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I ricorsi nel processo penale

Il processo penale è governato da un principio: la legge è uguale per tutti, e siccome due casi identici non esistono mai, è chiaro che bisogna avere delle regole uguali per tutti da seguire, in tutti i casi anche se questi sono diversi.
La Corte d’Assise è in caso di dubbio. La presunzione di innocenza trova la sua dimensione nella regola probatoria e di giudizio dell’”oltre ogni dubbio ragionevole”, indispensabile questa regola per assicurare la protezione degli innocenti e nel rispetto dei fondamenti costituzionali dello Stato. Si ritengono PROVE INSUFFICIENTI quelle che non sono in grado di dimostrare la colpevolezza dell’imputato e si considerano PROVE CONTRADDITTORIE quelle prove che se pur fanno preferire l’ipotesi della colpevolezza, lasciano sopravvivere uno o più dubbi ragionevoli. In questi casi il rispetto dei diritti del cittadino impone la pronuncia di una sentenza assolutoria, pur essendoci prove anche forse più convincenti rispetto a quelle dell’innocenza, ma se ci sono dei dubbi il soggetto ha diritto ad essere assolto.
Nel processo penale c’è una regola più rigorosa rispetto a quella del processo civile, dove si dà ragione a chi dimostra di avere più ragione, regola della preponderanza dell’evidenza (più probabile che no). Mentre nel processo penale vige la regola “al di là di ogni dubbio ragionevole”. È una regola che risponde alla domanda se sia meglio correre il rischio di lasciare libero un colpevole o correre il rischio di condannare un innocente: è estremamente meglio correre il rischio di assolvere i colpevoli, piuttosto che correre il rischio di condannare anche un solo innocente. Se condanniamo solo ove non ricorrano dubbi ragionevoli, molti casi con prove evidenti, dovranno chiudersi con l’assoluzione. L’ordinamento ci tiene a fissare un principio fondamentale: si condanna solo se si è sicuri. Perché i due possibili errori del processo penale, ossia condannare un innocente e assolvere un colpevole, non sono equivalenti tra loro, il nostro ordinamento vuole ridurre al minimo il rischio che sia condannato un innocente. La regola dell’oltre ogni dubbio ragionevole, riduce il più possibile gli spazi dell’errore del tipo condanna dell’innocente, mentre aumenta la possibilità che si verifichino errori in senso opposto, assoluzione del colpevole. Il nostro ordinamento accetta una distribuzione così disomogenea degli errori perché valuta gli effetti di questi. Solo questa regola è in grado di garantire quei valori di immensa portata, granitici, di ciascun individuo: il diritto al buon nome, il diritto alla libertà, il diritto a vivere tranquillamente la propria vita, che sono messi in pericolo quando un soggetto viene imputato. Il potere pubblico non può consentirsi di fare esperimenti con i diritti fondamentali dei cittadini, questi devono essere presi sul serio. Per garantire che siano presi sul serio, l’ordinamento impone a sé stesso di colpire questi diritti solo dove è dimostrato al di là di ogni dubbio ragionevole che l’imputato è colpevole, quindi viene giustamente condannato alla compressione di quei diritti, ma se questo non c’è il soggetto ha diritto ad essere assolto. Quello che conta è ciò che le prove consentono di dimostrare, di affermare, non il convincimento del giudice. Se dei dubbi permangono il giudice deve assolvere anche se è personalmente convinto che l’imputato sia colpevole, questo perché la scelta non la fa il singolo giudice, ma la legge, perché altrimenti a seconda del giudice che si ritrova l’imputato l’esito potrebbe essere diverso, ma così la legge non sarebbe uguale per tutti.
La storia del nostro paese non ha sempre conosciuto la regola dell’oltre ragionevole dubbio, questa è stata codifica solo nel 2006, con la modifica dell’art.533 del codice di procedure penale. Non è che prima di questi principi non si facesse menzione nel nostro ordinamento, però la regola enunciata era quella del libero convincimento del giudice, ipotizzando che essendo una persona razionale se aveva dei dubbi non condannava. Però si è voluto chiarire che non è il singolo che sceglie l’esito, ma è la legge.

Tratto da DIRITTO PENALE COMMERCIALE di Valentina Minerva
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