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SIMBOLO

→ per Hegel l’arte simbolica è gerarchicamente inferiore ed è un errore pensare che l’opera d’arte debba riferirsi ad altro da sé in quanto l’arte deve esprimere qualcosa che sta in sé.
→ per Kant, che ha una visione eteronoma dell’arte, l’arte è simbolica ovvero parla di altro da sé e la referenzialità dell’arte porta l’oggetto verso qualcosa fuori di sé.
Un oggetto artistico che è un simbolo porta a pensare molto.

Kant ritiene che trovare una relazione tra un particolare ed un universale sia un ottimo esercizio per pensare molto.
L’aquila di Giove dell’arte classica pagana non rappresenta quello che si vede, ovvero un uccello ma rappresenta un simbolo di qualcosa che sta fuori di sé, ovvero il potente re del cielo per cui non si vede soltanto un uccello ma un simbolo. Il simbolo non rappresenta quello che si vede, ovvero un uccello, ma qualcosa che da occasione all’immaginazione di pensare di più.



Quando si vede un’opera d’arte per capire cosa si ha davanti occorre pensare molto, anche se non si arriva ad una visione definitiva di x l’importante è che l’arte in generale, e l’architettura in particolare, facciano pensare all’infinito perché all’ x definitivo non si arriva mai a differenza di quanto avviene invece con le scienze.

Hegel invece ritiene che l’arte migliore sia quella che non pensare nel senso che non c’è la freccia e quindi il significato dell’oggetto è inscritto nell’oggetto stesso infatti crede che il grado massimo di artisticità non coincida con la simbolicità in quanto il valore da salvaguardare è l’autodeterminazione ovvero l’assenza di una limitazione estranea ad opera di altro.
Per Kant invece il grado massimo di artisticità coincide con la simbolicità in quanto il valore da salvare è la possibilità di pensare molto data dalla spinta al trasferimento della riflessione su un oggetto dell’intuizione a un concetto diverso.
L’autonomia sintetizza quindi la soluzione ottocentesca di Hegel mentre l’eteronoma sintetizza la soluzione settecentesca di Kant.
L’estetica dell’architettura in continuità con la soluzione di Kant sembra avere il potere di fondare qualcosa di cruciale ovvero la maggiore probabilità di non costruire oggetti errati o comunque non caratterizzati da un errore irreversibile.
Usare un criterio di eteronomia e non di autonomia quando si costruisce significa costringere chi costruisce a comparare l’esemplare particolare con il tipo universale e il fatto di comparare molto significa pensare meno e questo è una condizione in cui si ha una minor probabilità di compiere errori.

Ingarden afferma che l’architettura, insieme alla musica, è un’arte che non rappresenta qualcosa di altro da sé infatti né in un’opera architettonica e né in un’opera musicale l’osservatore è obbligato a trascendere il dato concreto.
È sufficiente vedere un edificio nel modo giusto e comprenderlo nella sua struttura per esperire il suo senso.
Egli ritiene che l’architettura sia autonoma e non ha una funzione rappresentativa, la caratteristica dell’autonomia è tipica dell’architettura e della musica, la “sorellanza” tra architettura e musica infatti è un topos antico ed egli vuole in qualche modo restituire questa tradizione storica.
L’eliminazione della funzione rappresentativa affermata da Ingarden significa che l’architettura è un puro gioco di autorivelazione e quindi la sua dimensione estetica è già il suo senso.
La nozione di autonomia può però in qualche modo limitare le possibilità della fruizione estetica in quanto questo gioco di autorivelazione non basta a capire il senso ad esempio di una cattedrale in quanto viene a mancare il potere di rappresentare qualcosa di altro da sé ovvero qualcos’altro rispetto la fisicità estetica che è fondativo per la comprensione del senso (egli parla di Notre Dame in particolare di come interagisce un oggetto architettonico con la luce senza agganciarla a nessun significato che sia fuori di sé).
L’importante è che l’architettura copi un’èidos mentre non importa che non esistono architetture che copino la morphè della natura.


Gadamer, allievo di Ingarden, sostiene non ci sia separazione tra la morphè e qualcosa di altro da sé, sostiene la tesi dell’autonomia dell’architettura.
Egli inoltre viola il divieto di Platone di ridurre la distanza tra l’oggetto rappresentato (non estetico, invisibile) e l’oggetto rappresentante (estetico, visibile) e li sovrappone in quanto ritiene che l’oggetto rappresentante abbia la capacità di aggiungere qualcosa all’essenza dell’oggetto rappresentato ovvero l’oggetto rappresentante non è uno strumento di rinvio ad un oggetto rappresentato distante da sé per cui l’oggetto rappresentante diventa un’integrazione dell’oggetto rappresentante, cioè una parte della sua essenza.

Derrida ritiene che nel suo autorappresentarsi, l’architettura faccia a meno di una freccia di referenzialità come ancora di salvataggio per cui rinuncia ad essere leggibile, comprensibile da tutti perché ancorata ad una tradizione.
Egli si concentra sulla nozione di decostruzione che influenza l’architettura novecentesca ovvero sull’obiettivo di decostruire l’idea tradizionale dell’architettura, la sua idea a ha che fare con un’architettura capace di essere qualcosa di altro in particolare qualcosa di estraneo alla necessità di un senso.
Derrida ambisce ad una condiziona alla quale l’architettura futura potrà essere libera e creativa al suo grado massimo e questa condizione non è altro che il disancoramento dalla sua storia.
L’autonomia può essere vista come un abisso oppure come una chance, possibilità nel senso che è positiva in quanto l’essere umano è un creatore e non un imitatore.

Brandi lavora ad un’articolazione della nozione di autonomia architettonica che viene sintetizzata dalla parola astanza, si tratta di un neologismo che inventa sul calco del verbo latino abstare che significa essere presenti.
Gli oggetti architettonici sono infatti astanti perché sono presenti e basta cioè sono caratterizzata da un’autonomia e quindi sono autoreferenziali perché la cosa che fanno è esserci e non fare riferimento a qualcosa.
Il significato di qualsiasi architettura coincide perfettamente con la morphè ovvero ciò che è presente. La forma fisica è tutto ciò che vedo e che viene rappresentato.


Si passa dalla rappresentazione alla presentazione di sé nel senso che non si deve cercare significato fuori da sé.


“La casa non comunica di essere una casa non più di quanto una rosa comunichi di essere una rosa”
La rosa non rappresenta nulla ma presenta solo sé stessa per cui la casa e la rosa non sono mezzi di comunicazione di niente ma si pongono come astanti, soltanto in via secondaria trasmetteranno delle informazioni (esempio l’aspetto di una chiesa può informare se sia cattolica o protestante) ma queste informazioni sono vaghe e imprecise (la chiesa potrebbe essere sconsacrata).
Esiste un’altra analogia tra la composizione di un’architettura e la composizione di una rosa (i petali e i pistilli non sono le unità distintive della rosa ma sono la rosa così come il l’abaco, il collarino e l’echino non sono le parti del capitello ma sono il capitello).

Si hanno così due possibilità compositive:
→ comporre per significare qualcosa, ovvero comporre per sapere significare qualcosa per un individuo (la mia identità architettonica è l’identità della casa nel senso che sembro una casa e allora sono una casa quindi tu puoi usare me come da casa)
→ comporre per essere qualcosa (la mia identità architettonica è l’identità della casa nel senso che sembro una casa ma comunque non sono una casa quindi tu non puoi usare me come da casa ma puoi agire con me altrimenti).
Questa discrimina una diversa visione dell’identità dell’oggetto e la sua possibilità di interagire con gli individui.
L’importanza che il verbo essere in architettura è legata al fatto che significa che la nostra esperienza di un oggetto architettonico è in primo luogo estetica, ovvero è il risultato di cosa percepiamo attraverso la vista.

L’autonomia è una visione che presenta dei limiti infatti la facciata di un edificio religioso può ingannare ad esempio in seguito ad un cambio di destinazione tuttavia bisogna considerare almeno due livelli:

1. Utilità
un edificio di culto non verrà mai costruito con tante aperture, soffitti bassi e pareti dai colori sgargianti perché nel momento in cui si realizza un edificio di culto si rappresenta la spiritualità e quindi attraverso l’architettura si cercherà di stimolarla e agevolarla.
Si stimola la spiritualità perché la si rappresenta.
Ad esempio, basta pensare al cartello di stop, se si vede un cartello rosso ci si ferma perché la nostra cultura associa il colore rosso a qualcosa a cui fare attenzione.
Le migliori architetture sono quelle più potenti nel rappresentarci qualcosa.

2. Misura umana ideale

L’architettura deve almeno rappresentare la misura umana ideale ovvero la spaziotemporalità umana.

Il processo di soggettivazione è cominciato nel Settecento e influenza l’architettura contemporanea, ovvero la sua ricerca di un’autonomizzazione che arriva ad una specie di assolutizzazione e di scioglimento di sé dalla relazione con altro da sé.
La nozione antica di arte è fondata su un criterio di eteronomia nel senso che un oggetto è artistico se rispetta delle leggi estrinseche che hanno una storia e una tradizione e non comprendono la nozione di creatività.
La nozione contemporanea di arte sembra invece essere fondata su un criterio di autonomia nel senso che un oggetto è artistico rispetta delle leggi intrinseche date dall’artista e comprendono la nozione di creatività e libertà.

Tratto da ESTETICA DELL'ARCHITETTURA di Francesca Zoia
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