3
 
 
 
 
La storia comincia 
dove finisce la memoria. 
 
Arnold J. Toynbee 
 
 
 
 
0.0. Due perché per una memoria che non ho 
 
Fin dal titolo questo lavoro si presenta segnato da due perché, che 
costituiscono la sua ragion d’essere: perché il cinema e perché la storia dei primi anni 
ottanta? 
Per rispondere al secondo di questi perché, devo cercare di spiegare un 
bisogno sentito come qualcosa di personale fin da quando ho iniziato a studiare la 
storia italiana del dopoguerra. Il mio primo ricordo, legato, in qualche modo, ad un 
evento storico, è l’esultanza del presidente Pertini per la vittoria della nazionale di 
calcio ai mondiali di Spagna ’82. Ed è un ricordo televisivo, televisivamente costruito 
come ricordo, perché ripetuto e ritrasmesso; un ricordo diventato quasi un’icona, 
che potrebbe, credo senza troppi problemi, essere definito collettivo, comune. E già 
questo mi sembra significativo per chi, come me, fa parte della prima generazione 
cresciuta con l’intera potenza di fuoco televisiva dispiegata (emittenti pubbliche e 
private, dato che il 1976, anno della liberalizzazione dell’etere, è il mio anno di 
nascita). Non posso ricordare il sequestro Moro, la strage della stazione di Bologna, 
né altri fatti di sangue simili. Non ricordo l’Irpinia, Ustica, e neppure la morte di 
Berlinguer. Insomma, ben poco mi ricordo della storia degli anni Ottanta passata in 
tv, della storia che io posso aver visto e sentito. Poco, almeno fino alla caduta del 
muro di Berlino - ma era già il novembre 1989, quasi si entrava negli anni Novanta -. 
Gli anni Ottanta li ho letti sui libri, visti nei film di basso profilo estetico che tanta 
parte hanno avuto nella conquista dell’etere privato, li ho conosciuti dalle 
conversazioni con quanti, avendoli attraversati con spirito critico diverso da quello 
di un bambino, ne conservano vivo il ricordo (anche se magari se lo nascondono 
 4
bene…). Gli anni Ottanta sono, insomma, un ricordo che mi manca, una memoria che non ho, 
se non per sentito dire, vissuta nelle definizioni che qualcuno dà dei nostri decenni: i 
rampanti anni Ottanta.  
Eppure, guardando indietro a questa memoria che mi manca, mi resta anche 
la sensazione di un qualcosa di indistinto e di confuso non facilmente riconducibile 
a queste definizioni; perché gli anni Ottanta, oltre che anni rampanti, sono anche gli 
anni dello ‘Stato ferito’, dei molti dibattiti televisivi, del dilagare della corruzione e 
della televisione come medium egemonico; sono gli anni in cui si esaurisce la follia 
dell’eversismo di sinistra, in cui il terrorismo viene sconfitto e messo a tacere, e 
durante i quali si consumano gli strascichi della strategia della tensione. Gli anni 
Ottanta, cioè, sono segnati proprio dalle follie terminali del terrorismo e della sua 
violenza, e questo proprio mentre una nuova Italia si staglia all’orizzonte; e 
l’impressione che mi resta, guardando indietro, è che si faccia ancora molta fatica a 
parlare con franchezza di quegli anni, come se fosse proprio questa memoria 
‘diversa’ (e ‘violenta’) a cozzare contro le facili definizioni del decennio e contro le 
sue immagini dominanti, rendendo il quadro non facilmente definibile. Oltre ai fatti, 
agli intrighi e alle responsabilità ancora nascoste dietro ai fatti di terrorismo (siano 
essi le stragi o i sequestri di persona), resta un velo opaco su questo fenomeno che 
entra negli anni Ottanta, che segna l’inizio del nuovo decennio. Sembra manchi una 
precisa presa di coscienza storica di questa incidenza, che permetta di capire gli effetti 
disgreganti che ha avuto tanto sul tessuto sociale, sui rapporti interpersonali, quanto 
nell’intimo di coloro che non lo hanno vissuto in prima persona ma solo di riflesso. 
Capire, insomma, cosa significhino davvero gli anni Ottanta in relazione al terrorismo, e come 
possano aver inciso e continuare ad incidere sul nostro presente:  quali le memorie e le cesure nella 
memoria. 
Partendo da queste considerazioni sulla memoria, sono andato a vedere se e 
cosa il cinema ci potesse offrire di diverso per delineare il quadro storico in maniera 
più dettagliata. E, come vedremo, è proprio dall’analisi dei film scelti che emerge la 
possibilità di tornare a leggere e a ricostruire il decennio degli anni ’80 in maniera 
diversa, assegnando al terrorismo un ruolo chiave in questa ricostruzione.  
E questo ci riporta indirettamente al primo dei perché emergenti dal titolo di 
questo lavoro: il cinema, appunto. Se ho deciso, infatti, di approfondire il problema 
 5
storiografico dell’utilizzo del cinema come fonte storica è proprio perché ho creduto 
possibile leggere un corpus scelto di film come luogo di deposito di una memoria di 
quel periodo diversa da quella normalmente discussa, dove si può nascondere la 
possibilità di tornare ad interrogarsi su quel periodo armati di un punto di vista altro, 
che nelle immagini viste sullo schermo trovi la propria legittimità e la sua ragion 
d’essere. 
Ed è dunque sempre una ragione privata ad avermi indirizzato a questa ricerca, 
nel tentativo di capire questo presente ancora confuso andandone a ricercare le radici non 
troppo lontano, nelle immagini di vent’anni fa, o meglio, in alcune delle immagini 
che di quel passato adesso ci restano. Il cinema, dunque, innanzitutto come 
emozione che fa rivivere anni che non ho visto, che li riporta alla luce. Il cinema, a 
grandi linee, come luogo di memoria, dove la memoria di un presente che si fa passato nel 
suo scorrere può fermarsi fra un’immagine e l’altra, e quindi depositarsi, stratificarsi. Il cinema 
come possibilità (virtuale) di far rivivere la memoria di quel presente sfuggente, come possibilità di 
prenderne possesso, di farla oggetto d’indagine e di ricerca. 
All’inizio della ricerca, quindi, ho ricercato e guardato tutti i film che in un 
modo o in un altro includevano il problema del terrorismo nelle loro immagini
1
. 
Nella carenza, da molti lamentata, di film italiani sul fenomeno ‘terrorismo’
2
, quattro 
film hanno colpito, più degli altri, la mia attenzione: sono La tragedia di un uomo 
ridicolo di Bernardo Bertolucci, Tre fratelli di Francesco Rosi, Colpire al cuore di Gianni 
Amelio e Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci. Sono questi, del resto, i pochi titoli 
che in diversi segnalano come i più significativi sugli ‘anni di piombo’, senza però 
mai spiegare il motivo di questa loro presunta rilevanza
3
. E’ indubbio che questi 
                                                           
1
 O quanto meno tutti quelli reperibili, poiché non tutti purtroppo lo sono. Per una retrospettiva 
completa, si veda la filmografia. 
2
 Si veda Miccichè 1998a, ad esempio la citazione riportata oltre. Anche Brunetta 1995, e Di 
Gianmatteo 1994 sono tendenzialmente dello stesso parere: il terrorismo al cinema, al cinema 
italiano, è stato fatto vedere poco e male. Non sta certo a me proporre una tesi forte contraria a 
questa, che in parte non mi può non trovare d’accordo; si tratterà però di andare a vedere cosa 
si possa ugualmente scoprire analizzando questi pochi film, o meglio una piccola parte di essi, 
inserendoli proprio nell’orizzonte cupo di quegli anni, per vedere come e perché ci possano 
aiutare a ricostruire una contro-storia di quegli anni. 
3
 Cosi Di Gianmatteo, che dopo aver scritto che “la materia del terrorismo non trova vera 
udienza presso il cinema, lo sfiora qualche volta e subito lo abbandona”, cita proprio questi titoli 
(più altri), ma per concludere poi che anche in questi film il problema viene solo accennato, mai 
compreso. “Affiorante di rado nel cinema di questi anni, inserito in storie di varia natura e 
consistenza, un tema cruciale come il terrorismo mostra in maniera (culturalmente) inquietante 
quanto sia fragile il tessuto del cinema italiano quanto riesca difficile ai suoi registi e ai suoi 
generi estrarre buona materia di racconto dal mondo che li circonda”. Di Gianmatteo 1994: 354. 
Numerosi sono anche i riferimenti incrociati fra questi quattro film nelle critiche del tempo, alle 
 6
quattro film, rispetto a molti dei titoli della nostra ipotetica filmografia sul 
terrorismo italiano, appaiono da subito i più articolati e quindi anche i più 
problematici, perché sembrano mettere in discussione innanzitutto se stessi, la 
propria natura cinematografica ed estetica. Pur in maniera diversa, infatti, questi 
quattro sguardi sulla realtà italiana dei primi anni ottanta nascondono anche 
riflessioni precise sulla loro natura; nascondono, cioè, un modo di interrogarsi sulla 
forma da dare al proprio sguardo, sulla prospettiva da assumere, il punto di vista da 
cui guardare.  
 
0.1. Il cinema nella Storia: le parole degli altri ed un segno dei tempi 
 
Ho detto che questi quattro film sono ‘sguardi sulla realtà italiana dei primi 
anni ottanta’; la cosa può essere definita ulteriormente, proprio riportando una 
coincidenza che li accomuna tutti. Infatti, due dei quattro film scelti per questo 
lavoro, ossia Tre Fratelli di Francesco Rosi e La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo 
Bertolucci, sono usciti nel 1981, e la loro lavorazione si è quindi svolta a cavallo fra 
il 1980 e il 1981. Degli altri due, Colpire al cuore di Gianni Amelio è uscito nel 1983 
ma è stato pensato, come si legge nelle dichiarazioni del regista e dello sceneggiatore 
Vincenzo Cerami, già nel 1979 e realizzato poi nel 1981, anche se è uscito in ritardo 
per motivi in un modo o in un altro legati alla censura; allo stesso modo Segreti Segreti 
di Giuseppe Bertolucci è uscito sul finire del 1984 ma è stato pensato e poi 
ambientato, pur in maniera certamente non chiara e con ricercata precisione 
nascosta, anch’esso nel 1981. Ancora di più tutti i film, eccetto forse Tre fratelli, 
prendono l’autunno come stagione ideale per l’ambientazione della storia narrata. E 
tutti e quattro i film mettono in scena, in questo passaggio di stagione ed in questo 
paesaggio autunnale, dove misteriosamente il terrorismo segna il clima e la tensione di 
ogni S/storia, la fine di un mondo ed un lento e misterioso scivolare verso un 
qualcosa percepito come altro, diverso. Vedremo in seguito quale è il valore storico 
                                                                                                                                                                          
quali rimanderemo nel corso delle singole analisi. Per il momento basti sottolineare come, in un 
ipotetico panorama cinematografico sul terrorismo, sono questi film ad essere ripetutamente 
segnalati come gli unici veramente significativi, senza però con questo, a mio avviso, mai 
capirne o spiegarne veramente la portata e la rilevanza. 
 7
di questi anni di passaggio e di svolta, che separano il vecchio decennio dal nuovo. Per il 
momento ci interessava solo presentare questa apparente coincidenza. 
Quelli scelti, dunque, sono quattro film che, in maniera diretta o a distanza di 
poco tempo, riflettono la (e sulla) soglia  del nuovo decennio, proprio alla luce di un 
fenomeno, il terrorismo, che nella memoria del nuovo decennio sembra non avere 
alcuna parte. Il terrorismo, infatti, non è un fenomeno degli anni Ottanta quanto 
piuttosto del decennio precedente. E allora cosa c’entra proprio il terrorismo con 
questi quattro film? Perché, appunto, ne segna il clima e la tensione narrativa, 
proponendosi come chiave forte di lettura delle diverse storie raccontate (e quindi, 
magari, anche della Storia che ci raccontano)? 
E’ questa la domanda principale che è nata da sola durante la visione delle 
pellicole, e che è rimasta come traccia di ricerca basilare. Capire perché, cioè, questi 
quattro film così densi e profondi, volutamente problematici, mettano in discussione 
le proprie modalità di discorso cinematografico, la propria struttura formale, proprio 
mentre filtrano, sullo schermo, la realtà del proprio tempo attraverso il terrorismo: 
mentre riflettono, cioè, una realtà che non è quella del terrorismo ma che risulta pur sempre 
percorsa ed invasa dal problema del terrorismo. Questo, mi è dato di credere, è dovuto al 
fatto che interrogarsi sul terrorismo era sentito da tutti e quattro i registi, o meglio 
da tutte e quattro le équipe che hanno lavorato ai film, come problema tanto politico 
quanto estetico. Un problema di forma, e quindi, anche un problema morale.  
Insomma, se questi film hanno colpito più di altri la mia attenzione è perché 
sembrano incastrarsi perfettamente con le precedenti riflessioni sulla memoria degli 
anni ’80. Visti a distanza di anni dalla loro uscita, ci si accorge forse meglio di  come 
e perché questi film proponessero proprio il terrorismo come chiave di volta del 
mutamento che stava avendo luogo nella società italiana; di come proponessero, 
cioè, di non dimenticare la memoria di quel fenomeno e delle sue ripercussioni sul 
sociale e nel privato, mostrandone in maniera precisa i risvolti allora attuali, la loro 
portata ‘storica’ alla luce di un presente in mutazione o, come nel caso di Segreti 
segreti, definitivamente mutato. 
 8
Leggendo le considerazioni di quanti riflettevano sul cinema di quegli anni, 
sugli ‘schermi opachi’ degli anni Ottanta
4
, mi è sembrato di ritrovarvi le prime 
impressioni avute durante la visione dei film scelti. E’ stato con la lettura di queste 
riflessioni che ha avuto inizio la ricerca.  
Alle varie considerazioni sulla crisi del cinema italiano si sommano, infatti, 
tanto nell’analisi di Miccichè quanto in quelle di altri critici cinematografici o di 
alcuni ‘addetti ai lavori’, le riflessioni sulla situazione generale dei media nel nostro 
paese e sulla situazione politico-storica che attanaglia l’Italia in quegli anni. In 
generale, si sottolinea il fatto che alla ‘vecchia’ generazione di cineasti - una 
generazione che, nata negli anni Sessanta, aveva saputo ‘leggere’ i grandi 
cambiamenti in atto nel Paese e fargli dono di un cinema politico e innanzitutto 
civile - vengono a mancare, col volgere del nuovo decennio, le ‘nuove leve’ su cui 
fare affidamento per la trasmissione di un medesimo impegno: “mancava proprio 
una nuova generazione capace di raccogliere il testimone in piena tempesta, mentre gli 
incassi subivano salassi annuali, le condizioni produttive apparivano sempre più 
aspre e il mercato sempre meno ricettivo. Contemporaneamente, l’orizzonte delirante 
degli ‘anni di piombo’ (…) contribuì a incupire il clima: l’ispirazione al ‘reale’ – che era stata il 
cavallo di battaglia del nostro cinema postneorealistico (…) divenne vieppiù 
impraticabile, spingendo intere generazioni di cineasti esordienti, e senza padri, al 
singhiozzo, al lamento, al pianto, al compiacimento e al rimpianto: in una sorta di 
generalizzata fuga verso il ripiegamento autoriflessivo, il rifiuto della complessità, la rinuncia 
all’oggettività, l’esorcismo sistematico della cronaca e della storia, la cui (ridotta) visibilità e 
(infinitamente maggiore) complessità non offrivano più le antiche trasparenze 
problematiche”
5
. 
Miccichè, come si legge, cerca di spiegare la crisi storica del cinema italiano 
tirando in ballo proprio uno di quelli che fin dalla prima visione mi è sembrato 
essere un filo rosso che unisce i quattro film scelti: il tema della visibilità ridotta sulla 
complessità del presente (della cronaca) e della Storia, essendo proprio il terrorismo 
ed il suo impatto mediatico  una delle cause della crisi in analisi. 
                                                           
4
 Così si intitola infatti un volume curato da Miccichè sul cinema di quel decennio, libro di 
fondamentale importanza per comprendere e chiarire il quadro cinematografico generale di 
riferimento. 
5
 Ibi: 8, corsivo mio. 
 9
Anche andando a leggere le parole di alcuni degli ‘addetti ai lavori’  del 
cinema italiano di quegli anni, possiamo ritrovare degli spunti interessantissimi per 
introdurre questo lavoro. Sono spesso dichiarazioni scritte oggi, con uno sguardo 
retrospettivo sul periodo preso in esame, e che non possono non aiutare ad 
assumere una prospettiva storica, ben introducendo così, a mio avviso, questo 
lavoro, che aspira proprio a recuperare, partendo da questo nostro presente, il valore 
di una memoria nascosta nelle immagini di allora.  
Vincenzo Cerami ad esempio, co-sceneggiatore tra l’altro proprio di Colpire al 
cuore e di Segreti segreti, nel suo intervento scritto apposta per il volume curato da 
Miccichè, scrive: “gli anni Ottanta (…) sono stati gli anni più racchi del secolo perché hanno 
cancellato la speranza, da sempre motore creativo degli artisti (…). Gli ultimi sussulti 
del terrorismo, il dilagare della droga tra i disperati, i baci dei politici sulla bocca dei 
mafiosi, i suicidi eccellenti in carcere, l’invasione degli immigrati, l’estetica dei grandi 
numeri erano i monti, i fiumi  e le pianure di un panorama italiano che ancora oggi 
(…) fatica a sbiadire. L’Italia era infotografabile, anche perché all’orizzonte non si vedeva più 
niente”
6
. Torna qui il tema dell’infotografabilità della realtà sociale del paese, 
dell’incomprensione e della visibilità velata, offuscata, accanto a quello della 
cancellazione della speranza; vedremo il loro valore nel confronto specifico con i 
film e con la ricerca storica. Per il momento basti continuare ad evocarne i fantasmi. 
Leggendo ancora, si possono ritrovare ancora accenni al problema della 
memoria di quegli anni che ci è arrivata, e di come questa memoria sia, ancora oggi, 
un nodo problematico: “gli anni di piombo sono ormai lontani e tuttavia perdura il ricordo del 
senso di impotenza, sgomento e colpa che ingenerarono nella coscienza di chi si sentiva parte, sia pur 
idealmente, del grande popolo della sinistra. Era un bagno di sangue che volevano 
provocare i famosi slogan studenteschi contro la borghesia? Certamente no, il 
brigatismo non poteva essere considerato che una scheggia impazzita (…); intanto 
però ci si interrogava affannosamente sul rapporto fra parole e fatti, fra pensiero 
espresso e pensiero recondito; e si faceva l’esame di coscienza, ci si leccava le ferite, si  rifluiva  
nel privato, mentre lo spazio pubblico veniva occupato da una nuova schiera di giovani con tutto un 
altro sistema di valori e risoluti a far carriera. E’ indubbio che il lacerante ripensamento all’interno 
della sinistra, in un cinema schierato in massima parte a sinistra come il nostro, non poteva non 
 10
creare un contraccolpo sul piano artistico. Si sa che i lutti sono duri da elaborare e non c’è da 
stupirsi che con poche eccezioni lo choc sia stato rimosso traducendosi in rassegnazione, nostalgia per 
la rivoluzione mancata, disillusione”
7
. 
Proprio il rapporto necessario con la propria memoria e con una memoria 
collettiva, condivisa, risulta centrale in queste parole di una critica cinematografica 
che, guardandosi indietro, cerca di cogliere un punto di non ritorno nella storia 
appena trascorsa, e di cui per l’appunto non sembra ancora essere stato elaborato il 
lutto, neppure nella ‘coscienza artistica’.  
Insomma, se è stata una ragione privata ad aver mosso questa ricerca, è stato 
proprio iniziando a cercare materiale e a documentarmi che è nato il sospetto che 
questa condizione personale fosse piuttosto il segno dei tempi, il segno di un presente che 
sembra non conoscere le radici nelle quali affonda. 
Un’ultima citazione ci permette di chiudere questa introduzione, facendo 
anche in modo che molti degli aspetti ai quali abbiamo accennato trovino per il 
momento il modo di annodarsi da soli nelle parole di altri. “la crisi di comunicazione 
avvenuta a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta nasce dalla nostra incapacità di capire davvero 
come stavano le cose in questo paese, cioè dalla incapacità di comprendere che l’interlocutore cui il 
cinema si rivolgeva era profondamente cambiato, che la crisi riguardava ormai tanto la società civile 
quanto la sua classe dirigente. Uno scollamento profondo era avvenuto tra valori e 
comportamenti, tra linguaggio e azioni, l’avvento del fascismo-consumismo paventato da 
Pasolini s’era realmente avverato, provocando un vero e proprio ‘genocidio delle coscienze’. (…) 
Totale: negli anni Ottanta, all’interno della nostra comunità si consuma un trauma collettivo 
grave, non ricomposto, e fino a oggi completamente rimosso. E il nostro cinema, tranne rari casi, 
non intuisce nulla di tutto questo, non se ne accorge, non ci riflette. Si adegua al trauma, rivelandosi 
poco cosciente del ruolo che avrebbe potuto e dovuto avere”
8
.  
                                                                                                                                                                          
6
 Cerami 1998: 358, corsivo mio. 
7
 Levantesi 1998: 90-91, corsivo mio.  
8
 Petraglia-Rulli 1998: 379-380, corsivo mio. “Uno dei problemi del nostro cinema degli anni 
Ottanta era questo: i grandi miti su cui era costruito l’immaginario collettivo dal dopoguerra in poi 
non erano più utilizzabili. E il guaio era che non se ne vedevano di nuovi all’orizzonte. Pare niente, 
ma invece è molto. Il mito è la sorgente simbolica che mette in contatto ragione e passione. 
L’assenza di nuovi miti significa che, rispetto al passato, è avvenuto un corto circuito”. Ibidem., 
corsivo mio. 
 11
 
0.2. Due parole sulla struttura di questo lavoro 
 
Credo che quanto scritto finora basti ad introdurre questa ricerca, le cui 
aspirazioni sono soltanto quelle di cercare di dare un senso ai risultati empirici 
emersi dal lavoro svolto sui film presi in esame. Sarà dal confronto fra i momenti 
forti di queste immagini e la ricerca storica che prenderà corpo il cuore centrale di 
questa tesi. 
Nella prima parte di questo lavoro propongo quindi un’analisi di questi 
quattro film, un’analisi che, partendo da una conoscenza storica precedente alla 
visione, cerchi di recuperarne il valore (non solo storico) a distanza di più o meno 
venti anni dalla loro uscita. Nella seconda parte della tesi, invece, ho cercato di 
vedere come lo sguardo che i film ci propongono sul periodo ed il fenomeno presi 
in esame possa contribuire a confrontarsi con la ricerca storica tradizionale da una 
prospettiva diversa. Come, cioè, si possa cercare di integrare le ipotesi storiografiche 
nate dalla visione e dalla riflessione sui film, con i risultati offerti dalla prospettiva 
storiografica tradizionale. Successivamente, quindi, ho cercato di delineare proprio il 
metodo sotteso all’impostazione generale di questo lavoro, provando a tratteggiare 
in maniera esplicita le linee guida che ho seguito nel corso della tesi; per mettere in 
risalto quali siano stati i punti fermi da cui sono partito per le singole analisi, e come 
da queste analisi abbia poi cercato di ricostruire delle ipotesi storiografiche da 
confrontare e verificare proprio tornando a rileggere le ricerche storiche tradizionali.  
Credo che la scelta del corpus da prendere in considerazione abbia retto 
all’analisi e al confronto con la ricerca storica tradizionale. Ed a lavoro terminato 
forse si potrebbe ripartire dall’inizio e riaprire la ricerca compiendo una scelta 
diversa, per vedere se anche altri film permettano di portare avanti un discorso 
unitario e fecondo. Altri sguardi, insomma, restano da essere interrogati. Altra 
memoria forse si nasconde dietro le loro immagini, in attesa di essere spolverata. 
Due titoli, fra tutti, mi vengono in mente: Maledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana 
e La festa perduta di Pier Luigi Murgia. Sono due visioni che mi sono rimaste in testa, 
e che forse aspettano di essere rilette alla luce del nostro presente.  
  
 
 
 
 
 
 
PRIMA PARTE 
 
VISIONI 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO PRIMO 
La tragedia di un uomo ridicolo 
 
 
 
 
Tra sogno e realtà: 
una misteriosa mutazione 
verso qualcosa di altro. 
 
 
 17
 
 
“In conclusione, tutti nel mondo sognano di essere quel che sono,  
anche se nessuno se ne rende conto (…)  
Che è la vita? Una frenesia. Che è la vita?  
Un’illusione, un’ombra, una finzione.  
E il più grande dei beni è poca cosa,  
perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni.” 
 
(Pedro Calderón de la Barca, La vita è sogno) 
 
 
 
 
 
 
1.0 Introduzione 
 
 Al momento della sua presentazione al festival di Cannes del 1981, La tragedia 
di un uomo ridicolo lasciò alquanto disorientati i suoi primi spettatori, apparendo come 
un film molto lontano da quello che il pubblico era abituato ad aspettarsi da un 
autore quale Bernardo Bertolucci, e soprattutto perché a molti sembrò un film 
eccessivamente oscuro. Anche dopo che il regista ebbe aggiunto al film un 
commento off, le reazioni del pubblico e della critica non cambiarono di molto, ed in 
molti restò l’impressione che fosse soltanto “un’opera minore di un regista ricco di 
talento”
1
. 
 E’ indubbio che, ad una prima visione, il film appaia oscuro e misterioso: 
niente è rivelato della trama, dei perché che hanno mosso la storia e i personaggi alle 
loro azioni; tutto rimane avvolto da una nebbia che offusca prima di tutto lo 
sguardo di Primo, il personaggio di Tognazzi, attraverso il quale ci è dato penetrare 
nella narrazione. Riusciamo a vedere soltanto quello che vede lui, a conoscere solo i 
suoi pensieri, le sue riflessioni. Ed in quello strano stordimento dei sensi che 
condiziona l’agire di Primo, in quella pesantezza che segue il troppo mangiare e il 
troppo vino, siamo trascinati anche noi, voyeurs che vedono con gli occhi (e il 
binocolo) di un voyeur. E se Primo alla fine si rassegna a non capire la realtà 
contorta e sfocata che lo circonda, lasciando a noi il compito di farlo, sta a noi 
decidere se accettare quell’oscurità e rimanervi invischiati oppure provare a vedere 
cosa vi si nasconda dietro. 
 18
 Fermandoci a riflettere su ciò che ci è stato dato a vedere, sulla forma assunta 
dallo sguardo che, con strana vertigine, abbiamo ricalcato, e soprattutto 
interrogandoci su questa nostra visione partendo da una prospettiva storica, 
potremo cercare di penetrarne il mistero, seguendo i numerosi e nascosti fili che vi 
si intrecciano.  
 Per iniziare l’analisi, è bene notare come La tragedia di un uomo ridicolo vide la 
luce in un momento particolare del cinema italiano, un momento in cui si intuiva 
che qualcosa stava cambiando proprio nell’impegno civile e politico che fino ad 
allora aveva accompagnato lo sguardo di molti registi sulla realtà italiana. Ma, come 
vedremo, questo film, rendendo visibile proprio il disorientamento dello sguardo 
che sembrò abitare molti registi, ci parla del suo tempo in maniera molto ricca e 
feconda. 
 Leggendo un’interessante dichiarazione di allora, rilasciata da un uomo di 
cinema come Adriano Aprà, iniziamo a capire parte del senso racchiuso nella 
misteriosa forma di questo film, così oscuro ad una prima visione: “che cosa si 
riflette di tutto questo nel cinema-cinema che si fa oggi? Prendiamo alcuni esempi 
‘alti’. Nei loro ultimi film Bertolucci, Antonioni e Ferreri hanno il coraggio di 
abbandonare per un momento il privilegio internazionale che il loro statuto di autori 
gli consente, per ripiegarsi sui mali del loro disgraziato Paese. La tragedia di un uomo 
ridicolo, Identificazione di una donna e Storia di Piera danno forma a un disagio, rendono 
stile l’esitazione, abbandonano ogni pretesa assertiva, ogni estetica dell’effetto speciale, per 
concentrarsi sulla comunicazione diventata difficile, a volte impossibile: tra padre e figlio, tra 
amanti, tra donna e donna. Al loro esterno, una giungla di segni, spesso emozionanti, 
quasi sempre indecifrabili. Il ripiegamento interiore appare come disperata salvezza, 
e ogni soluzione è rimandata”
2
. 
 Sarà la preoccupazione di vedere come sia stato possibile ‘rendere stile 
l’esitazione’ che ci dovrà accompagnare durante questa analisi, per scoprire cosa 
questo abbia voluto, e voglia tuttora, dire. Ed interrogando questo sguardo cifrato, e  
al tempo stesso interrogandosi sul nostro sguardo e sul nostro ancora attuale 
disorientamento davanti a questo film, forse potremo riuscire a penetrare in un altro 
                                                                                                                                                                          
1
 Come titolò Miccichè la sua critica su «l’Avanti». 
2
 Adriano Aprà in Faldini-Fofi 1984: 720. 
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mondo, raschiando quella superficie opaca depositata dal tempo, ed arrivando a 
ritrovare una memoria che, nel corso degli anni, vi si era nascosta sotto. Perché  “La 
tragedia di un uomo ridicolo (è il film) con cui Bertolucci si è congedato 
temporaneamente dall’Italia. Un film criptico e inquietante che l’autore ha 
ambientato nella sua Parma del ‘dopo rivoluzione (mancata)’: rivisto oggi, sembra un 
concentrato simbolico del nostro stallo psicologico, di un conflitto generazionale senza più contorni 
distinti, del nostro presentimento di una trasformazione misteriosa (di che? verso cosa?) che non 
eravamo (lo siamo?) in grado di capire”
3
. In questa breve riflessione, scritta a distanza di 
quasi vent’anni dall’uscita del film, c’è molto del senso nascosto di questa pellicola: il 
conflitto generazionale, lo stallo di fronte ad una realtà indistinta e sfumata, davanti 
ad una mutazione misteriosa. Ed ancor più interessante è per noi  la riflessione sulla 
propria posizione di critico, ed in primo luogo di spettatore, che, rivedendo il film a 
distanza di anni, vi ritrova  il presentimento angosciante di una condizione che 
ancora sembra possederlo. Dovremo allora cercare di approfondire quello che qui è 
però solo un’intuizione, una sensazione. 
 
1.1. Dichiarazioni di Bernardo Bertolucci 
 
Bertolucci ama molto parlare dei suoi film, tanto al momento della loro uscita 
quanto retrospettivamente, a distanza di tempo. E’ facile ritrovare le molte interviste 
rilasciate al momento dell’uscita di La tragedia di un uomo ridicolo, interviste che dettero 
modo al regista di descrivere a fondo la genesi del film, i retroscena, le scelte formali 
e quelle riguardanti la caratterizzazione dei personaggi. Tra le molte dichiarazioni, 
abbiamo cercato di ricostruire un discorso generale di Bertolucci attorno al suo film, 
ritenendole molto importanti non tanto per quanto ci possano rivelare o meno del 
film stesso, ma in quanto documento storico che si somma alla visione del film, che ci 
aiuta a capire l’atmosfera che lo ha visto nascere e prendere forma definitiva. 
Direttamente interrogato su cosa il pubblico avrebbe potuto trovare nel suo 
nuovo film, Bertolucci delinea a grandi linee molti dei temi che altrove riprenderà 
più approfonditamente: “«che cosa pensi debba trovare il pubblico in questo tuo 
ultimo film?» Una immagine reale del paese non ricalcata su modelli dei media. E credo che ci 
                                                           
3
 Levantesi 1998: 98. 
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possa essere una identificazione con la sua quotidianità, soprattutto se il pubblico arriverà a 
provare delle emozioni, cosa oggi molto rara, senza che ci sia il ricorso a particolari 
scioccanti, di sangue e di sesso femminile esibito (…)”
4
. E, più oltre, specifica: “mi 
sono detto: voglio fare un film sull’Italia (…) ma su un’Italia che non siamo abituati a leggere 
sui giornali, un’Italia minore, provinciale (…) (e) ho deviato il giallo sul malessere di questi 
anni”
5
.  
Subito Bertolucci denuncia le sue intenzioni: l’aver voluto fare un film sul 
momento storico vissuto dall’Italia in quegli anni, parlando dell’Italia da una 
prospettiva minore, per non cadere negli stereotipi con i quali i media raccontavano 
l’Italia di allora. “«Al contrario di ciò che solitamente succede nel cinema italiano, tu 
aggiri la trappola degli stereotipi, prendendo solo un frammento di questa realtà. Lo 
gonfi e racconti una storia particolare, in cui fai filtrare umori e disagi di una realtà 
più generalizzata (…)» Quella del film è un’Italia minore, di provincia, proprio 
perché volevo sfuggire agli schematismi che inevitabilmente ti schiacciano se parli 
della realtà delle grandi città. Finisci, in quel caso, per parlare di personaggi che sembrano 
uscire dai media, dalla tv, da Espresso e Panorama. Personaggi senza spessore, perché quella dei 
media è una realtà parallela che non corrisponde a nulla. Tognazzi invece è così 
sanguignamente padano da non lasciare dubbi. ‘Spia’ le cose dalla terrazza di casa 
sua, col binocolo (…) ma mostra una totale incomprensione per ciò che succede. La sua è 
volgarità poetica. Ecco io spero di essere stato coraggioso nell’ingigantire questa 
tragedia individuale, senza la pretesa di spiegare nulla. Parlando solo di ciò che conosco. 
L’incomprensione di Tognazzi nel film è anche la mia. Io in questo momento sto dalla parte 
dei vecchi”
6
. 
Ma cosa c’entra, e come c’entra, il terrorismo con questo mistero che rimane 
sospeso? Leggendo ancora, si vede come Bertolucci avesse le idee molto chiare a 
riguardo. 
“Mi è sempre stato difficile, anche nel ’68, dividere il mondo in giovani e 
adulti (…) La mia idea sui giovani la esprimo attraverso il film, è l’idea del personaggio 
che, in quel momento della storia si sente in colpa per suo figlio, per tutto il progetto che ha 
                                                           
4
 Santuari 1981, corsivo mio. 
5
 Ibidem, corsivo mio. 
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organizzato. Ma per dare un riferimento più preciso, dirò che questo testo viene quasi 
del tutto da un testo di Pier Paolo Pasolini. Negli ultimi anni della sua vita Pasolini 
aveva scritto degli articoli su ‘Il Corriere della Sera’ e trovo che ci fosse un certo rapporto 
tra quello che Pasolini aveva detto e quello che è successo dopo, voglio dire quattro o cinque anni 
dopo la sua morte. In più c’è qualcosa che ai tempi di Pasolini cominciava appena, il 
terrorismo. Se mi si domanda se ho fatto un film sul terrorismo, rispondo di no, perché la lettura, 
il testo del film non è sul terrorismo. D’altra parte mi è impossibile negare che se si fa un film 
sull’Italia nel momento attuale, il terrorismo è un elemento che fatalmente sarà nel film…Il 
comportamento a tutti i livelli, pubblico e privato, è stato influenzato dal terrorismo in Italia. I 
media, la televisione, i giornali, le riviste hanno preso un’attitudine che è in qualche modo 
influenzata dal terrorismo, basta guardare la grafica dei giornali. Non volevo fare un film sul 
terrorismo, ma un film su una storia privata. Ma un film è uno work in progress, allora bisogna 
accettare quello che la realtà ti dà. Nei rapporti privati vedo, soprattutto tra i giovani e le 
generazioni adulte, una sorta di sospetto che non c’era quando avevo vent’anni. Questo film è 
pieno di sguardi tra tutti i personaggi e, se avete notato, si guardano tutto il tempo, 
perché sono tutto il tempo presi da un’ondata di sincerità e il contrario di tutto questo, il sospetto. 
(…) Posso dire una cosa (…) se guardo verso Tognazzi ho l’impressione di vedere 
una generazione e una cultura che capisco. Se guardo verso Laura Morante e Victor 
Cavallo la cosa che mi ha subito affascinato e anche un po’ terrificato in loro è il 
mistero. Ho cercato di rappresentare questo mistero”
7
.  
Oppure, ancora: “io non ho voluto fare un film sul terrorismo, bensì un film 
sull’Italia. Ma, chiunque faccia oggi un film sull’Italia finisce per fare un film sul terrorismo. Ciò 
perché il terrorismo è uno degli elementi fondamentali del processo di mutazione in atto nel nostro 
paese. Ciò perché il tessuto sociale odierno è così perverso che non si capisce dove siano le vittime e 
dove siano i carnefici, chi sia colpevole e chi no. Questo tessuto traspare, almeno spero, nel film, dove 
si incrociano molti fili, in maniera inestricabile. Anche i colori entrano l’uno nell’altro e diventano 
indecifrabili”
8
. 
                                                                                                                                                                          
6
 Duiz 1981. Si veda, in parallelo, la costruzione artificiale dei personaggi dei tre fratelli nel film 
di Rosi. Bertolucci altrove dice di aver ricercato, in questo film, un parlato cinematografico 
‘basso’. 
7
 Bertolucci 1981: 346, corsivo mio. “Je voulais surtout qu’ils représentent le mystère de la 
jeunesse d’aujourd’hui. Je ne pense pas que toutes les jeunesses soient mystérieuses. La 
jeunesse de ma géneratione par example ne l’était pas”. Ciment 1981: 25. 
8
 Costantini 1981, corsivo mio. E poi oltre: “io credo che dare oggi delle risposte sul terrorismo 
in Italia, proporre delle conclusioni, sia da irresponsabili. Al massimo ci possiamo porre delle 
domande, ed anche con molto sforzo” Costantini 1981.