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I. INTRODUZIONE 
 
Una rete di relazioni sotterranee, esito di una concentrazione di letteratura e ricerca 
esistenziale, intercorre tra le opere di tre scrittrici di una stessa generazione: Lalla Romano, Elsa 
Morante ed Anna Maria Ortese. Un’indagine sul segreto dell’Essere, nei luoghi e nei tempi del 
vivere umano, s’avvia alla ricerca della verità e della realtà, accomunando la loro scrittura.  
Il presente lavoro tende a rintracciare questa rete di tematiche esistenziali le quali, 
imperniate sulla ricerca della realtà, traggono origine da diverse storie modellate attorno ai 
sentimenti dei personaggi. In tale prospettiva, le basi della loro concezione del reale s’allacciano 
ad uno sguardo analitico del mondo, raggiunto grazie ad un approccio che ne ritrae altre forme 
di conoscenza della sfera intima, quali: la memoria, i sogni, la fantasia e il surreale.  
  In virtù di questa essenza, comune alla loro scrittura, l’analisi realizzata si è circoscritta, 
per l’esemplificazione e le citazioni, ad una selezione delle loro opere
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 che riflettesse questo 
cammino verso la concezione della realtà e ne chiarisse, in modo palese, le opinioni delle 
scrittrici (saggi, interviste e altri scritti).  In un crescendo di metodi e di esempi verso la 
spiegazione tangibile e comune del loro concetto di realtà, senza soffermarsi sulle strutture 
narrative della loro produzione, le osservazioni sul mondo e la civiltà, sono state, in un inizio, 
divise per ogni scrittrice, allo scopo di segnalarne i diversi criteri analitici.  
 
 
I.1 Diversità biografiche di uno sguardo comune 
  
La produzione di queste tre scrittrici si concentra e si sviluppa nel secondo Novecento: 
diversi aspetti familiari, culturali, storici e politici hanno guidato e distanziato le loro divergenti 
esperienze di vita, le quali, ciononostante, si basano su una scelta esistenziale comune.  
Le date delle loro prime pubblicazioni corrispondono al periodo prebellico, e fin da 
allora si delineavano in esse la poetica e le tematiche conduttrici di tutta la loro produzione. Le 
componenti filosofico – esistenziali fluiscono dalla loro scrittura e sembrano rispondere ad una 
stessa condotta di alto impegno e rispetto morale in relazione ad ogni aspetto della vita.
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Varie esperienze scatenate dalle vicende storiche del momento, motivarono anche 
questo loro atteggiamento. Nel 1935 Graziella Romano - nata a Demonte (Cuneo) l’11 novembre 
1906 -, mentre Mussolini inizia le operazioni militari contro l’Abissinia, si trasferiva a Torino 
insieme a suo marito. Avendo già ottenuto la laurea in lettere, incomincia a lavorare come 
insegnante di letteratura ed espone, in diverse mostre, le sue pitture, frutto delle lezioni di 
Felice Casorati.  Fino alla sua prima pubblicazione nel ’41 - la raccolta di versi “Fiore” - si era 
dedicata, figlia di una famiglia della media borghesia, alla formazione professionale e familiare.  
Partecipava, inoltre, alle attività caratteristiche dell’ambiente culturale laico progressista di 
Torino, dove realizzò i suoi studi universitari, e visse l’esaltazione della letteratura francese.  
L’anno 1935 segnò per Elsa Morante - nata a Roma, il 12 agosto 1912 -, allora diciottenne 
ed emancipata dalla famiglia, l’inizio della sua collaborazione, con alcuni racconti, a delle riviste 
importanti. Conosce, e sposa più tardi nel ’41, Alberto Moravia, anno nel quale inizia le sue 
pubblicazioni con la raccolta di racconti “Il gioco segreto”.  Queste intraprendenti attività 
derivavano, invece, da conflitti familiari, economici e da una troncata formazione scolastica, 
casalinga e autodidatta nelle elementari, conclusa con l’ingresso alla facoltà di lettere, presto 
abbandonata. Sorella di quattro fratelli coi quali condivise, nel quartiere popolare del Testaccio, 
un padre non biologico, visse la preferenza di sua madre, d’origine ebrea e ufficialmente 
cattolica, per le sue doti artistiche in fiabe e poesie. La figura materna, tuttavia, fu sostituita 
temporaneamente quando Elsa si trasferì dalla sua ricca madrina: l’intelligenza e la bellezza 
che, l’una e l’altra, scorgevano in lei, non erano invece percepite in maniera tale dalla stessa 
Elsa, sempre in bilico tra i complimenti e le frustrazioni. La cultura risentiva l’avvicinamento al 
nazismo hitleriano e all’entrata in guerra: la censura sui centri educativi e di divulgazione, la 
chiusura alla creatività, anche dei giovani, sollecitavano in loro, tra cui Elsa, la riflessione 
interiore sulle problematiche esistenziali. Il rapporto conflittuale con Moravia, di cui i suoi 
sentimenti di esclusione e di solitudine n’erano parte, furono espressi nel “Diario 1938”, in cui 
era evidenziata una notevole presenza e influenza di Franz Kafka. 
 La giovane Ortese -  nata a Roma, il 13 giugno 1914 – subiva le stesse condizioni 
storiche: “La dittatura era anche silenzio, dopotutto, un generico ordine, e questo silenzio e quest’ordine,
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per quanto tristi, consentivano di pensare.”(Ortese, 1997, p.46). Periodi dedicati alla meditazione, 
esito di una biografia segnata dalla miseria di una numerosa famiglia. Sei fratelli alimentati da 
un padre i cui impegni - impiegato alla Prefettura e dipendente dal governo- la costringevano a 
girare l’Italia, e le offrivano solo un’incostante formazione scolastica, interrotta al primo anno di 
una scuola commerciale. Stabiliti temporaneamente nella patria materna, Napoli, non può 
continuare i suoi studi di pianoforte e la famiglia soccombe ad uno strazio affettivo, “caduta del 
vivere”, con la notizia della morte di suo fratello marinaio, Emanuele.  Un’esperienza catartica 
che, seguita da nuovi decessi, dall’emigrazione di altri fratelli e insieme alla scoperta delle 
luminose letture di Victor Hugo, determinò la sua posizione di fronte alla vita. “Angelici Dolori” 
del ’36 – il suo primo volume di novelle - nasce da questo periodo in cui “quando non vi sia il 
rumore delle ambizioni, consente di pensare” (ivi, p.47), e durante il quale nel mondo c’erano 
meraviglie e stranezze “quasi non sopportabili”. La sua incessante ricerca d’aiuto familiare e di 
consolidazione professionale, la conducevano a continui spostamenti, vissuti come una 
traumatica lotta contro la fame e l’appagamento della sua sete di espressione.  
Ai margini del movimento letterario neorealista, delineato già negli anni Trenta, con 
Moravia, Vittorini e Pavese, nessuna di queste tre scrittrici ci si adeguava: le opere del loro  
esordio erano singolari e diverse dai filoni letterari dell’epoca.  Proponevano una travolgente 
riflessione esistenziale, con degli elementi surreali e lirici, piuttosto che d’impegno politico. Le 
dissimili caratteristiche delle loro opere traevano, in parte, origine dalla cultura internazionale e 
mitteleuropea (Romano), dalle storie cavalleresche, fiabesche (Morante) e, in parte, dal realismo 
magico di Bontempelli (Ortese)  
“Ma giunse la guerra e tutto fu niente” (ivi, p.47). Per Lalla, le difficoltà non furono estreme 
e, concluso il periodo bellico, la sua vita s’avviava verso un quotidiano sereno, segnato dalla 
pubblicazione delle sue opere. “Sfollata nella sua città”, oltre al lavoro d’insegnante, 
collaborava, con altri amici partigiani, in “Giustizia e Libertà”: attività antifascista allargata con 
il ruolo di Consigliere comunale per il PCI nel ’76, e la partecipazione al progetto 
dell’inserimento internazionale della cultura italiana.  Piano di lavoro curato dalla Casa Editrice 
Einaudi che pubblicò la stragrande maggioranza delle sue opere.
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Elsa Morante visse il periodo bellico in modo drammatico e intenso, dovette fuggire in 
altre zone d’Italia ed entrò in contatto con la cultura meridionale. Nuove esperienze 
concorrevano allora alla stesura di diversi romanzi che, dopo la Liberazione di Roma, lavorava 
con dedizione, in un ambiente di solitudine sociale. “Intorno alla metà degli anni Sessanta, Elsa 
sottopose la sua vita a un’interpretazione, come spesso avviene, retrospettiva. Era stata una creatura 
deliziosamente narcisistica, e aveva vissuto di un lungo incantesimo” (Morante, 1987, XX). Parecchi 
avvenimenti colpirono la sua vita, tra cui la separazione da Moravia, il suicidio e la morte di 
amici: il disprezzo di sé e del proprio corpo, in un atteggiamento autopunitivo, s’abbracciarono 
ad una lenta e progressiva malattia. Reclusa nel suo domicilio e, dopo un frustrato suicidio, 
ricoverata in una clinica romana, morì d’infarto nel 1985.   
Durante la guerra, diversi conflitti continuarono a caratterizzare la vita di Anna Maria 
Ortese, subì i bombardamenti e dovette sopravvivere tra le macerie. In seguito alla scomparsa 
dei genitori rimase con l’unica compagnia di una sorella: sentitasi disprezzata ed esclusa dalla 
“Repubblica Italiana” e dalla critica, era seguita solo da una stretta cerchia di lettori.  In cerca di 
lavoro - giornalista, reporter all’estero e pubblicista - e grazie all’aiuto e “la bontà di alcuni 
amici”, si sposta, tra camere mobiliate, per tutta l’Italia, fino al suo trasferimento definitivo, nel 
’75, a Rapallo. Al problema dell’espressione, la cui libertà dovette sottomettere alle “frasi fatte” 
da vendere, s’aggiungeva, complicandolo o attenuandolo con i suoi salari, la sopravvivenza: “il 
problema, per così dire, generale, e chi mi avrebbe accompagnata tutta la vita” (Ortese, 1997, p. 55). La 
sua solitudine non mutò finché si spense con una malattia cardiocircolatoria, il 10 marzo 1998. 
Le loro vite sono contraddistinte dall’aspetto familiare ed economico: diseguaglianze 
nelle subite esperienze belliche e postbelliche, nell’accessibilità alle casi editrici e ai contatti che 
lo permettevano, nel rapporto con la critica. A dispetto di queste diversità, le tre scrittrici e 
donne, di fronte alla distruzione della guerra e le sue conseguenze, all’avvio di un’Italia 
industriale e capitalistica, e all’arrivo dell’era atomica, si manifestano saldamente unite: al loro 
sguardo non scappano i particolari familiari e affettivi del quotidiano o le grandi decisioni 
politiche; la psicoanalisi o la ricerca filosofica dell’essere; una solida critica sociale o una 
profonda comprensione degli errori dell’umanità.