il 
contenuto stesso dell’esperienza della «mutazione», esperienza che 
resta di per sé invariata, quale che sia l’interpretazione che ne viene e 
ne verrà fornita.”
12
     
Gli ultimi argomenti adoperati da Leopardi prima di arrendersi 
all’evidenza e accettare la contraddizione del suo sistema di natura, 
finiranno, attraverso deboli sofismi o contorti giochi di parole, per 
dichiarare innaturale la natura stessa, conosciuta quale è in realtà: “la 
natura forzatamente e contro natura scoperta e svelata non è più 
natura, qual ella è”.
13
 
Nel ’24, il poeta appare chiaramente cosciente delle più assurde 
contraddizioni del sistema della natura rispetto ad una piena 
realizzazione dell’individuo: “E da altra parte la vita non è fatta che 
per il piacere, poiché non è imperfetta la vita, perché manca del suo 
fine, ed è una continua pena, perch’ella è naturalmente e 
necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno 
                                                          
11
 Zibaldone, op. cit., 66, p.41 
12
 C. Colaiacomo, Leopardi. Zibaldone di pensieri, in Letteratura italiana. Le Opere, a cura di A. Asor 
Rosa, vol.3°, Einaudi, Torino 1995, p.242 
13
 Zibaldone, op. cit., 1412, 30 luglio 1821, p.323 
 VIII
di felicità, cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione 
in natura?”
14
 
In questo modo la riflessione leopardiana chiude la propria parabola 
attribuendo la contraddizione alla natura stessa: “cioè facendo 
apparire l’impossibilità di concepirla come vera (anzi come vera e 
benigna nello stesso tempo), come la massima e la più terrificante 
delle verità.”
15
 
Per Rousseau, invece, l’indizio, se non la fonte del male, è posto nella 
contraddizione, -in fondo al cuore dell’uomo- tra coscienza e passioni.  
E’ proprio questa sensibilità viva alla contraddizione che spinge 
Rousseau verso il tentativo di riconciliare il dualismo morale e sociale 
dell’uomo verso il monismo fondamentale della coscienza e della 
legge della volontà generale. 
Così antropologia e politica sono esemplarmente congiunte: l’Emile 
trova compimento in un’educazione politica e il Contrat social 
presuppone, per converso, l’antropologia. D’altro canto, il duplice 
tentativo di spiegare e superare la contraddizione, non può situarsi che 
nel presente e nel futuro dell’Emile e del Contrat social e non certo 
nell’innocente ma irrecuperabile passato del Discours sur l’inegalitè. 
La matrice della contraddizione è per Rousseau l’angoscia della 
lontananza, anzi dell’”allontanamento” doloroso dalla natura. Egli 
non sceglie di affrontare tale lontananza sul piano strettamente 
religioso, poiché ciò significherebbe il rischio di approdare alla non-
esistenza di Dio; la affronta invece sul piano sociale, il che equivale a 
dire anche sul piano politico e morale, e così pone sistematicamente la 
contraddizione a fondamento della teodicea che egli elabora su tale 
piano. 
E’ vero che per Rousseau ogni mutamento finisce per configurarsi più 
o meno esplicitamente come una sorta di decadenza, tanto da conferire 
al pensiero politico del ginevrino dei caratteri apertamente 
conservatori. Ed è anche vero che lo stato di natura è esso stesso uno 
stato di “deficienza”, tale che la caduta non ha luogo da un punto 
molto elevato. 
                                                          
14
 ibidem, 4087, 11 maggio 1824, p.826 
15
 M. De Las Nieves Muñiz Muñiz, Poetiche della temporalità. Manzoni, Leopardi. Verga, Pavese, 
Palumbo,Palermo 1990, pp.183-184 
 IX
Così Rousseau s’impegna alacremente nella valutazione simultanea di 
questi due possibili stati dei viventi, naturale come sociale, e delle loro 
rispettive deficienze; egli è ben lontano da una riproposta concreta 
dello stato naturale, ma tende comunque a comprendere come e 
quanto lo stato di natura possa costituire le basi della realizzazione di 
un positivo sistema sociale, politico, morale e pedagogico. 
Pertanto, non sembra sussistere tanto contraddizione tra i due stati 
quanto piuttosto diversità.  
Lo stato di natura è un’armoniosa convivenza di tutti gli elementi 
della natura, uomo compreso, contraddistinto dall’unica componente-
natura come organismo unico che, anzi, ritrova nella sua unitarietà la 
sua perfezione, e dunque la sua possibilità di essere soggetto ad una 
metafisica. 
Lo stato civile e sociale, invece, è almeno preliminarmente una 
situazione di radicale separazione tra individui umani come esseri 
altrettanto radicalmente separati dalla natura; per questa assenza di 
organicità ed unità, e dunque di perfezione, lo stato sociale 
sembrerebbe del tutto esente da una vera e propria metafisica. 
Tuttavia, per Rousseau, sopravvive nell’uomo (nell’uomo civile come 
unico uomo di cui si abbia una conoscenza fondata) quel tanto dello 
stato di natura che induce a tendere verso l’unità organica e quindi 
verso la fondazione di una metafisica che abbia per oggetto tale unità. 
Lo stato di natura, pertanto, con questa sua unità organica tra tutti gli 
elementi della natura, diventa un modello della futura società virtuosa; 
modello, beninteso, illuminante, ma inimitabile, visto che la situazione 
di massima differenziazione cui gli uomini sono pervenuti con la 
civiltà non è più revocabile. 
Il progetto rousseauiano di “società virtuosa”, più che un ritorno vero 
e proprio allo stato naturale delle origini, è un tentativo di realizzare la 
componente naturale nella contemporanea condizione sociale, ovvero 
un’approssimazione alla situazione di unità organica presente nello 
stato di natura. 
“Nello stato di natura, l’impronta del divino che si è ritratto, è un 
vuoto che la natura intera tenta di colmare; nell’ambito dello stato di 
 X
civiltà quell’impronta segna innanzitutto l’uomo” e pertanto, nel bene 
o nel male è” l’uomo che tenta di colmarla.”
16
 
Dunque, l’uscita dell’uomo dallo stato naturale è una caduta, non tanto 
perché la società civile sia di per sé inferiore rispetto alla condizione 
di natura, quanto perché l’uomo è passato dallo stato di natura a forme 
sempre meno virtuose di società civile. 
Se è vero che l’uomo naturale va dalle tenebre ai lumi della ragione, 
non è meno vero che questi lumi giocano nella nostra storia un ruolo 
ambiguo, nel quale il  Discours sur l’inegalitè legge la corruzione e 
l’Emile o il Contrat social  scorgono invece la possibilità di 
rigenerazione. 
“L’uomo non è capace del meglio se non è nello stesso tempo capace 
del peggio”, scrive Burgelin
17
, ed è solo in questo senso che Rousseau 
parla di corruzione o decadenza, ossia di “male”. 
L’uomo sfugge all’animalesca felicità naturale per affrontare le 
responsabilità della propria volontà e coscienza, per diventare “uomo” 
e per ritrovare una natura offuscata dal progresso, ma sopravvissuta in 
noi sotto forma di appello alla felicità perduta. 
Ma l’uomo può anche mancare questo movimento di progresso, 
deviando verso la strada della corruzione e della depravazione. La 
moltiplicazione dei suoi bisogni e la sua smodata avidità di superare 
introducono il male sulla terra, il disordine in seno all’ordine 
universale. 
Dunque per Rousseau, che in questo sembra essere distante anni luce 
dal “Tutto è male “ di Leopardi, il male viene dal di fuori e non dal di 
dentro della natura.,  
L’uomo può però benissimo distinguere la natura –non distrutta, ma 
semplicemente offuscata ed opacizzata dal progresso-, e costruire su 
di essa un’educazione che sia essa stessa un ordine. 
Solo così egli manterrà sempre un vigile controllo del proprio 
equilibrio, non tralasciando mai i richiami della propria coscienza, 
quel principio innato di unità che comprende, giudica ed ama tutto 
quel che la ragione propone, e che dirige infallibilmente verso la 
                                                          
16
 F. Jesi, La metafisica profana di Jean-Jacques Rousseau, in AA.VV., Rousseau negli scritti, a cura di 
M. Antonelli, ISEDI, Milano 1977, p.106 
17
 P. Burgelin, Fuori delle tenebre della natura, in AA.VV., Rousseau negli scritti, op. cit., p.116 
 XI
certezza metafisica che la natura e il bene dell’uomo dipendono da un 
solo ed unico principio di ordine.  
Come concluse il Burgelin, la fede incondizionata in tale principio 
costituisce “il fondamento delle nostre speranze e la certezza della 
nostra moralità (…), la certezza che nulla è mai interamente perduto, 
che i pregiudizi e le abitudini non possono interamente soffocare una 
voce che si farà udire quando sapremo far tacere le nostre 
passioni.”
18
  
 
  
 
    
 
 
 
                                                          
18
 P.Burgelin, Fuori delle tenebre della natura, op. cit., p.120 
CAP.1: LA NATURA LEOPARDIANA 
 
 
INTRODUZIONE 
Le due concezioni di natura in Leopardi: 
il dibattito critico 
Proprio l'impossibilità di dare una definitiva risposta all'interrogativo 
"che cosa è la natura in Leopardi?", rende particolarmente 
affascinante la ricerca leopardiana, perché impone il confronto con un 
percorso di pensiero -per alcuni lineare e coerente, per altri 
contraddittorio e labirintico- che attraversa l'intera opera del poeta, dal 
giovanile apprendistato alla maturità filosofica, dalle forme liriche e 
letterarie a quelle narrative e diaristiche, dalle elaborazioni concettuali 
alle figurazioni mitiche, fantastiche e metaforiche. 
La particolarità di questa meditazione leopardiana sulla natura, "che 
procede per piccoli passi e ritorni, per intermittenze intrecciate 
inscindibilmente con memorie e progetti, anticipazioni 'emotive' e 
negazioni 'teoretiche'”, consiste per il Folin nel fatto che “essa si dà 
nel suo farsi stesso, nelle anse e negli anfratti di un cammino 
circolare sempre risalente al punto di partenza. In questa eterna 
'ripetizione' della domanda”, precisa il Folin, “non ci troviamo di 
fronte, tuttavia, a un tessuto linguistico 'mono-tono'”, visto che “la 
tonalità, l''immagine', varia, e in questo variare essa porta con sé 
nuove acquisizioni di verità, nuove conoscenze." 
1
 
Questa natura è ora un concetto, ora un impulso, ora un'immagine 
poetica: il "poetico" non è un'attribuzione che il soggetto assegna alla 
natura, ma è un modo di essere della natura stessa. Lo stesso Leopardi, 
in un pensiero dello Zibaldone del 1821 incentrato sull'elogio 
dell'immaginazione, ci avverte che riflettere sulla natura, prescindendo 
dalla poeticità con cui essa s'impone allo sguardo, significa mancarne 
un aspetto essenziale: "Ora,(…)è manifesto che colui che ignora una 
parte, o piuttosto una qualità una faccia della natura, legata con 
qualsivoglia cosa che possa formar soggetto di ragionamento, ignora 
un'infinità di rapporti, e quindi non può che ragionar male, non veder 
 2
falso, non iscuoprire imperfettamente, non lasciar di vedere le cose le 
più importanti, le più necessarie, ed anche le più evidenti."
2
  
Infine questa natura assume ora implicazioni filosofico-teoretiche, ora 
morali, ma sempre intimamente interconnesse; pertanto il Folin 
conclude che "l'ascolto del testo non può prescindere dai due livelli, 
ma deve mantenersi in una situazione di costante -precario- 
equilibrio."
3 
La natura è, insomma, vista da Leopardi in tutta la sua ampiezza e 
nelle sue implicazioni dirette e indirette: ciò che basta a smitizzare, o, 
almeno, a ridurre a più ragionevoli proporzioni, la famosissima 
formula dei due pessimismi leopardiani -l'uno storico, e l'altro 
cosmico-, applicata al principio del Novecento soprattutto da 
Bonaventura Zumbini 
4
,e destinata ad una straordinaria fortuna nella 
storia della critica leopardiana e nei manuali scolastici, legati ancora 
alla sopravvivenza di vecchi schemi. 
Essa sarebbe nata proprio sulla base del mutato atteggiamento 
ideologico di Leopardi rispetto alla natura, tanto che, intorno al 1935, 
Giusso scriveva un saggio intitolato Leopardi e le sue due ideologie, 
sostenendovi che "solo distinguendo rigorosamente nello Zibaldone 
due ideologie separate e distanti l'una dall'altra, si possono evitare le 
accuse di incongruenza e di contraddizione, ed anche le mezze 
apologie e le mal rabberciate giustificazioni che si leggono del 
Nostro. Spettacolo pietoso”, aggiungeva il Giusso, “è il vedere quasi 
tutta la critica italiana, strologarsi ed eliminare l'antinomia esistente 
fra l'elogio incondizionato delle illusioni e la riaffermazione solenne, 
consegnata nella Ginestra, dell'utilità del 'verace sapere', cioè del 
materialismo divulgato alle masse.”  
Spettacolo pietoso era insomma “quello degli affettuosi apologisti, 
affannati ad accumulare argomenti allo scopo di attenuare il 
radicalissimo pessimismo finale, il quale non sarebbe poi così bieco e 
cupo, se controbilanciato dalla giovanile fortificazione delle virtù 
familiari e civiche di patria e d'onore. Spettacolo insignificante, 
quello di studiosi illustri forestieri, come il Vossler i quali, per non 
aver seguito la trama da noi indicata, ci modellano un Leopardi 
 3
giunto, fin dalle prime righe dello Zibaldone, al convinto ateismo 
finale."
5 
Infatti, il Vossler, dal Giusso criticato, scriveva che la natura "è 
dapprima per lui una benigna madre dell'umanità, custode dell'età 
dell'oro, nutrice delle belle magnanime e benefiche illusioni e delle 
arti, amica dell'antichità greca, divinità della germogliante vita e di 
ogni spontaneità, e sinanco unica verità senz'altro, e fondamento 
dell'essere(…)Ma poi, a misura che dal suo infinito seno si staccano 
le forze e gli esseri, l'istinto si eleva a ragione, la prima natura in una 
seconda, il fanciullo a creatura sociale, la volontà di vivere a volontà 
di conoscenza e di cultura; questo mondo nuovo e cosciente si 
estrania dalla sua naturale e buona origine e(…)trascinato dal suo 
proprio mito, Leopardi stesso si rivolge, critico e nemico, contro la 
bellissima Dea. Egli ora la sviscera, trova contraddizioni, incertezza, 
autodistruzione, crudeltà, indifferenza verso le sue proprie creature e 
finalmente stupidità e abissale insensatezza nel suo grembo, una volta 
così intimamente riverito." 
6
 
Secondo Giusso, il passaggio, in Leopardi, fra queste due presunte 
ideologie diverse, sarebbe un passaggio da un deismo franco-inglese 
alla Locke e Voltaire ad un materialismo alla D'Holbach. La fase 
deista sarebbe rintracciabile, oltre che nei primi tomi dello Zibaldone, 
in poche Operette morali, che "galleggiano come oasi nell'inamabile 
deserto pessimista"
7
; tra queste: la Storia del Genere umano, 
incentrata sul mito delle epoche rozze ed ingenue, Il Parini, ovvero 
della gloria, un analogo panegirico delle vigorose civiltà antiche 
"secondo natura", il Dialogo di Cristoforo Colombo e Ramiro 
Gutierrez, in cui l'infelicità umana sembra riscattabile attraverso la 
temerarietà eroica e l'azione incessante.  
Tale duplicità ideologica in Leopardi aveva trovato un'esplicita 
confutazione già negli anni '40 del '900 in Giovanni Gentile, che non 
amava la rigida distinzione in periodi: "Chi distingue nel pessimismo 
leopardiano due fasi o forme, la prima di un pessimismo storico in cui 
tutto il male è frutto dell' 'irrequieto ingegno' e dello 'scellerato 
ardimento' degli uomini contro gli 'inermi regni della saggia natura 
(di cui si parla nell' 'Inno ai Patriarchi'), e l'altra di un pessimismo 
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cosmico che fa gli stessi uomini vittime incolpevoli della immane 
natura, si lascia sfuggire l'unità fondamentale dello spirito del Poeta, 
dov'è, ripeto, il segreto della sua poesia: di quella dolcezza che ci 
suona dentro alla lettura dei ‘Canti’ dal primo all'ultimo, e in forma 
più palese e storicamente determinata, almeno nell'intenzione dello 
scrittore, nelle 'Operette morali': dolcezza che vince, per così dire, 
tutta l'amarezza che negli uni e nelle altre si riversa nelle più varie 
forme dell'anima di quest'uomo, che fu certamente tanto grande 
quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta onda della sua poesia 
tutto il dolore del mondo, ma non per avvolgere il mondo stesso nella 
tenebra della disperazione, anzi per illuminarlo coi raggi di 
un'indomata fede nella vita con i suoi ideali e i suoi entusiasmi"
8
.  
Questo brano sembra ricalcare fedelmente l'interpretazione idealistica 
dell'opera leopardiana, nella quale viene privilegiata la personalità di 
un Leopardi poeta dell'idillio, sostanzialmente negato all'impegno 
ideologico e filosofico. Tale interpretazione, risalente alla lettura De 
Sanctisiana dell'opera di Leopardi, sotto la specie esclusiva della 
prospettiva estetica di marca romantica, appare piuttosto riduttiva 
anche in senso quantitativo, perché costringerebbe a confinare gran 
parte della produzione leopardiana -dallo Zibaldone alla Ginestra, 
dalle Operette morali ai Paralipomeni e ai Nuovi credenti- 
nell'insieme dei progetti non riusciti o falliti sin dalle intenzioni. 
Tornando al nostro esame delle diverse implicazioni di "natura" in 
Leopardi, conveniamo sul fatto che il poeta non abbia mai fornito una 
definizione di natura totalmente decontestualizzata e che piuttosto nel 
termine "natura" convergano più e più significati, rintracciabili fra la 
componente poetico-paesaggistica, il vivente nel suo complesso, la 
parte vitalisticamente biologica e istintuale dell'uomo contro quella 
acquisita razionale e culturale, e un'onnipotente volontà che a tutto 
presiede.  
Circa quest'ultima accezione in particolare, la filosofia di Leopardi 
soffre dell'oscillazione tra l'inclinazione benigna e maligna di questo 
potere universale, oscillazione, forse, non tanto imputabile a 
sconfessioni o ripensamenti, quanto piuttosto, come suggerisce il 
Fubini
 
nel suo commento alle Operette morali, a stati d'animo diversi: 
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"Lo stesso dialogo leopardiano di cui si è tanto parlato (il "Dialogo 
della Natura e di un islandese") e a cui è stato mosso l'appunto di 
mancare di vera forza drammatica, si può comprendere quando non si 
cerchi negli interlocutori un antagonismo di concetti e di caratteri, 
ma si senta nello stacco delle battute piuttosto un valore lirico e 
musicale che un valore drammatico.(…) Personaggi come il folletto e 
lo gnomo, Torquato Tasso e il suo genio, non rappresentano certo due 
opposte facce dello spirito leopardiano: bensì permettono al poeta 
(…) di cogliere le sfumature del suo unico sentimento(…). Pochi 
dialoghi di Leopardi si fondano su di un vero e proprio contrasto di 
pensiero e di caratteri: sull'antagonismo iniziale, prevale, si sa, l'onda 
del sentimento che si effonde nel discorso(…)
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": ipotesi, questa, 
rispettabile, purché non la si collochi romanticamente entro la sfera 
lirico- sentimentale, ma la si corrobori, invece, di tutte le implicazioni 
ideologiche, psicologiche ed esistenziali in gioco. 
Più equilibrata sembra la proposta del Severino, che, negando in 
Leopardi il passaggio da un'iniziale concezione ad un'altra, magari 
opposta, iscrive piuttosto il senso della natura leopardiana in un ordine 
di considerazioni molto più ampio: "E' quindi inevitabile che il 
pensiero di Leopardi finisca col vedere che la mancanza di colpa 
della 'natura'( intesa come 'ordine naturale'), nell'accadimento del 
'male', è irrilevante rispetto al 'male' in cui consiste l'accadimento 
stesso in quanto tale, cioè il caso, il divenire senza perché della 
'natura' che produce e distrugge infiniti 'ordini naturali'. Ed è 
inevitabile che di questo 'male' primordiale (…), comprendente in sé 
anche ogni male che accade nel 'sistema della natura', -il pensiero di 
Leopardi finisca con l'incolpare il 'gioco' senza perché, il 'gioco reo' 
dell'infinito divenire della 'natura'(…).Questi due sensi della 
'natura'(…) non segnano due fasi contrapposte del pensiero di 
Leopardi, ma sono essenzialmente intrecciate."
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Sia che si accolga la tesi di un passaggio vero e proprio da una 
concezione a un'altra di natura, sia che si accetti una convivenza 
pacifica tra l'idea di una natura buona e quella di una natura malvagia, 
è innegabile la diversità di vedute con la quale Leopardi presenta la 
natura a un lettore che, nell'Inno ai Patriarchi, coglie "contra il nostro 
 6
scellerato ardimento inermi regni della saggia natura" (vv.110-112) 
e, nel Dialogo della Natura e di un Islandese, teme questa "smisurata 
di donna forma(…), di volto mezzo tra bello e terribile"
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,la quale non 
si avvedrebbe affatto di un'eventuale estinzione della specie umana ed 
è volutamente laconica di fronte alle angosciose domande del suo 
interlocutore, fino a infliggergli direttamente la morte. 
Si tratta dunque di due concezioni innegabilmente incompatibili, 
riferibili a matrici culturali diverse (ad una lunga tradizione di 
classicismo, la prima, e ad un impianto settecentesco, la seconda), 
complicate dal confronto con la singolare figura rousseuiana, e da 
esperienze biografiche ed obiettivi polemici sostanzialmente 
differenziati.
 
Sergio Solmi, nell'intento di ridimensionare le incongruenze, imputa il 
divario soltanto ad una semplice confusione terminologica da parte di 
un Leopardi non professionalmente filosofo, il quale non fornirebbe 
mai un'univoca definizione di natura, ma soltanto le determinazioni 
relative al contesto in cui essa è introdotta, e che, da un certo punto in 
poi, definirebbe 'natura' delle entità ('caso', 'fato', 'divinità') che 
tuttavia nella sua mente restavano differenziate
12
.
 
Se la precedente critica, appena esaminata, poneva le due ideologie 
leopardiane in cronologica successione, il Solmi le considera 
compresenti e nient'affatto in contraddizione, perché alludenti a due 
esiti veritativi diversi: principio informatore, alla maniera illuministica 
(da un lato) e ordine cosmico, alla maniera romantica, (dall'altro lato); 
non esisterebbe, dunque, una vera e propria svolta a proposito dell'idea 
leopardiana di natura, ma piuttosto un progressivo allargamento del 
pessimismo dal mondo umano e storico all'intero universo dei 
viventi.
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Questa distinzione sarebbe comunque priva di un saldo fondamento 
epistemologico, dal momento che essa assumerebbe la propria vitalità 
all'interno di un contesto poetico, e dunque in una zona della 
conoscenza che poco aveva a che fare con la verità filosofica, e molto 
con l'estetica letteraria. Lo stesso Solmi dichiara di essersi attenuto 
principalmente a passi dello Zibaldone, e di aver tralasciato i Canti e 
le Operette morali, "non altrettanto probanti, perché il pensiero 
 7
leopardiano vi si trova ad uno stadio meno genuino, in quanto 
maggiormente soggetto alle esigenze letterarie."
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Secondo il Solmi, l'idea della coesistenza pacifica delle due nature 
veniva suggerita da alcuni passi dello Zibaldone posteriori agli anni 
1823-27, cosiddetti della "crisi", in cui vi è un alternarsi delle 
concezioni contrastanti senza un'apparente soluzione di continuità: 
riaffermazione del carattere benefico della natura e attribuzione di 
ogni responsabilità negativa al fato o alla civiltà, e riconferma della 
funzione distruttiva della natura malefica; sicché fato e natura, (il che 
equivale a dire natura innocente e natura colpevole), appaiono a volte 
come elementi separati e antitetici, altre volte come sinonimi 
perfettamente intercambiabili.  
Così il Solmi si domandava: "che le pretese 'contraddizioni' non si 
riducano, per Leopardi, ad una pura questione di terminologia? 
Leopardi, anzitutto, non ci offre mai una definizione vera e propria 
del concetto di Natura. Quanto pare certo è che la sua natura 
provvidenziale, di derivazione rousseauiana, non coincide con la 
totalità dell'essere, con l'integrità dell'Ordine cosmico, ma 
rappresenta soltanto un principio informatore e finalistico di esso. 
Esprime in pari tempo lo sviluppo vitale della sua spontaneità, 
l'armonia originaria del vivente contrastata dalle deviazioni e 
corruzioni apportate dalla ragione e dalla civiltà, e talora, parrebbe, 
dalla distorsione degli stessi istinti animali.(…). ” La non coincidenza 
di questa 'natura' con la totalità cosmica e il suo rappresentarne, 
piuttosto, soltanto un principio informatore è per il Solmi “dimostrato 
anche dal fatto che sovente Leopardi si adopera a scagionarla (…) 
dai 'disordini nel corso delle cose'.(…) L'altra idea leopardiana della 
Natura non è in contraddizione con questa, non ne rappresenta una 
correzione o uno sviluppo, ma costituisce, piuttosto, il diverso 
concetto di una diversa entità, che Leopardi avrebbe potuto benissimo 
denominare altrimenti, evitando le apparenti contraddizioni logiche 
che si riscontrano nel suo pensiero.(…)” Se poi questa entità assume 
anch'essa in Leopardi il nome femminile di ‘natura’, “il perché di tale 
denominazione(..) deve farsi risalire non certo a una ricerca di 
concetto filosofico, bensì, essenzialmente, a una "ragione poetica".