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Il sentimento e la passione nella filosofia morale

La conoscenza parte dalle sensazioni, ma non si limita ad essa: le categorie ci servono per mettere insieme le diverse impressioni. Le categorie non provengono dai fenomeni, ma ce le diamo noi. La conoscenza deriva dalla ricezione di percezioni esterne che però vengono tematizzate come oggetti. La conoscenza è la sintesi di questi due movimenti.


La sensibilità è passiva o attiva?


Kant: le rappresentazioni per mezzo delle quali il soggetto subisce un’affezione (o da se stesso o da un oggetto) appartengono alla facoltà sensibile del conoscere. Essa è caratterizzata dalla passività. La facoltà del conoscere, quella che ordina il materiale secondo le forme pure apriori dello spazio e del tempo, è attiva spontanea, si svolge in piena libertà. Kant è contraddittorio perché precedentemente aveva stabilito che la sensibilità fosse attiva e passiva insieme. Allora la sensibilità è un’attività, una facoltà attiva se pur in modo diverso dall’attività conoscitiva. È la facoltà attiva di ricevere sensazioni dall’esterno. È quindi attiva e passiva al tempo stesso: è passiva in quanto riceve sensazioni; attiva perché riordina il materiale secondo il tempo e lo spazio. La sensazione allora non si riduce più al rapporto causale. Le affezioni per Kant possono provenire dall’esterno, ma anche dall’interno. Si tratta di auto-affezioni: siamo noi stessi che provochiamo su di noi delle affezioni.

Siamo attivi o passivi quando sentiamo?


La facoltà è sempre qualcosa di attivo, dà sempre inizio a dei processi. La sensibilità è la facoltà di ricevere. Si tratta quindi della facoltà della passività. Non si può quindi intendere la passione solo nei termini della passività. La passione è l’attiva capacità di essere passivi, di patire.
Autoaffezione: la causa coincide con l’effetto. Io sono la causa e l’effetto. L’autoaffezione è il prodotto di un intreccio tra passività e attività. Kant parla dell’autoaffezione come di un’autocoscienza. Il soggetto e l’oggetto coincidono. Il mio io provoca un’affezione su me stesso. Tuttavia si tratta di due io diversi: l’io empirico e l’io puro, l’io soggetto e l’io oggetto. Nell’autoaffezione quindi, sotto un certo aspetto, il soggetto e l’oggetto sono la stessa persona. Sotto un altro aspetto invece ci troviamo di fronte a un io puro e ad un io empirico. L’oggetto della mia percezione è di volta in volta l’io allegro, l’io triste etc... In questo caso non si tratta di una sensibilità, di un senso esterno, ma di un senso interno, di una sensibilità che mi fa conoscere me stesso.
Per Kant sono oggetti allo stesso modo un muro o il mio stato d’animo. Il senso esterno e quello interno, infatti, lavorano allo stesso modo.
Oggetto: ciò che mi sta di fronte, fenomeno che proviene da altro (interno o esterno che sia).
Come per conoscere il mondo abbiamo bisogno di strutture apriori, così per conoscere il nostro io empirico abbiamo bisogno delle strutture pure apriori del tempo e dello spazio e delle categorie. Non esiste alcuna distinzione tra oggetto interno e oggetto esterno. Io quindi sono in grado di comprendere il mio stato d’animo semplicemente inquadrandolo nello spazio e nel tempo e tematizzandolo per mezzo delle categorie. Per Kant le passioni, gli stati d’animo sono oggetti allo stesso modo di una cosa, di un muro. L’io agente è lo stesso io trascendentale.
Limiti di questo schema: limiti relativi alla nostra capacità di conoscerci.
L’io soggetto non è mai oggettivabile perché presupporrebbe l’utilizzo di altre forme pure apriori.
Aporia: il motore è al di fuori della macchina che lo fa funzionare.
Soluzione di Kant: non è possibile porre il soggetto come oggetto. L’io penso non potrà mai essere il pensato perché, se venisse oggettivato, non vi sarebbe più neppure il pensato (euporia).
Critica di Fichte: com’è possibile la critica della ragion pura? Com’è possibile tematizzare l’io penso?
Fichte, affermando che l’io pone se stesso, mina le basi del pensiero kantiano, in quanto afferma che l’io può tematizzare se stesso.
Anche Hegel dimostra che l’io può auto-comprendersi, può essere tematizzato (Fenomenologia dello spirito). Hegel mostra come avviene l’oggettivazione dell’io, mostra l’itinerario dell’io che arriva a conoscere se stesso, dopo essersi scoperto diverso dall’altro.
Kant: l’io oggetto per un verso è ciò che viene percepito dall’io soggetto, per un verso è ciò che lo mette in questione, che gli fa assumere le vesti della passività. L’io oggetto allo stesso tempo è recepito e colpisce: da un lato riceve la forma, da un lato è ciò che permette di conoscerla e tematizzarla. Quindi sia l’io oggetto che l’io oggetto sono, a un tempo, attivi e passivi.
Il limite di Kant nell’analisi delle emozioni e della passione consiste nell’aver considerato l’io stesso come oggetto, di non aver distinto tra senso esterno e senso interno.
Gli affetti sono oggetti? NO, a differenza di quanto ritiene Kant. È impossibile che esista un io asettico che contempla se stesso come preda degli affetti, un io non caratterizzato affettivamente che contempla gli affetti come oggetti. C’è sempre un’affettività in gioco, ci sono sempre delle aspettative caratterizzate affettivamente.
Il filosofo cerca di prendere le distanze dal suo oggetto, di tematizzarlo. In questo modo finisce per oggettivare anche le passioni, le emozioni. Nel momento in cui dobbiamo prendere le distanze da fenomeni di confine, da fenomeni non oggettivabili, le cose si complicano. Eppure la filosofia tenta di tematizzare anche tali fenomeni.


Com’è possibile una filosofia del sentimento?


Jankelevitch: è necessario trovare un termine per cogliere l’inoggettivabile. Esso è chiamato “non so che” e ”quasi niente”. Il quasi niente rimanda a qualcosa che non è una cosa. Il tempo, ad esempio, viene trattato come se fosse un oggetto ma in realtà non lo è: è piuttosto un non so che, un quasi niente. Non si tratta di un niente assoluto, bensì di un niente che nega l’oggettivabilità di qualcosa, che rende la cosa non oggettivabile.
Si tratta di fenomeni che possono essere colti, ma non compresi come oggetti. Se intendiamo i sentimenti come oggetti, finiamo per perderli, per annichilirli.
Il termine passione rimanda al termine pathos (=ciò che io patisco). In ambito greco il significato della parola è molto diverso: pathos deriva da patein che è un verbo attivo. Ci troviamo di fronte all’azione del subire, di fronte all’ambiguità attivo-passivo.
Eschilo (“Agamennone”): apprendimento per mezzo del pathos. Noi apprendiamo ogni volta che subiamo un’esperienza, un’esperienza che mette in discussione le nostre convinzioni e aspettative. Il pathos quindi indica qualcosa che colpisce nel profondo, ciò che perette di fare vera esperienza. Potremmo tradurre il termine pathos con paticità.
Victor Von Weitzsacher: scrive una “patosofia”, una scienza, una sapienza del pathos. Il pathos non è qualcosa che riguarda il subire, ma qualcosa di ben diverso. Egli mette in luce l’importanza del dialogo medico-paziente. La malattia, la sofferenza del paziente deve essere analizzata da un’altra prospettiva non più meramente medica. Il paziente deve essere preparato anche psicologicamente; bisogna tener conto anche dello stato d’animo del paziente.
Il pathos della filosofia è il thauma, la meraviglia e l’orrore al tempo stesso. Il thauma interviene nei confronti di ciò che è inaspettato. La filosofia allora è la risposta al pathos del thauma: essa risponde al thauma ricercando le cause, le responsabilità della situazione che ci mette in crisi. È l’esperienza a gestire questa meraviglia mista ad orrore. Il pathos allora non indica un mero subire, ma si ricollega all’esperienza e al fatto che ognuno possa imparare qualcosa di nuovo proprio attraverso essa.
Il termine stato d’animo si ricollega strettamente al termine emozione, nonostante non sembri esserci nessun collegamento. Stato d’animo rimanda a qualcosa di statico, mentre le emozioni sono mobili, dinamiche, sono appunto i “moti dell’animo”.
Benjamin: la nostra è l’epoca della perdita dell’esperienza in quanto tutto è riproducibile tecnicamente. L’esperienza non è più capace di incidere sul mio profondo: l’esperienza reiterata è qualcosa a cui mi abituo, diviene uno stile di vita e quindi non è in grado di originare il thauma, la meraviglia.
Ciò che proviamo è stato o moto del nostro animo?  Emozione momentanea e fugace o stato che si consolida? In realtà quando si parla di affettività, ci troviamo di fronte ad entrambe le cose. Nello stato d’animo abbiamo a che fare con un tempo prolungato, qualcosa che mi accompagna costantemente nel mio modo d’agire e pensare.
Nel Novecento c’è stata una rivalutazione del valore conoscitivo delle emozioni. La parola più consueta è sentimento. Il termine deriva da “sentire”, che indica attività e passività insieme.
Ma io sento altro o sentore stesso? Il sentire è estroflesso o riflesso? E poi, quando sento, sento altro, me stesso o sento di sentire?
Tematizzando i sentimenti, finiamo con il dissolverli. È necessario allora esplorarli in maniera trasversale.
Il termine sentire è molto ampio. Esso non riguarda solo i sensi, ma è anche ciò che ci apre al sentimento.
Il fenomeno del sentire è insieme estroflesso e riflesso. Di più: è sentire altro sentendo sé e sentire sé sentendo altro. Mentre sentiamo altro siamo consapevoli anche di ciò che stiamo facendo, sappiamo di percepirlo. Sono rari i casi in cui questa consapevolezza viene a mancare: in quei casi ci sentiamo rapiti, ci dimentichiamo completamente di noi stessi. In questo senso può essere intesa la mistica. Nella mistica si cerca disperatamente di annullare il rapporto privilegiato con il proprio io in modo da essere assorbiti completamente nell’oggetto. Il mistico mira a immergersi in dio fino a diventare esso stesso dio.
Eckart: “L’occhio con cui vedo Dio è l’occhio con cui lui vede me. Il mio occhio e il suo sono tutt’uno. Se lui non fosse, io non sarei; se io non fossi lui non sarebbe”. C’è un’immedesimazione dell’uomo con Dio. L’esperienza mistica è un’esperienza estrema.
Ma davvero ci dimentichiamo di noi stessi? È possibile una simile fusione, una simile simbiosi con l’altro? Davvero il sentire altro può avvenire senza il sentire sé? Il sentire è un fenomeno ambiguo. Sentire altro è anche sentire sé.
Difatti, come sappiamo che il mistico ha esperito un totale assorbimento in altro?
In virtù di una testimonianza che proviene dal mistico stesso: è il mistico che descrive il suo stato, il mistico che narra la sua esperienza e quindi deve essere ancora presente la consapevolezza di sé: riemerge l’io e quindi in quel momento il mistico non è perduto in altro. È chiaro che io sento altro se e solo se sento altro; sento me se e solo se sento altro. La coscienza è luogo di apertura ad altro, nella misura in cui l’altro si riflette nella mia coscienza.
Shelling:
1.Dogmatismo: l’io rispecchia perfettamente la natura, l’ordine del mondo per orientarsi in esso. Esso ha bisogno di conoscere per uniforma a ciò che c’è già.
2.Idealismo (criticismo): il mondo è orientato e finalizzato a ciò che sono. L’oggetto è tale a partire dalle condizioni del soggetto. I criteri di comportamento dipendono dal soggetto, si trovano nella sua coscienza. Tali criteri variano da soggetto a soggetto.
Queste due posizioni sono fenomenologicamente inadeguate. Sono errate da un punto di vista cognitivo e morale. Nel momento in cui io mi rapporto a me stesso, io mi pongo diverso da quello che sono, mi pongo di fronte a me stesso. E può capitare che nell’introspezione l’io non si non si riconosca nemmeno più.
Il sé è tale solo in rapporto ad altro.
Heidegger: riflessività del sentire.


Il sentimento nella Fenomenologia (1927) di Heiddeger


La fenomenologia prende avvio dall’esame dell’essere. L’essere è il presupposto di ogni rapporto, la condizione di ogni mio comprendere. Heidegger parla dell’autocoscienza morale. Si tratta di qualcosa che va oltre l’esperienza sensibile, è una sorta di spiritualità interiore. Essa è la coscienza della coscienza morale.
Al sentire non appartengono solo le percezioni sensibili, ma anche il piacere o il dispiacere. Il piacere non è solo piacere di o piacere per, ma anche un attivo prendere piacere. L’uomo fa esperienza di sé come di qualcosa che prova piacere, ha consapevolezza del proprio piacere. E quindi l’uomo diviene “compiaciuto”. Nel sentimento si palesa il mio essere; ma il modo in cui io mi sento è determinato anche da ciò che sento. Il sentimento è un sentirsi nell’avere sentimento di qualcosa. Il sentire altro è un mettere in gioco se stessi, e sentire sé è un mettere in gioco il mondo per modificarlo.
Kant affronta tale problema nella “Critica della ragion pratica”. Cos’è che spinge l’uomo a rispettare l’imperativo categorico? È un sentimento puro, un sentimento di rispetto che fa in modo che io rispetti la legge morale. Di fronte alla legge morale io so chi sono: sono al contempo esaltato e umiliato, conosco i limiti e le imposizioni della legge, ma so che io posso aderire a tale legge.
Sentire e sentimento quindi sono al contempo estroflessi ed riflessi. Nel momento in cui sentiamo qualcosa, sentiamo anche noi che sentiamo. Il sentimento consiste nel sentire in noi la legge morale: esso è dato dall’ambiguo intreccio di esaltazione e umiliazione. Il sentimento del rispetto è sentire la presenza della legge morale in me e al tempo stesso, sentire me stesso che provo umiliazione ed esaltazione.
Io sono me stesso solo in quanto sono in rapporto con altro: io sono nella misura in cui mi apro al mondo. L’identità di una persona matura solo se questa si mette in discussione con gli altri: in questo rapporto la persona rischia di perdersi, ma questo è anche l’unico modo per avere una piena consapevolezza di sé.
Don Giovanni è l’esempio di colui che non ha personalità e che finisce per perdersi in altro.
Immediatezza/Mediazione
Ci troviamo di fronte a un’immediatezza o a una mediazione quando parliamo del rapporto con altro?
Il percepire è sempre un gerachizzare: è sempre un porre in primo piano qualcosa, lasciando indietro il resto.
E ciò che pongo in primo piano mi coinvolge immediatamente. Ma se mi concentro su questo mio sentire, attuo una mediazione nell’immediatezza, ovvero una sorta di slittamento dal puro sentire al sentire di sentire.
Nel momento in cui noi avvertiamo uno sfasamento tra il sentire e il sentire di sentire, nasce il linguaggio, la parola. Il linguaggio esprime la mediazione in atto: esso ha il potere di distanziare, di porre un oggetto in un rapporto di mediazione. Solo il linguaggio fa in modo che l’altro sia veramente tale. Nel momento in cui io dico “lavagna”, la fisso come oggetto, la distanzio da me, la oggettivizzo e posso trattare questa cosa in quanto l’ho resa comune a tutti. Il linguaggio da un lato ha il potere di creare il mondo, di distanziare l’altro da me; esso ha anche il potere di rendere comune a tutti il mio sentire. Il linguaggio quindi crea anche l’intersoggettività.
Il mistico non ha mondo e non conosce l’intersoggettività. Ma nella misura in cui scrive della sua esperienza, egli riconquista il mondo. La percezione è l’ambito dell’immediatezza in cui si affaccia la mediazione della riflessione. Ma il linguaggio non serve solo a distanziare: esso ha insieme il compito di gettare ponti tra noi e il mondo.

Tratto da LA FILOSOFIA MORALE: L’AFFETTIVITÀ di Valentina Ducceschi
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