2
ri post-medievali, come Agostino o Lutero, che invece proponevano comunque, seppur 
con evidenti differenze, una soluzione che conciliasse il laico con il sacro, in modo che 
il vivere e il praticare la libertà fosse in ogni caso una questione di fede, di fede più pro-
priamente religiosa; dai grandi filosofi del XVII e del XVIII secolo, che possiamo senza 
alcun dubbio considerare i “padri” del liberalismo classico, i quali, invece, cercavano 
più o meno tutti di evidenziare come la pratica della libertà fosse una questione forse 
collegata, ma certo non coincidente, con quella della fede, fino ad arrivare alla folta 
schiera di filosofi contemporanei, i quali spesso hanno dibattuto, o ancora dibattono, sul-
le stesse questioni da sempre affrontate, ma calate in un nuovo e sempre mutevole con-
testo, la nostra civiltà ipertecnologica, che fa di esse delle questioni sempre più com-
plesse e mai esauribili. 
Di certo merita un posto di assoluta eminenza in quest’ultima categoria Raymond 
Polin, filosofo nato a Briançon nel dipartimento delle Alte Alpi nel 1910, docente presso 
le università di Lilla, di Parigi e presso la Sorbona, che in circa cinquant’anni di intensa 
attività, ci ha donato numerosi saggi nei quali ha esplicato il suo pensiero di liberale 
convinto, un pensiero rivolto non all’affermazione di questa o quella forma di governo o 
di questa o quella divisione in classi sociali, sibbene all’affermazione della libertà 
dell’uomo come normale “mezzo” per la creazione di un ordine politico “giusto”, un or-
dine cioè voluto dall’uomo, fondato sul suo consenso, indipendentemente da quale sia 
poi, nel dettaglio, tale ordine: ”senza questo consenso esplicito o implicito, un ordine 
politico è portato al deperimento e alla catastrofe. Poiché l’ordine politico è un ordine 
per esseri capaci di libertà e di ragione”
1
. 
                                                     
1
 R. Polin, L’obbligazione politica, 1971, p. 42 
 3
Vien da sé che se un certo ordine politico dev’essere , almeno in teoria, fondato 
sul libero consenso di tutti i suoi consociati, è chiaro - dice Polin- che non si può trattare 
di un ordine imposto con la forza da un esiguo numero di essi , o peggio da uno solo, nei 
confronti di tutti gli altri, poiché ciò comporterebbe una palese violenza sulle libertà e 
sulle coscienze di questi ultimi, che quindi si troverebbero sottomessi ad un ordine che 
non garantisce loro la dignità che meritano, se non altro perché non permette loro di 
scegliere. E’ necessario, quindi, che la comunità politica sia effettivamente il frutto di 
una libera scelta dell’uomo, è necessario che sia una comunità in cui ogni uomo possa 
liberamente scegliere i propri valori, conoscerli, viverli in modo corretto, farli 
comprendere agli altri: “la libertà intenzionale di valori e di senso ha probabilità di 
pervenire a una esistenza effettiva solo nella misura in cui i valori creati sono 
comprensibili e compresi da altri”
2
. 
La libertà è, per Polin come per Rousseau o come d’altronde per Kant, una forza 
propria della natura umana, un fuoco che nei secoli migliaia di guerre e dominazioni 
hanno invano cercato di soffocare e che si traduce, per l’uomo, in una facoltà di devia-
zione, di possibile rottura col passato o col più immediato presente, in una furia capace 
di infrangere qualsiasi argine, naturalmente opposta a qualsiasi tentativo di limitarla, a 
qualsiasi ostacolo che ne possa sminuire le potenzialità; la comunità politica, d’altronde, 
è anch’essa una costante nella vita dell’uomo, un’entità inscindibile dalla sua natura, che 
è quella di mettersi in relazione con i suoi simili, seppur per le più svariate ragioni - af-
fermarsi, trovare protezione, divertirsi, odiare, prendere a modello -, ma comunque con 
l’intento di creare dei rapporti, stabilire dei legami più o meno duraturi, di conoscere le 
altrui passioni e in queste trovare similitudini o differenze che possano gratificarlo. Pos-
                                                     
2
 R. Polin, La libertà del nostro tempo, 1977, p. 66 
 4
siamo dire che tra i due assoluti della natura umana, libertà e comunità, c’è lo stesso 
rapporto che troviamo nella fisica tra la forza centrifuga e quella centripeta: due forze 
esattamente opposte, ma che proprio per questo, danno vita ad un fenomeno fisico – il 
moto di un elettrone attorno al suo atomo, il moto della Terra intorno al Sole, in breve il 
moto circolare uniforme - che per la sua pulizia, per la sua straordinaria eleganza, per la 
sua vitale importanza, è il sinonimo della grandezza della natura. “Ogni libertà è per na-
tura una funzione di deviazione, di divergenza, di differenza. La libertà è, per natura, 
selvaggia. Essa comporta una ferocia, un’aggressività, uno spirito di dominio. Recipro-
camente, è essenziale che fra le libertà vi sia comunione, la quale non si costruisce sen-
za una obbligazione specifica”
3
; stando così le cose, constatando cioè l’inevitabile con-
trasto fra due esigenze, ripeto, necessarie, imprescindibili, per l’uomo, nasce quindi - di-
ce Polin - il bisogno di una “obbligazione specifica”, di una volontaria sottomissione a 
dei limiti, al fine di raggiungere un risultato, la comunità politica, che permetta, nel mo-
do migliore possibile, la libera e pacifica convivenza degli uomini.  
E’ d’altronde quello che, con le loro personali motivazioni, hanno detto Hobbes, 
Locke, Rousseau, e come loro molti altri, tra cui il filosofo contemporaneo Salvatore 
Veca, che nel suo saggio di filosofia politica “Una teoria contrattualistica della giusti-
zia” scrive: “storicamente il contrattualismo moderno nasce dal rovesciamento di una 
concezione olistica e organica della società; nasce cioè dalla idea che il punto di par-
tenza di ogni progetto sociale di liberazione è l’individuo singolo con le sue passioni, 
coi suoi interessi, coi suoi bisogni”
4
. 
                                                     
3
 R. Polin, La libertà del nostro tempo, 1977, p. 67 
4
 S. Veca, Una teoria contrattualistica della giustizia, AA.VV. Etica e politica, 1984, p. 73 
 5
Questa obbligazione specifica, questo contratto che l’uomo stipula con se stesso 
prima, e con i suoi simili poi, sebbene possa apparire a prima vista come una scelta auto-
lesionista, in definitiva si dimostra conveniente, a condizione però - continua Veca - che 
sia una scelta di tutti i consociati: “gli individui non aderiscono ad un contratto sociale 
con lo scopo di imporsi dei vincoli: essi stipulano accordi mutui allo scopo di garantirsi 
i vantaggi derivanti dalla conformità di tutti a regole (contratto) che genera una limita-
zione mutua dei comportamenti”
5
. Si nota quindi come il contratto sociale, con le limi-
tazioni generalizzate alle libertà individuali che comporta, consenta a ciascuno di poter 
agire liberamente sapendo ciò che gli è consentito e, soprattutto, sapendo ciò che non è 
consentito ai suoi consociati; alla fine, tirando le somme, si può notare come il fatto di 
conoscere le possibili azioni altrui, sulla base di una previsione legislativa comune (il 
contratto), comporti dei vantaggi maggiori del costo personale comportato dalla limita-
zione della libertà avvenuta con il contratto stesso: questo dimostra che il contratto so-
ciale sia in effetti, oltre che necessario, anche conveniente. E la convenienza, molto vi-
cina dunque ad una convenienza economica, la si ha anche sotto un altro profilo: il con-
tratto sociale nasce come eliminazione dell’hobbesiano stato di natura, stato dal quale 
nessun uomo avrà mai alcun vantaggio, ed è diretto a raggiungere il risultato forse più 
spicciolo dell’obbligazione politica collettiva e della conseguente nascita della comuni-
tà: l’uomo, lasciato da solo, in una ostilità a trecentosessanta gradi contro i suoi simili, 
dovrà lottare senza sosta per poter sopravvivere, e ciò senza mai poter ottenere tutto ciò 
che vorrebbe, ma addirittura rischiando di perdere ciò che si è appena conquistato. Il 
contratto sociale e l’autorità politica che ne scaturisce consentono allora di riunire e di 
conservare fruttuosamente tutte le risorse di cui l’uomo ha bisogno e per le quali conti-
                                                     
5
 S. Veca, Una teoria contrattualistica della giustizia, AA.VV. Etica e politica, 1984, p. 77 
 6
nua invano a lottare, consentendo quindi un accumulo di ricchezza che da solo non potrà 
mai raggiungere; così scrive a questo proposito il filosofo italiano Adriano Bausola, nel 
suo saggio intitolato “Libertà e responsabilità”: “nasce così la politica come potere di 
decisione sulla distribuzione di questi mezzi e di queste risorse; l’uomo, non potendo 
avere tutto, almeno ha qualcosa piegandosi all’autorità e al principio di realtà. In altri 
termini, in ogni gruppo sociale, che abbia un minimo di organizzazione, la libertà degli 
individui di fare ciò che a loro piace viene più o meno ristretta, in base all’opinione che 
hanno le classi dominanti sulla nocività di questa o quella libertà naturale”
6
. Il contrat-
to sociale si dimostra quindi un utile stratagemma per poter usufruire di mezzi insperati 
per chiunque in uno “stato di natura” ed è quindi una limitazione alla propria libertà che 
può essere comunque considerata conveniente. 
E’ peraltro necessario che una convivenza dettata da simili ragioni sia comunque 
intrisa di un particolare senso etico, di un insieme di valori, che permettano alla comuni-
tà di non rimanere ottenebrata dai propri interessi economici. E’ quello di cui Kant parla 
nella Legge Fondamentale Della Ragion Pura Pratica: “Opera in modo che la massima 
della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione 
universale”
7
. Ed è quello di cui parla Salvatore Veca quando dice: “Ogni approccio in 
termini etici alla valutazione delle situazioni sociali, dell’assetto delle istituzioni, delle 
regole pubbliche, delle clausole del contratto sociale è in qualche senso una particolare 
versione della Regola d’oro. Quest’ultima prescrive in sostanza di metterci nei panni – 
o nelle scarpe - degli altri”
8
. Ciò che conta, quindi, è che il senso etico, il senso 
dell’Universale, prevalga, in ogni uomo, sulle passioni, sui desideri, sulle pulsioni più 
                                                     
6
 A. Bausola - Libertà e responsabilità, 1980, p. 95 
7
 I. Kant, Critica della ragion pratica, vv. 115-116-117 
8
 S. Veca, Una teoria contrattualistica della giustizia, AA.VV. Etica e politica, 1984, p. 80 
 7
immediate, e permetta ad ognuno di educare il proprio Io alla convivenza civile e al sen-
so di dovere e di sacrificio che questa comporta. 
“Bisogna riconoscere innanzi tutto che ogni esistenza sociale, ogni esistenza che 
riunisce più esseri capaci d’intelligenza e di libertà, richiede il rispetto di un certo nu-
mero di regole, che ordinano questa coesistenza e la rendono possibile. Queste regole, 
considerate nella loro forma, sono, nel quadro di questa comunità di vita, necessaria-
mente riconosciute come legittime”
9
. Quello che in questo passo Polin afferma è in defi-
nitiva una constatazione di ciò che può esser considerata la norma prima di ogni convi-
venza: il rispetto delle regole. Sebbene da molti siano viste come ingiuste pressioni che 
il sistema obbliga a sopportare, le regole sono spesso insostituibili e spesso anche incon-
sciamente seguite, a prova del fatto che sono quanto di più naturale ci possa essere; pro-
viamo ad immaginare, ad esempio, il traffico stradale senza un codice, senza delle rego-
le: se, in teoria si permettesse a chiunque di guidare nel modo che più gli piace, senza 
dover tenere, ad esempio, la destra, senza dover rispettare i sensi vietati, senza dover ri-
spettare i semafori, in un primo momento, forse, tutti si sentirebbero più liberi, più pa-
droni del proprio stile di guida; ma, dopo gli inevitabili incidenti, dopo gli inevitabili in-
gorghi, gli automobilisti, come se pilotati da un sentimento comune “superiore”, cerche-
rebbero certamente di creare e di seguire delle norme, delle direttive valide per tutti, un 
codice che consenta loro di guidare senza i pericoli dati dall’anarchia più totale, sapendo 
per esempio che non troveranno nessuno che autonomamente si arroghi il diritto di gui-
dare in senso contrario a quello di marcia. “Non v’è una società senza costumi, cioè sen-
za modi rigidi di comportarsi e senza divieti. Non vi sono neppure società senza padro-
ni. Per dirla ancora con Kant, l’uomo, poiché è capace di libertà, ha bisogno di un pa-
                                                     
9
 R. Polin, Etica e politica, 1968, p. 235 
 8
drone. E’ questo dominio che la comunità esercita attraverso la forza pubblica che lo 
rappresenta, con qualunque persona ne sia investita. Ecco l’essenza della comunità po-
litica”
10
. Quello che Polin intende quando parla di “dominio attraverso la forza pubbli-
ca”, che costituisce poi l’essenza della comunità politica, è in effetti ciò che, più breve-
mente, si può definire “autorità”, ovvero quella élite di governanti cui, in ultima analisi, 
spetta di decidere sulle questioni rilevanti per la vita dello Stato e per la salute della co-
munità: “una comunità politica in buona salute è una comunità capace di perseverare 
nel suo essere, di durare a lungo, con un margine soddisfacente di sicurezza. Vale a dire 
che essa è capace di realizzare, con un’efficacia ragionevole, i fini che persegue, assi-
curando la sua autonomia e, per quanto possibile, la sua autarchia, di dominare i con-
flitti interni e i fattori di dissoluzione che essa può celare e di affrontare al massimo la 
concorrenza e i conflitti con le altre comunità”
11
. Questa autorità è tale in via di un con-
ferimento, da parte dei consociati “contraenti”, di un potere politico assoluto, che goda 
di una legittimità indipendente dall’uso che se ne fa. Si badi, assoluto non vuol dire arbi-
trario: “si chiamerà arbitrario un potere che si esercita senza leggi e senza curarsi del 
consenso di coloro che gli sono sottomessi”
12
. Assoluto vuol dire che, nell’ambito della 
legalità, cioè dei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato, il potere dell’autorità è incontra-
stabilmente esteso ad ogni affare umano, ad ogni forma di vita sociale, al punto che ogni 
azione umana, anche la più privata, avviene nel rispetto di alcune regole, di un’autorità. 
Sebbene l’attribuzione di un potere così vasto ad un numero necessariamente esi-
guo di persone possa sembrare un suicidio collettivo annunciato o, al limite, una scelta 
di deresponsabilizzazione personale, in realtà è niente di più che una naturale delegazio-
                                                     
10
 R. Polin, La libertà del nostro tempo, 1977, p. 68 
11
 R. Polin, La libertà del nostro tempo, 1977, p. 71 
12
 R.Polin, L’obbligazione politica, 1971, p. 75 
 9
ne di funzioni che gli uomini, visto l’elevato numero di essi e viste le differenti convin-
zioni e preferenze, non potrebbero certamente esercitare: “la verità è che gli affari poli-
tici sono affari umani che nessun automatismo saprebbe regolare e che si risolvono, in 
fin dei conti, con la stima e il riconoscimento del valore degli altri, con la fiducia che si 
dà loro, con la speranza che si conserva e, per conseguenza, in virtù di un rischio luci-
damente, cinicamente, accettato”
13
. Questo rischio si presenta come la più ovvia delle 
scelte; basti pensare a qualsiasi associazione di persone, indipendentemente dal fine che 
abbia: in essa noi troveremo sempre un numero ristretto di associati cui la maggioranza 
dei componenti ha delegato delle funzioni, siano esse di governo vero e proprio, di stra-
ordinaria amministrazione, di decisione, di manutenzione o altro, che tutti gli associati 
contemporaneamente non potrebbero mai compiere, se non con un forte dispendio di 
tempo ed energie. In definitiva, anche la creazione di un’élite di governo - intendiamoci, 
sempre ben controllata da appositi organismi e da apposite norme - si dimostra una scel-
ta conveniente, perché consente lo svolgimento di funzioni vitali per una comunità in un 
modo certamente più rapido e molto probabilmente più completo. 
“Kant parlava de ‘l’insocievole socievolezza’ degli uomini: significa che essi so-
no legati gli uni agli altri tanto dalle loro rivalità e dai loro conflitti di autorità quanto 
dai loro sforzi di mutua assistenza, per quanto gli uni e gli altri siano essenziali o vani. 
La loro solidarietà è fatta di interdipendenza nelle loro differenze. Kant diceva ancora 
che l’uomo, poiché è libero, non appena vive con i suoi simili, ha bisogno di un padro-
ne. L’autorità troverebbe qui la sua fonte originaria ed un fondamento in natura, persi-
no nella natura della libertà, in quella natura dell’uomo, che è di fare liberamente la 
                                                     
13
 R.Polin, L’obbligazione politica, 1971, p. 36 
 10
propria natura”
14
. Il compito di questa élite è sicuramente un compito arduo, tanto ar-
duo da comportare più o meno periodicamente un fisiologico riciclo, con annessi cam-
biamenti legislativi, ma è un compito che il governo, istituzionalmente oltre che natu-
ralmente, è chiamato a svolgere, proprio perché in esso si vengono ad incontrare, o a 
scontrare, tutte le sinergie di una società: come disse Bernard Crick in un suo celebre di-
scorso tenuto all’Università di Sheffield intitolato “La libertà come politica”, “il gover-
no è la capacità di prendere decisioni generali tra diversi gruppi, che, per quasi tutti i 
fini, possono nel loro insieme essere considerati come società. La politica come istitu-
zione è il conflitto tra interessi discordanti (ideali oppure materiali) in un contesto co-
munemente accettato. La politica come attività è la conciliazione di questi interessi di-
scordanti nel contesto pubblico creato da uno stato o conservato da un governo”
15
. Solo 
quindi svolgendo una corretta azione di governo si può immaginare di realizzare una 
comunità politica libera, paradossalmente libera anche se la funzione governativa fosse 
riservata ad una sola classe politica: “dove c’è politica c’è libertà. C’è della libertà, an-
che se limitata a gruppi di aristocratici in contrasto fra loro, dovunque il governo rico-
nosca con strumenti istituzionali l’esigenza di tener conto degli interessi in conflitto”
16
. 
Ciò di cui bisogna tener conto, al fine di mantenere in vita una comunità politica, sono 
quindi le esigenze, gli interessi, i bisogni dei consociati, in modo che ciascuno di essi 
ritrovi nell’autorità se stesso, in modo che ciascuno di essi trovi nella comunità il luogo 
in cui vivere liberamente e realizzare se stesso, i propri ideali, i propri desideri. E’ in de-
finitiva importante che nella comunità si uniscano e si rispettino a vicenda i due assoluti 
che riempiono l’esistenza di ogni uomo: ”La dialettica dell’obbligazione politica asso-
                                                     
14
 R.Polin, Etica e politica, 1968, p. 219 
15
 B. Crick, La libertà come politica, AA.VV. La libertà politica, 1974, p. 175 
16
 B.Crick, La libertà come politica, AA.VV. La libertà politica, 1974, p. 179 
 11
luta e dell’esigenza assoluta di libertà implica la sintesi delle due, sotto forma della 
conciliazione meno cattiva possibile, del compromesso storico che, per quanto imperfet-
to, assicura, in un dato momento, nei limiti del possibile, l’efficacia dell’azione politica 
insieme al potere, per ciascuno, di compiersi, di realizzarsi in libertà”
17
. Creando una 
pacifica convivenza tra questi due assoluti - libertà e contratto - si avrà così una comuni-
tà politica sana, duratura, sempre legittima perché sempre fondata sul consenso dei suoi 
consociati.  
Che l’ordine politico debba comunque fondarsi sul consenso della comunità è in-
dubbio: d’altronde “l’accordo dell’opinione, Hume lo ricorda, è lo strumento indispen-
sabile, a lungo andare, ad ogni azione politica. E’ sull’opinione che ogni governo è 
fondato, il più dispotico come il più libero”
18
. Il problema può però presentarsi nel mo-
mento in cui la comunità manifesti una voglia di cambiamento, un desiderio di ricono-
scersi in una nuova autorità o in un’autorità con poteri diversi. E’ lecito, in questo caso, 
delegittimare un ordine politico, per quanto giusto che sia, se è la comunità a chiederlo? 
Date le premesse del discorso, e dati i punti fermi cui lo stesso è giunto, la risposta non 
può essere che affermativa: se un popolo, o comunque una qualsiasi comunità, deve sot-
tostare ad un’autorità in cui non si riconosce, è giusto che avvengano i dovuti cambia-
menti, anche radicali se necessario, purché diano il risultato di ripristinare il consenso e 
la fedeltà del popolo ad un’autorità. Del resto il fatto che una comunità politica sana sia 
una comunità duratura non significa che debba essere per forza una comunità statica, 
sempre uguale a se stessa; tutt’altro, una comunità politica, come qualsiasi cosa in natu-
ra, ha bisogno di un continuo adattamento per poter sopravvivere; l’intero universo è in 
                                                     
17
 R.Polin, L’obbligazione politica, 1971, pp. 88-89 
18
 R.Polin, Etica e politica, 1968, p. 239 
 12
continua evoluzione, la natura subisce inarrestabili cambiamenti, l’uomo, nei secoli, si è 
evoluto e continua a cambiare le sue abitudini ed i suoi costumi: è quindi evidente che 
anche una comunità debba continuamente adattare le proprie leggi alle proprie esigenze. 
”La trasformazione della legge accompagna più o meno da vicino l’evoluzione delle 
convinzioni dell’opinione pubblica. E’ un’illusione immaginarsi che la legge possa de-
rivare da un artificio che ne sia veramente e durevolmente indipendente. E’ in questo 
senso che si può dire che la legge esprime l’opinione pubblica, perché ne esprime il 
credo efficace e realistico”
19
. 
Se quindi non sorgono dubbi sulla necessità di un continuo rinnovamento 
dell’autorità e delle leggi di una comunità politica, il discorso cambia, per cui i dubbi 
sorgono, quando si passa a considerare le possibili modalità di questo cambiamento. Le 
alternative prospettabili sono due, riforma e rivoluzione, diametralmente opposte quanto 
a contenuti e a modalità. A queste, peraltro, se ne può aggiungere una terza, costituita 
dall’anglosassone right of dissent, il diritto di dissentire, altrimenti definito civil desobe-
dience cioè disobbedienza civile, consistente nell’assumere un comportamento di totale 
indifferenza nei confronti delle norme e dei doveri che, secondo il proprio parere, non si 
ritengono giusti. Un ragionamento del genere mira così a modellare l’autorità e le leggi 
sulla propria personalità e sulla propria volontà, sino a costruirsi una sorta di Stato su 
misura; è evidente che un comportamento di questo tipo, se in astratto potrebbe forse ri-
tenersi giusto o quanto meno comprensibile, in pratica si traduce in un atteggiamento 
che sfiora l’anarchismo vero e proprio, e comunque ne costituisce una importante pre-
messa: “dal momento in cui ognuno dispone del diritto di consentire e di disobbedire ad 
ogni istante, di scegliere le sue guerre, le sue autorità, le sue leggi, le sue decisioni, non 
                                                     
19
 R.Polin, L’obbligazione politica, 1971, p. 100 
 13
ci sono più né decisioni né leggi né autorità. Una legge alla quale si ha diritto di disob-
bedire non è più una legge. E quando ciascuno ha diritto di scegliere la sua guerra, è 
l’inizio della guerra di ciascuno contro ciascuno”
20
. Il “diritto di dissentire”, - dice Po-
lin - è l’inizio dell’anarchismo, l’inizio della guerra generalizzata; e d’altronde non po-
trebbe essere diversamente visto che ,attraverso la concessione di un tale diritto, non si 
fa altro che legalizzare un tipo di comportamento che, in una comunità “normale”, o per-
lomeno attenta alla propria conservazione, si etichetterebbe come illegale, cioè contrario 
ai dettami della legge, proprio perché volontariamente indirizzato alla non osservanza, o 
al massimo all’osservanza puramente casuale, della legge stessa. Ne risulta che, dal 
momento in cui una legge permette ai suoi destinatari di disattendere i propri princìpi 
quando ciascuno di essi lo ritenga giusto, ebbene, quella non è più una legge, non è più 
una regola universale ed assoluta, che valga quindi senza eccezioni di sorta, e diventa 
totalmente inutile per la comunità.  
Egualmente un’autorità che permettesse di “dissentire” dalle proprie decisioni non 
sarebbe più tale, poiché è insito nel concetto di autorità un requisito che naturalmente 
qui verrebbe a mancare: l’assolutezza. “Perché l’autorità politica sovrana compia la 
sua missione, bisogna che essa disponga, nel quadro delle leggi e per il loro uso, del 
potere e del diritto di decidere legittimamente in ultima istanza del bene dello Stato e 
della sorte civile e politica di ciascuno”
21
. 
Se la “disobbedienza civile” come mezzo per modificare la legislazione risulta i-
nattuabile senza inevitabilmente - a detta di Polin - arrivare a risultati poco rassicuranti, 
rimane da valutare le restanti due alternative: la riforma e la rivoluzione.  
                                                     
20
 R.Polin, L’obbligazione politica, 1971, pp. 102-103 
21
 R.Polin, L’obbligazione politica, 1971, p. 75 
 14
Si tratta, come anticipato, di due strumenti molto diversi, addirittura opposti, 
quanto a contenuti e a modalità, poiché si possono accostare a due modi opposti di con-
siderare lo Stato: lo Stato come espressione della volontà pubblica, nel quale ritrovare se 
stessi, i propri diritti così come i propri doveri, sorto e continuamente alimentato 
dall’intima obbligazione politica di ciascuno, ed uno stato visto come un antagonista, un 
tiranno che opprime con le sue magie nere, un perfido meccanismo da sabotare conti-
nuamente e nel quale, in fin dei conti, nessuno si riconosce e del quale nessuno ricono-
sce la legittimità. Alla prima concezione, è chiaro, corrisponde la riforma, il mezzo at-
traverso il quale modificare ciò che più non corrisponde alla volontà popolare utilizzan-
do ciò che ancora vi corrisponde, ciò che ancora vi è di legale, ciò che resiste , forse 
perché dotato di una ratio “superiore”, al passare del tempo e delle epoche; alla seconda 
concezione, invece, corrisponde la rivoluzione, un mezzo spesso considerato come giu-
sto e buono se giusto e buono è il fine cui mira, ma che non si può fare a meno di consi-
derare per quello che effettivamente comporta, devastazione, morte, rabbia selvaggia 
contro qualsiasi cosa - anche la più giusta - che costituisca anche lontanamente un limi-
te, un argine, all’impeto delle masse accese dalla lotta.  
“La riforma non si distingue dalla rivoluzione per grado, ma per natura: poiché 
questa si compie in rottura delle leggi ricevute, quella nel quadro delle leggi ricevute e 
per mezzo delle leggi. E’ evidente che la riforma conviene meglio allo spirito della poli-
tica che è, per natura, un’arte di vivere in comune, l’arte dell’accordo, del compromes-
so e della conservazione, e allo spirito dell’obbligazione politica, che si obbliga in rap-
porto ad un ordine politico già dato”
22
. 
                                                     
22
 R.Polin, L’obbligazione politica, 1971, p. 104 
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La riforma, nel pensiero di Polin, costituisce quindi il solo strumento necessaria-
mente utilizzabile per dare all’ordine politico esistente quelle caratteristiche che il tempo 
e l’evoluzione dei costumi gli fanno perdere e che tuttavia sono necessarie per far sì che 
quello sia l’ordine che una comunità politica vuole, per far sì, cioè, che l’ordine esistente 
continui a poggiarsi su quel consenso che costituisce la fonte della sua legittimità.