Introduzione 
 
INTRODUZIONE. 
 
La profonda insoddisfazione per l’incapacità dimostrata dalle teorie tradizionali nel 
fornire spiegazioni e rimedi concreti alla piaga della disoccupazione di massa seguita 
alla crisi economica del 1929 portò Keynes ad elaborare la sua rivoluzionaria teoria. 
Osservando la lunga depressione dell’attività economica, Keynes negò la validità 
della “legge degli sbocchi” di J. B. Say, secondo la quale ogni offerta creerebbe 
sempre la propria domanda, e mise in discussione la naturale tendenza del sistema 
concorrenziale alla piena occupazione dei fattori produttivi attraverso la perfetta 
flessibilità di salari e prezzi. 
Prima di Keynes non erano certi mancati tentativi di contestazione della teoria 
classica (si pensi, ad esempio, ai contributi di T. R, Malthus, di S. Sismondi, di J. 
Mobson e, naturalmente, di K. Marx), ma solo la critica keynesiana si rivelò più 
penetrante e pertinente. Secondo Keynes la causa della disoccupazione esistente nelle 
economie moderne è essenzialmente da cercare nel diverso andamento della domanda e 
dell’offerta: infatti, la domanda (rivolta ai beni di consumo ed ai beni di investimento) 
aumenta all’aumentare del prodotto offerto, ma non necessariamente nella stessa 
misura. 
La combinazione di concetti quali ‘consumo’ e ‘propensione marginale al consumo’, 
‘investimento’ e ‘efficienza marginale dell’investimento’, ‘efficienza marginale del 
capitale’, ‘moltiplicatore’, ‘tasso di interesse e preferenza per la liquidità’, introdotti 
per la prima volta da Keynes nella sua “General Theory of Employment, Interest and 
Money” del 1936, porta a sottolineare la dissociazione delle decisioni di risparmio dalle 
decisioni di investimento. Ciò significa che la funzione di offerta aggregata ha un andamento 
diverso da quello della funzione di domanda aggregata e che il punto di equilibrio di queste 
due funzioni (il cosiddetto “punto della domanda effettiva”) può individuare un livello 
di reddito non necessariamente coincidente con la piena occupazione dei fattori produttivi, 
che diventa così un obiettivo deliberato di politica economica. 
Introduzione 
 
Spetta allora alle autorità statali, sostiene Keynes, intervenire in periodi di 
depressione con una politica fiscale che incrementi gli investimenti pubblici e 
favorisca quelli privati.  
Scopo di questa tesi è quindi quello di riassumere nel primo capitolo i tratti salienti 
del contributo di Keynes, prima di procedere all’esame delle sue estensioni ed 
interpretazioni, oggetto del secondo capitolo. Particolare attenzione è stata prestata 
agli aspetti occupazionali, proponendo una panoramica degli scritti keynesiani per lo 
più contenuti nella sua “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta” del 
1936. 
Obiettivo del secondo capitolo invece è quello di inquadrare nel dibattito economico 
moderno il contributo keynesiano, descritto nei precedenti paragrafi del primo 
capitolo, analizzandone alcune delle sue più interessanti estensioni ed 
interpretazioni. 
Nonostante sia stato criticato per la scarsa attenzione riservata ai meccanismi 
riequilibratori del mercato e per le possibili insorgenze inflazionistiche associate al 
perseguimento dell’obiettivo del pieno impiego, il contributo keynesiano ha in ogni 
caso consentito il coordinamento di molte linee di pensiero rimaste slegate prima 
della Teoria Generale, aprendo anche la via all’approfondimento dello studio dei cicli 
economici e delle grandezze macroeconomiche.  
In questo filone di pensiero rientra il contributo dell’economista polacco Michal 
Kalecki, tra i primi a mettere in luce: il tema della disoccupazione involontaria 
nell’economia capitalistica, discutendo dei diversi provvedimenti di politica 
economica per farvi fronte e della loro idoneità ad avviare il sistema economico verso 
una situazione di piena occupazione (paragrafo 2.2.1); il tema della possibilità di 
aumentare l’occupazione mediante l’imposizione fiscale (paragrafo 2.2.2); i modi per 
poter aumentare l’occupazione e per mantenere la piena occupazione, nel caso in cui 
questa sia stata raggiunta (spesa pubblica in deficit, redistribuzione del reddito, 
stimoli agli investimenti privati - paragrafo 2.2.3); la portata politica degli interventi 
di controllo del livello di attività aggregata (paragrafo 2.2.4). 
Non pochi problemi ha poi sollevato l’interpretazione della Teoria Generale. 
Introduzione 
 
Secondo l’interpretazione del pensiero keynesiano oggi dominante, espressa nella 
sintesi neoclassica
1
 la Teoria Generale proporrebbe un modello d’equilibrio, che non si 
discosta molto da quello di marshalliana memoria, ed avrebbe essenzialmente ad 
oggetto la politica economica governativa. Ma Keynes rifiutò esplicitamente tale 
interpretazione del proprio pensiero; famosa al riguardo è la sua replica alla 
recensione di Viner della Teoria Generale. 
Minsky (1981), in linea con le idee espresse dall’economista inglese, propose perciò 
una chiave di lettura della Teoria Generale alternativa a quella della sintesi neoclassica 
a tutt’oggi assolutamente rivoluzionaria. In opposizione al paradigma dell’economia 
classica e della sintesi neoclassica, basato su un ideale sistema di baratto, Minsky 
propone un’interpretazione del pensiero keynesiano fondata su un paradigma 
finanziario-speculativo, da cui deriva una teoria degli investimenti e dell’andamento 
dell’economia in cui spiccano le determinanti finanziarie e speculative. Secondo 
Minsky propone più precisamente: 
1. da un lato una teoria basata sugli investimenti idonea a spiegare le fluttuazioni 
della domanda reale, 
2. e dall’altro una teoria basata sui rapporti finanziari per spiegare le fluttuazioni 
degli investimenti reali. 
Da qui Minsky procede lungo tre diverse prospettive ritenute fondamentali per 
interpretare e capire Keynes, ossia la ciclicità dell’andamento economico (paragrafo 
2.3.1), l’incertezza (paragrafo 2.3.2) e la natura degli investimenti (paragrafo 2.3.3), 
per poi trarne alcune interessanti implicazioni (paragrafo 2.4). 
Non meno interessante, infine, è la rivisitazione della teoria keynesiana operata 
dall’economista Joan Robinson (paragrafi 2.5 e seguenti) nella sua “Teoria 
dell’occupazione” del 1962, in cui i principali elementi della Teoria Generale 
(investimento, risparmio, tasso di risparmio, bilancia dei pagamenti, ciclo economico) 
sono stati esaminati come “pezzi di un gioco di mosaico” per poi essere combinati in 
                                                           
1
 La sintesi neoclassica aggiunge all’apparato keynesiano l’effetto “saldi monetari reali”, così da 
assicurare che l’equilibrio simultaneo sul mercato delle merci e su quello monetario sia coerente con 
l’equilibrio sul mercato nel lavoro. 
Introduzione 
 
un quadro delle fluttuazioni dell’occupazione a cui sono soggetti i sistemi d’impresa 
privati. 
Infine il terzo capitolo della presente tesi affronta il tema dell’attualità del contributo 
keynesiano. In un periodo di diffusa riaffermazione del “principio della libertà 
naturale”, l’eminente economista italiano Caffè (1984, pag. 18 e pag. 373), ricordando 
che il “ … mercato è una creazione umana … ” e che, pertanto, “ … l’intervento 
pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e 
vessatorio … ”, rilevava che  
“ … tra gli orientamenti di politica economica che ripongono una rinnovata 
fiducia nelle forze di mercato e gli indirizzi caratterizzati dalla deliberata 
accettazione dello Stato come ‘occupatore di ultima istanza’ esiste un divario che 
riflette la crisi profonda che si manifesta, sia sul piano concettuale sia su quello 
pratico, circa i compiti e i limiti dell’intervento pubblico nel mondo 
contemporaneo … ”. 
La definizione dei contenuti e dei confini dell’azione pubblica in economia richiede 
pertanto, dal punto di vista logico, la predisposizione di schemi analitici che ne 
dimostrino la convenienza. 
Se si osserva l’evoluzione del pensiero economico moderno (almeno a partire dagli 
economisti classici che lo hanno elevato al livello di sistema organico), emerge quale 
elemento essenziale e ricorrente l’idea di un “meccanismo automatico” che porta, 
attraverso il libero agire delle forze di mercato, ad una situazione di equilibrio con le 
risorse disponibili pienamente utilizzate. Da ciò deriva, come “regola generale per 
amministrare l’attività economica” (Schumpeter, 1960, pag. 664), il laissez-faire.  
Di fatto, nel novero degli economisti classici e neoclassici non mancano autori che, di 
fronte all’evidenza dei “fallimenti del mercato”, si sono espressi a favore di politiche 
pubbliche mirate ad assicurare alla collettività il massimo vantaggio possibile 
integrando al loro interno meccanismi di mercato (Caffè, 1966, capitoli 2, 3 e 4.); si 
tratta comunque di interventi dotati di una solida base analitica microeconomica ed 
Introduzione 
 
assolutamente eccezionali (Robinson, 1972, pag. 7)
2
.  
Se i “fallimenti del mercato” avevano già messo in crisi l’identificazione dell’interesse 
individuale con l’interesse collettivo, originariamente espressa nel contributo 
smithiano dalla “mano invisibile”, è solo con Keynes che si arriva ad una critica 
radicale, basata su un apparato analitico macroeconomico, tesa a dimostrare che  
“ … un’economia di mercato, lasciata a se stessa, non tende 
necessariamente a raggiungere un equilibrio in cui vi sia piena 
utilizzazione della capacità produttiva esistente e piena occupazione della 
popolazione lavorativa. Il mercato produce sì un equilibrio tra domanda e 
offerta, ma un ‘equilibrio di sottoccupazione’, cioè un equilibrio non 
efficiente … ” (Pasinetti, 1994., pagg. 2-3.). 
Keynes propose un’elegante soluzione al dilemma: un capitalismo accompagnato da una 
regolamentazione pubblica appropriata della domanda avrebbe permesso di conciliare piena 
occupazione e piena libertà. Il pieno utilizzo delle potenzialità produttive del sistema 
economico viene pertanto ad essere affidato ad un intervento strategico e sistematico 
dell’autorità pubblica, all’interno del quale l’occupazione assume il carattere di 
obiettivo da perseguire e non di risultato conseguente all’operare senza interferenze 
di libere forze di mercato
3
. Pieno impiego, stabilità monetaria, equilibrio esterno, 
concorrenza, trasparenza e funzionalità dei mercati (cioè crescita dell’efficienza) sono 
diventati dunque obiettivi dello Stato e/o delle sue agenzie autonome (Banca 
Centrale, Agenzia Antitrust); in altre parole lo Stato ha trovato nella funzione di 
politica economica la sua ragion d’essere.  
Ed è proprio attorno al “rivoluzionario” approccio keynesiano (che comunque si è 
sempre cercato di conciliare con il pensiero economico preesistente) e alla sua 
applicabilità ai moderni problemi economici che verte il presente capitolo.  
                                                           
2
 Robinson nel suo saggio “The Second Crisis of Economic Theory” (American Economic Review, maggio 
1972, pag. 7) ricorda: “ … la distinzione che Pigou faceva tra costi privati e costi sociali veniva 
prospettata come eccezione alla regola benevola del laissez-faire … ”. 
3
 Anche se storicamente l’estendersi dell’intervento pubblico non ha avuto, in dottrina, origine 
univoca, come dimostrano nel periodo della grande crisi alcune “anticipazioni” di esponenti della 
scuola di Stoccolma e della stessa scuola di Chicago, è dalla analisi keynesiana che “emerge, nei riflessi 
per la politica economica, la riconosciuta esigenza di una guida al sistema economico. Si veda in 
merito Caffè (1981), pag. 139. 
Introduzione 
 
In particolare, riesaminando nel terzo capitolo alcuni aspetti dell’apparato analitico 
keynesiano, vengono affrontati ed approfonditi argomenti quali il contrasto con la 
teoria classica del tasso di interesse, l’influenza pervasiva e determinante 
dell’incertezza
4
 e la sostanziale diversità di un approccio dinamico rispetto alle 
precedenti formalizzazioni di carattere statico. In particolare, sono stati esaminati il 
contenuto del saggio di Keynes “The General Theory of Employment, Interest and 
Money
”
 (1936), le precisazioni dello stesso ai rilievi mossi a questo contributo e 
richiami al dibattito che ne è seguito. L’interesse per queste tematiche si deve alla 
crescente consapevolezza che, fin dai primi anni del XX secolo, l’economia si è fatta 
sempre più monetaria, sia per l’accresciuto peso delle aspettative che per la 
speculazione in mercati mai perfetti per carenze macro e microeconomiche.  
Verranno quindi esaminati: 
1. il tema della centralità dell’investimento nell’apparato analitico keynesiano quale 
causa causans del livello di produzione e occupazione (Keynes, 1937a, pag. 121); 
2. la rilevanza dell’analisi keynesiana nell’interpretare alcuni problemi 
dell’economia contemporanea, con particolare riferimento: (a) al sistema di 
regolazione dei pagamenti internazionali, alla struttura dei mercati finanziari, alla 
variabilità e all’elevato livello dei tassi di interesse. Tale approfondimento è reso 
necessario dai numerosi dubbi emersi nello scorcio di fine secolo sull’efficacia 
delle politiche economiche, dell’azione dei governi e dei sindacati nazionali, 
alimentati dall’affermarsi di un mercato unico mondiale della finanza ove le 
istituzioni sopranazionali e la coordinazione internazionale delle politiche 
economiche non è cresciuta di pari passo. (b) al Patto di Stabilità. 
                                                           
4
 Introducendo la nozione di incertezza, Keynes ha “ … indebolito seriamente il nesso tra decisione 
economica e calcolo razionale. Era questo un punto essenziale della sua tesi secondo cui il laissez-faire 
mancava di un meccanismo di autoregolazione … ”. Si veda in merito Skidelsky (1996), pag. 660. 
  
 
 
 
 
CAPITOLO I 
 
“La Teoria Generale Keynesiana” 
 
CAPITOLO I - La Teoria Generale keynesiana 
 
SOMMARIO: 1.1 Introduzione. 1.2 La Teoria di Keynes. 1.2.1 Riesposizione della Teoria Generale 
dell’occupazione. 1.2.2 “Variazioni dei salari monetari”. 1.2.3 “Note conclusive sulla filosofia alla 
quale la Teoria Generale potrebbe condurre. 1.2.4 Conseguenze sociali del mutamento di valore 
della moneta. 
 
1.1 INTRODUZIONE. 
 
La profonda insoddisfazione per l’incapacità dimostrata dalle teorie tradizionali nel 
fornire spiegazioni e rimedi concreti alla piaga della disoccupazione di massa seguita 
alla crisi economica del 1929 portò Keynes ad elaborare la sua rivoluzionaria teoria. 
Osservando la lunga depressione dell’attività economica, Keynes negò la validità della 
“legge degli sbocchi” di J. B. Say, secondo la quale ogni offerta creerebbe sempre al 
propria domanda, e mise in discussione la naturale tendenza del sistema concorrenziale 
alla piena occupazione dei fattori produttivi attraverso la perfetta flessibilità di salari e 
prezzi. 
Prima di Keynes non erano certi mancati tentativi di contestazione della teoria classica 
(si pensi, ad esempio, ai contributi di T. R, Malthus, di S. Sismondi, di J. Mobson e, 
naturalmente, di K. Marx), ma solo la critica keynesiana si rivelò più penetrante e 
pertinente. 
Secondo Keynes la causa della disoccupazione esistente nelle economie moderne è 
essenzialmente da cercare nel diverso andamento della domanda e dell’offerta: infatti, la 
domanda (rivolta ai beni di consumo ed ai beni di investimento) aumenta all’aumentare 
del prodotto offerto, ma non necessariamente nella stessa misura. 
Le famiglie che ricevono reddito lo destinano in parte alla spesa per consumi, secondo 
una frazione determinata dalla propensione marginale al consumo (a sua volta basata sulla 
fondamentale legge psicologica, secondo la quale la quota di reddito consumata cresce 
in modo meno che proporzionale rispetto al crescere del reddito stesso); la differenza tra 
reddito e consumo rappresenta invece il risparmio, ma quest’ultimo, contrariamente 
CAPITOLO I - La Teoria Generale keynesiana 
 
all’opinione comune, non si traduce automaticamente in investimenti, regolati dal 
meccanismo del moltiplicatore.  
Gli investimenti, a loro volta, sono funzione del reddito ma anche di altre variabili. In 
particolare, la propensione all’investimento dipende dall’efficienza marginale del capitale, 
ossia dal saggio di rendimento atteso degli investimenti; se e solo se questo saggio 
supera il saggio di interesse, cioè il prezzo di acquisto del bene capitale, l’investimento è 
conveniente. 
Il tasso di interesse, a sua volta, è determinato dalla funzione di preferenza per la 
liquidità (decisa dal pubblico) e dalla quantità di moneta in circolazione (decisa dalle 
autorità monetarie). Keynes individua tre moventi nella preferenza per la liquidità: 
transativo, legato alla necessità di effettuare pagamenti correnti, precauzionale, legato alla 
necessità di far fronte a situazioni di emergenza imprevedibili e speculativo, legato alla 
volontà di detenere denaro in forma liquida in attesa che l’investimento finanziario 
consenta una maggiore remunerazione in base alle variazioni del tasso di interesse (un 
caso particolarissimo è costituito dalla cosiddetta “trappola della liquidità”). 
La combinazione di tali concetti, introdotti per la prima volta da Keynes nella “General 
Theory of Employment, Interest and Money” del 1936, porta a sottolineare la dissociazione 
delle decisioni di risparmio dalle decisioni di investimento. Ciò significa che la funzione di 
offerta aggregata ha un andamento diverso da quello della funzione di domanda aggregata e che 
il punto di equilibrio di queste due funzioni (il cosiddetto “punto della domanda effettiva”) 
può individuare un livello di reddito non necessariamente coincidente con la piena occupazione 
dei fattori produttivi, che diventa così un obiettivo deliberato di politica economica. 
Spetta allora alle autorità statali, sostiene Keynes, intervenire in periodi di depressione 
con una politica fiscale che incrementi gli investimenti pubblici e favorisca quelli privati.  
Scopo di questo capitolo è quindi quello di riassumere i tratti salienti del contributo di 
Keynes, prima di procedere all’esame delle sue estensioni ed interpretazioni, oggetto del 
capitolo successivo. Particolare attenzione è stata prestata agli aspetti occupazionali, 
CAPITOLO I - La Teoria Generale keynesiana 
 
proponendo una panoramica degli scritti keynesiani per lo più contenuti nella sua 
“Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta” del 1936
1
. 
 
 
1.2 LA TEORIA DI KEYNES. 
 
1.2.1 Riesposizione della Teoria Generale dell’occupazione
2
. 
 
Nel XVIII capitolo della “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta” (1936) 
Keynes, riepilogando quanto esposto nei capitoli precedenti, riformula la propria teoria 
in funzione di un obiettivo conoscitivo e pratico: scegliere, tra gli innumerevoli fattori che, 
con le loro variazioni, contribuiscono a determinare reddito e occupazione, quelli che esercitano 
‘un’influenza dominante’ e che possono essere deliberatamente controllati dall’autorità centrale al 
fine di raggiungere livelli di occupazione non consentiti dal libero gioco degli interessi 
individuali. 
Al tal fine, Keynes distingue all’interno della teoria dell’occupazione dati, variabili 
dipendenti e variabili indipendenti, soffermandosi sul rispettivo significato di tali 
termini: 
1. dato non significa, secondo Keynes, costante o grandezza indipendente da variazioni 
di altri grandezze, ma piuttosto grandezza le cui variazioni risultano così lente e così 
poco rilevanti rispetto al fenomeno considerato che si può considerare in prima 
battuta trascurabile.  
Keynes, dopo aver offerto diversi esempi nell’ambito della sua stessa teoria 
                                                 
1
 “Riesposizione della Teoria Generale dell’occupazione” (1936), “Variazioni dei salari monetari” (1936), 
“Note conclusive sulla filosofia alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre” (1936), “Conseguenze 
sociali del mutamento di valore della moneta” (1923). 
2
 “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta” (1936), capitolo XVIII in DE VECCHI N. (1991), 
”Contro la disoccupazione”, Milano 
CAPITOLO I - La Teoria Generale keynesiana 
 
dell’occupazione per mostrare come non sia legittimo affermare un’indipendenza 
degli elementi assunti come ‘dati’ rispetto a quelli assunti come ‘variabili’, osserva 
anche che il ricercatore distingue i ‘dati’ dalle ‘variabili’ semplicemente per mettere 
ordine nel suo pensiero, ma deve mantenere, nel corso della sua argomentazione, la 
consapevolezza della reciproca dipendenza di tutti gli elementi.  
Sotto questo aspetto lo studio dell’economia si presenta perciò complesso, nel senso 
che non è possibile assumere una volta per tutte l’indipendenza o l’invarianza di 
alcuni elementi del sistema.  
Nel corso dell’argomentazione può risultare ragionevole, al fine di trarre conclusioni 
corrette su un determinato fenomeno, eliminare l’ipotesi di indipendenza per alcuni 
elementi, mentre irragionevole, invece, sarebbe la pretesa di distinguere una volta per 
tutte gli elementi che determinano un dato fenomeno da quelli che non lo 
determinano: si raggiungerebbero, in tal caso, ‘generalizzazioni esatte in assoluto’, 
ma scorrette se riferite a situazioni concrete. 
2. variabile indipendente, invece, non è un elemento dell’apparato teorico che può 
produrre effetti su reddito e occupazione, in assoluta autonomia rispetto alle altre 
‘variabili indipendenti’ o ai ‘dati’, e neppure un elemento ultimo, non suscettibile cioè 
di ulteriori analisi, di cui il ricercatore non deve occuparsi assumendolo come tale.  
‘Indipendenti’ sono le variabili le cui variazioni esercitano un’influenza dominante 
sulle ‘variabili dipendenti’ e proprio per questo motivo diventano l’oggetto autentico 
della ricerca. Scegliendole come determinanti principali, prosegue Keynes, il 
ricercatore deve definirne la natura e mostrare come sia possibile esercitare su di esse 
un controllo in modo da raggiungere l’obiettivo pratico prefissato
3
. Le variabili 
indipendenti subiscono variazioni per reciproca influenza, cosicché l’effetto su 
reddito e occupazione di una variazione qualsiasi nel sistema economico va 
considerato tenendo conto anche di questo ulteriore fattore di complessità. 
                                                 
3
 Ad esempio, nella teoria keynesiana dell’occupazione sono ‘variabili indipendenti’: 
1. le variabili ‘psicologiche’, che definiscono le decisioni di consumo d’investimento e di impiego della 
moneta: propensione marginale al consumo, efficienza marginale del capitale, saggio di interesse; 
2. il saggio di salario monetario, oggetto del contratto di lavoro; 
3. la quantità di moneta determinata dall’azione della banca centrale. 
CAPITOLO I - La Teoria Generale keynesiana 
 
Ciò premesso, Keynes riespone la teoria dell’occupazione, evidenziando le relazioni tra 
‘variabili indipendenti’ e ‘variabili dipendenti’. In sintesi: 
1. la quantità di moneta offerta e domandata determinano il saggio di interesse, considerato da 
Keynes come il prezzo pagato per la rinuncia alla liquidità; 
2. a sua volta il saggio di interesse costituisce la soglia per l’efficienza marginale del capitale, 
cosicché l’ammontare degli investimenti dipende dalle aspettative sia sul reddito che 
sul saggio di interesse, oltre che dalla politica di emissione della banca centrale e dal 
livello del salario monetario deciso contrattualmente; 
3. infine, il ritmo degli investimenti determina il livello del reddito attraverso il moltiplicatore 
dell’investimento, ossia in funzione della propensione marginale al consumo. Tra 
reddito ed occupazione esiste poi una relazione diretta. 
Keynes aggiunge quindi alcune indicazioni sulle caratteristiche proprie delle variabili 
indipendenti traendole dall’esperienza, ossia dai comportamenti concretamente 
osservati a livello individuale e collettivo. 
La caratteristica fondamentale dei sistemi capitalistici è, a suo parere, la stabilità in una 
situazione lontana dalla piena occupazione, tale comunque da non compromettere la 
sopravvivenza della società stessa: in altri termini, le decisioni di consumo, di 
investimento e di impiego della moneta sono tali che il sistema economico è stabile, ma 
non in condizioni di piena occupazione.  
Questa situazione è ciò che Keynes definisce paradossalmente ‘povertà in abbondanza’: 
la società capitalistica potrebbe porsi l’obiettivo della piena occupazione, ma non lo fa, 
preferendo piuttosto subordinare l’occupazione dei membri più poveri alle decisioni che 
i membri più ricchi assumono quanto a consumo, investimento e impiego della moneta.  
Keynes si propone, invece, di mostrare che la piena occupazione è possibile anche mantenendo 
l’assetto sociale e l’organizzazione economica propri del capitalismo, purché l’autorità centrale 
persegua deliberatamente questo obiettivo ed influenzi le decisioni di consumo, di investimento e 
di impiego della moneta per raggiungerlo (le variabili indipendenti come oggetto di 
CAPITOLO I - La Teoria Generale keynesiana 
 
‘controllo e di manovra’). In altri termini, una volta individuata nella situazione di 
stabilità con disoccupazione involontaria la caratteristica fondamentale dell’economia 
capitalistica, Keynes cerca le condizioni della permanenza dei sistemi concreti in tale 
situazione.  
A tal fine l’economista introduce alcune considerazioni riguardanti comportamenti 
individuali e collettivi, che assicurano rispettivamente la stabilità dei consumi e degli 
investimenti (e perciò del reddito), la stabilità dei salari monetari (perciò dei prezzi) e la 
presenza di fasi cicliche intorno ad una situazione stabile, non suscettibile di modificarsi 
durevolmente. 
Più precisamente, afferma Keynes, i comportamenti degli operatori economici non esprimono 
‘tendenze naturali’, ossia leggi di necessità ineludibili, ma sono soltanto ‘fatti di osservazione’, 
che riguardano cioè il mondo quale è oggi e quale è stato finora e dunque modificabili. 
Continuando a permanere immutati, essi condannano il sistema nella descritta condizione di 
‘povertà in abbondanza’, almeno fino a che non siano assunte dalle autorità di governo misure 
espressamente intese a correggerli. E’ possibile, insomma, modificare aspettative, 
motivazioni all’azione e opinioni, siano esse individuali o collettive, per raggiungere lo 
stato di piena occupazione. 
 
1.2.2 “Variazioni dei salari monetari”
4
. 
 
Nel capitolo XIX della Teoria Generale Keynes discute invece degli effetti monetari 
provocati su reddito ed occupazione da una variazione dei salari monetari (De Vecchi, 
1991).  
Come Kalecki, anche Keynes, analizzata criticamente la proposizione ‘classica’ secondo 
cui condizione affinché un sistema economico posto al di fuori dell’equilibrio di piena 
                                                 
4
 “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta” (1936), capitolo XIX. 
CAPITOLO I - La Teoria Generale keynesiana 
 
occupazione vi ritorni è la flessibilità dei salari monetari (viceversa, la rigidità dei salari 
monetari è la responsabile della disoccupazione)
5
, propone la propria teoria. 
Più precisamente, Keynes, osservato che l’economia capitalistica si trova normalmente 
in condizioni di disoccupazione, intende dimostrare che l’equilibrio di piena occupazione 
non può essere il risultato di automatismi ma piuttosto una condizione da perseguirsi 
deliberatamente attraverso un’adeguata politica economica. Inoltre, la flessibilità dei salari 
monetari non favorisce affatto l’avvicinamento verso la piena occupazione, ma allontana il 
sistema da quell’obiettivo. In altri termini, la relazione fra salari monetari ed occupazione 
in genere è molto più complicata di quanto la teoria classica supponga: soltanto in 
particolari circostanze, una riduzione dei salari monetari assicura più alti livelli di 
occupazione. 
La divergenza tra le due posizioni, sostiene lo stesso Keynes, è essenzialmente 
metodologica. 
                                                 
5
 Keynes, riesaminando la teoria classica nella versione accreditata nella letteratura economica, esprime un 
giudizio negativo circa la sua correttezza logica. A suo giudizio, infatti, la tesi classica dell’efficacia di una 
riduzione dei salari monetari per aumentare l’occupazione poggia su un’ipotesi implicita: che (dal punto 
di vista logico) sia possibile la trasposizione di un ragionamento, valido a livello di singola impresa in 
concorrenza perfetta, al sistema economico complessivamente considerato. Nel caso della teoria 
dell’impresa, la relazione inversa tra salari monetari e occupazione poggia sull’ipotesi che la domanda 
monetaria complessiva (consumi ed investimenti) non vari (cosiddetta “ipotesi di indipendenza della 
domanda monetaria complessiva rispetto ai salari monetari”). La teoria classica trasferisce quindi questo 
ragionamento dall’impresa al sistema economico, mantenendo questo presupposto. Così facendo, si 
commette un errore che la logica classica designa come ignoratio elenchi, ossia esclusione di certe relazioni a 
favore di altre. L’ipotesi di indipendenza in questione ha senso, quando si considerano gli effetti di una 
riduzione dei salari monetari sulla quantità prodotta da un’impresa in concorrenza perfetta: proprio le 
circostanze che servono a definire la concorrenza perfetta consentono di assumerla. Non altrettanto accade 
a livello di sistema nel complesso, per il quale non è possibile affermare a priori che la riduzione dei salari 
monetari non abbia effetti anche sulla domanda monetaria: in altri termini consumi o investimenti 
possono aumentare o diminuire. In pratica, l’argomentazione classica non tiene, perché compie una 
trasposizione indebita dal punto di vista logico di un ragionamento valido a livello microeconomico, ma 
non, per analogia, anche a livello macroeconomico (cosiddetto “errore di composizione”). Se si preferisce, 
utilizzando la terminologia introdotta da Keynes nel capitolo XVIII della sua Teoria generale, la domanda 
monetaria complessiva può ragionevolmente ritenersi un “dato” per la teoria dell’impresa in concorrenza 
perfetta ed una “variabile” per una teoria dell’occupazione del sistema nel complesso. Dunque, al di fuori 
dell’ipotesi implicita, esplicitata da Keynes, la teoria classica non vale, diventando una teoria “particolare” 
e non “generale” come aspirerebbe ad essere.