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Cinema etnografico e antropologia visuale


Dopo l’invenzione del cinema, è stato subito messo al servizio dell’uomo e dell’osservazione dei suoi comportamenti, ma oggi il documentario vive all’ombra del grande cinema. In ogni caso, l’invenzione progressiva di apparecchiature sempre più leggere ha reso più facile il lavoro dell’etnologo, che può filmare le situazioni sociali che osserva.
La definizione di cinema etnografico è un po’fuorviante perché raccoglie al suo interno film di esploratori, viaggiatori, registi indipendenti, reporter televisivi: il paradigma esotico è il denominatore comune; sono comunque il più delle volte deludenti, alla continua ricerca di un positivismo e con la diffidenza verso gli artifici del cinema professionale. I filmati erano proposti come se rappresentassero fedelmente una realtà univoca, come se si potesse restituire il reale in modo perfettamente mimetico, indipendentemente dallo sguardo che si poggia su di esso: furono cineasti come Flaherty e Vigo, con uno sguardo più artistico e sociale che scientifico, con una conoscenza dell’arte di proporre un punto di vista, a cambiare il panorama. Erano consapevoli del fatto che gli avvenimenti di natura storica, cioè non inventati dal regista e dagli attori, devono comunque essere raccontati e che il narratore fa parte del racconto. Si parla però sempre di film etnologico e non di film antropologico poiché, in quanto scienza che parla dell’uomo, ogni film è antropologico, come ogni film è sociologico.
L’antropologia visuale riunisce una triplice attività:
- inchiesta etnografica fondata sull’impiego di tecniche di registrazione audiovisiva;
- uso di queste tecniche come modalità di scrittura e di pubblicazione;
- studio dell’immagine in senso lato (arti grafiche, fotografie, film, video) quale oggetto di ricerca.
Per quanto riguarda la produzione di immagini come oggetti di studio, non si può più partire dal principio secondo il quale i membri di una società pensano e agiscono esclusivamente in funzione di riferimenti culturali etnici semplici e omogenei. L’individuo raccoglie nel corso della propria vita modelli e riferimenti complessi, venuti da orizzonti diversi, dai più locali e dai più radicati nel tempo a quelli più volatili.
Se decide di girare un film, l’antropologo deve dotarsi dei mezzi necessari, poiché il contenuto non può essere disgiunto dalla forma e il mestiere comporta una dimensione artistica. Gli effetti di conoscenza non sono veicolati solo dai contenuti, ma anche dai suoni, dalle immagini, dalle tecniche, dallo stile: deve curare la propria sintassi, ricerca l’espressione adeguata, lavorare sul ritmo, la narrazione, l’emozione. Realizzare un documentario è un’arte discorsiva che comporta centinaia di scelte, come selezionare nella realtà i particolari significativi e mixare il sonoro, con una propria retorica, individuando personaggi e situazioni interessanti. Il film e il video sono mezzi incomparabili per mostrare luoghi, spazi, testimonianze, prese di posizione, atteggiamenti, posture, frammenti di vita. Nonostante tutto ciò, rimane una realtà trattata con una prospettiva particolare (si concentra sul trattamento di un oggetto che è possibile apprendere in mille modi), ben lontana dall’opera di invenzione (la creazione riguarda l’intero oggetto filmico).
Negli ultimi anni abbiamo un’inversione di rotta: sono le stesse persone oggetto di film etnografici che producono le proprie immagini e documentano la propria vita sociale. Così facendo, possono controllare la propria immagine e inviare alla comunità internazionale i messaggi che desiderano.

Tratto da L'ANTROPOLOGIA DEL MONDO CONTEMPORANEO di Elisabetta Pintus
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