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La differenza tra interpretazione ed analogia della legge penale


La distinzione tra un'applicazione realmente analogica e dunque vietata e una operazione meramente interpretativa e come tale consentita presenta indubbie difficoltà. Tali difficoltà dipendono dalla sostanziale identità strutturale esistente tra i due procedimento interpretativi.
Presupposto indefettibile dell'analogia è la lacuna di disciplina, nel senso che la fattispecie concreta non corrisponde a quella astratta prevista della legge, sussistendo tra le due un rapporto di non identità. Sennonché, la constatazione di questa «diversità» non è il risultato di un accertamento automatico e meccanico, ma consegue ad un procedimento interpretativo della disposizione normativa. L'interpretazione di qualunque testo legislativo muove dal significato linguistico di una espressione normativa che non è mai del tutto univoco, ma presenta di solito un nucleo centrale certo ed un alone marginale relativamente indeterminato.  
Ammesso che interpretatone ed analogia procedano entrambe «per somiglianze, la prima si avrà fino a che l'interprete, nel qualificare il dato reale, si muove all'interno dell'uso linguistico del termine, sia pure nella sua massima estensione; l'analogia oltre tale limite. Es. sarebbe analogia ricondurre alla truffa (art. 640 c.p.) l'approfittamento dell'errore altrui preesistente, visto che l'«induzione in errore» di cui parla la legge, pur nella sua massima estensione linguistica, non può tuttavia prescindere dalla causazione ex novo di un errore prima inesistente.

Interpretazione => è pur sempre collegata al senso delle parole normativamente espresse.
Analogia => presuppone che l’ipotesi concreta non sia in alcun modo riconducibile all’ambito semantico della norma, ma risulti “affine” ad un caso da essa contemplato sulla base di una similitudine sufficiente a postulare l’esigenza di ricorrere ad una medesima disciplina (requisito cd. eadem ratio).

Tratto da DIRITTO PENALE di Beatrice Cruccolini
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