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La responsabilità del terzo per violazione del contratto


In Italia la giurisprudenza si è espressa più volte ampliando la sfera di applicazione della responsabilità alla violazione del preliminare e, da ultimo, del patto di preferenza.
Nel valutare la responsabilità dell’alienante (di natura contrattuale) e del terzo (di natura extracontrattuale) si dà rilievo alla malafede del primo che dispone più volte del medesimo bene, e del secondo che contrae conoscendo l’esistenza di un precedente diritto di altri incompatibile con il suo acquisto.
Il richiamo alla correttezza come criterio selettivo è chiaramente enunciato.
Resta da precisare come la valutazione di buona o mala fede possa essere utilmente richiamata nel nostro caso.
La sola presenza del “fatto contrattuale” non è in grado di discriminare tra un semplice pregiudizio irrilevante e il danno ingiusto che il contraente risente per il contegno di un terzo.
Il problema va allora risolto nell’ambito dell’operazione ove il fatto è ricompreso.
Nella valutazione delle interferenze e dei limiti alla condotta che si verificano per la presenza di un contratto, quest’ultimo non è altro che una situazione/presupposto per il sorgere di nuove ed eventuali conseguenze giuridiche; per la cui realizzazione entrano in gioco altre norme che assumono come elementi di fatto, appunto, la fattispecie ed i contegni che in concreto determinano il verificarsi delle interferenze.
Basta qui osservare che la rilevanza del contratto nei confronti dei terzi è caratterizzata da tre elementi: il titolo, i comportamenti, che nel quadro più ampio dell’operazione giuridica sono riferibili alla sua fase di formazione e di esecuzione, e la norma che attribuisce ad essi delle conseguenze in ordine ai criteri di regolarità dell’azione.
Dal confronto fra questi elementi ed il criterio formale sarà possibile precisare i limiti che gravano sui terzi per la presenza di un atto di autonomia.
È il principio secondo cui i terzi non possono interferire illecitamente nelle posizioni costituitesi in testa ai contraenti per effetto del contratto.
Il ricorso alla mala fede è in grado di selezionare un illecito che si caratterizza proprio per l’esistenza di un fatto, il contratto concluso fra altri, e dei contegni che intorno ad esso si svolgono, tutti soggetti alla regola di correttezza; la quale vieta al venditore di disporre ancora dello stesso, e obbliga il terzo a non interferire nella posizione altrui di cui abbia conoscenza.
È certo che la valutazione di illiceità non può svolgersi al di fuori di un interesse generale nel quale rientra la libera circolazione dei beni.
Dubbio è che questo sia l’unico parametro cui attenersi.
In una società che non riconosce più un sistema di valori stabili e coerenti non è facile giustificare oggettivamente la prevalenza di una o di un’altra valutazione; l’unico criterio interpretativo serio e rigoroso deve sottostare al bilanciamento fra valori e principi ricavabili nel sistema.
Se è così, libertà e sicurezza da un lato, e moralità dall’altro, sono principi che l’interprete deve assieme considerare e presupporre alla sua analisi.
Non si può confondere il giudizio di opponibilità dell’atto e di responsabilità del terzo.
In un caso la valutazione serve a statuire l’efficacia immediata e prevalente di un acquisto compiuto nel rispetto della legge di circolazione, nell’altro, ai soli fini risarcitori, si valuta, ai sensi dell’art. 2043 c.c., un comportamento in mala fede dell’acquirente (tale giudizio non incide affatto sulla conformazione della proprietà).

Tratto da DISCIPLINA GIURIDICA DEI CONTRATTI di Stefano Civitelli
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