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Diritto alla tutela penale e costumi religiosi


La cultural defense ha fatto breccia davanti ad alcuni giudici americani in processi per reati commessi da immigrati, assolti o condannati a pene irrisorie per reati di omicidio, lesioni gravi, violenza sessuale, giustificati in genere con la conformità di quelle condotte a costumi consacrati dal tempo nei rapporti familiari vulnerati dall’infedeltà di uno dei coniugi.
Il diritto alla tutela penale, comunque, in Europa non può arrestarsi di fronte a motivazioni asseritamene culturali o religiose della condotta illecita: il motivo culturale o religioso di un fatto costituente reato non ne elimina, infatti, l’antigiuridicità.
Non si può pretendere di condizionare o menomare l’obbligatorietà delle leggi deducendo la rilevanza di un precetto a esse estraneo.
Tale orientamento corrisponde ad una concezione del diritto penale improntato al principio di laicità.
L’esperienza maturata in occasione di leggi come quella sulla violenza sessuale, dimostra che a tal fine la norma di per sé non è sufficiente e anzi viene vissuta come autoritaria e discriminatoria se non preceduta e accompagnata da un dibattito pubblico tale da coinvolgere come partecipanti attivi tutti gli attori rilevanti: a cominciare nel caso delle comunità cultural-religiose in cui le mutilazioni si praticano.
In ogni caso, il saldo positivo del rapporto costi-benefici è conseguibile soprattutto con la prontezza e la dolcezza delle pene e con la loro graduazione.
Verrebbe percepita come ingiustificatamente vessatoria una pena che intervenga a notevole distanza di tempo, quando la vittima ha rielaborato psicologicamente la sua condizione e magari ne ha verificato l’effetto positivo dell’inserimento pieno nella sua comunità culturale.
Una pena troppo elevata, peraltro, potrebbe contribuire, con una dinamica simile a quella riscontrata nella penalizzazione dell’aborto prima della l. 194/78, all’ancora maggiore “clandestinizzazione” delle condotte.
Un apparato sanzionatorio, infine, non graduato in ragione dell’invasività, dell’ampiezza e del movente delle varie forme di escissione, integrerebbe gli estremi piuttosto di una “legge-manifesto” di alto valore simbolico per la collettività di accoglienza, ma di scarsa o nessuna efficacia al fine di una strategia preventiva di azione sociale dissuasiva.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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