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Due esempi di applicazione del diritto comparato

Esempio: tutti noi tutti i giorni poniamo in essere delle operazioni che obbediscono a delle regole, comportamenti che abbiamo imparato per imitazione ma che non sono formalizzati ai nostri occhi (ognuno è capace di andare su una bicicletta, ma non vi sono regole formali per farlo). Esistono quindi delle regole operative non verbalizzate. Ipotizziamo il caso francese: i giudici francesi sostengono che la traditio del bene mobile comporta il passaggio della proprietà a titolo di donazione. Il codice civile francese dice che, perché ci sia una donazione, occorre una manifestazione di volontà contenuta in un atto pubblico.
Il giurista francese nato e vissuto in Francia è così abituato alla regola che non si pone nemmeno il problema: lui sa che il codice civile dice “manifestazione di volontà con atto pubblico perché vi sia donazione”, ritiene che i giudici applichino questa regola considerando la traditio equivalente all'atto pubblico e non si fa alcun problema, utilizza il principio di unità, non cerca di individuare la tradizione logica sottostante a ciò che fanno i giudici.
Il comparatista vede le cose in modo diverso: egli raffronta il diritto italiano e francese, i formanti giuridici sono uguali, la divergenza è a livello di formanti giurisprudenziali.
I giudici francesi infatti applicano un crittotipo ripreso dal passato: la regola della traditio era presente nei testi scritti dagli avvocati antecedenti al Code Napoléon. Risalendo sempre più indietro nel tempo ci si accorge che tale regola è di origine romana ed i giudici francesi continuano ad applicarla. Questo è il risultato del diritto comparato.
Un ulteriore esempio
Le attribuzioni ad enti no profit in Francia non sono considerate donazioni. Il confronto con il diritto italiano svela la causa di questa regola operativa, usata per salvare l'attribuzione. L'ordinamento francese stabilisce che un'associazione per ricevere una donazione deve avere un determinato riconoscimento amministrativo, altrimenti la donazione è invalida.
Un marchese distribuì ad un'associazione no profit che svolgeva attività di formazione scolastica di tipo confessionale un bene immobile di valore affinché all'interno di questo edificio potesse essere strutturata una scuola.
Il marchese muore, il nipote del marchese, suo erede, impugna l'atto di donazione avanzando pretese sull'immobile. I giudici stabilirono che quell'atto del marchese non era una donazione perché il marchese aveva agito allo scopo di veder proseguire un certo tipo di insegnamento. La soddisfazione di questo scopo è una finalità egoistica, quindi non c'è donazione.
E' evidentemente un discorso che non sta in piedi: alcuni hanno accusato tale sentenza di estremismo poiché seguendo quel ragionamento sarebbe logico eliminare la donazione dal codice civile (la generosità disinteressata è rarissima).
In Italia si ha nel codice civile una norma espressa, l'art. 42, che dice che i sottoscrittori dei comitati sono obbligati ad eseguire le oblazioni promesse, e che si applica al caso di attribuzioni ad enti no profit di beni immobili. Tale attribuzione non è quindi considerata una donazione, per essere agevolata dal punto di vista fiscale.
Quindi: nel nostro codice civile c'è una norma espressa, in Francia la norma espressa non c'è, quindi i giudici non vogliono svuotare di significato la donazione, vogliono bensì salvare le attribuzioni alle associazioni no profit anche quando queste non siano formalmente riconosciute e quindi siano incapaci di ricevere le donazioni. E per fare ciò si appigliano a diverse motivazioni: la finalità egoistica, la volontà di acquisire maggior prestigio sociale...

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