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Rapporti tra ordine giuridico delle confessioni religiose e ordine statale


Il concetto di “ordine proprio” delle confessioni, distinto da quello statale, cioè delle “questioni civili” e “dell’esperienza religiosa”, fa il resto.
Il criterio di convergenza, sul quale di regge il modello di protezione giuridica del concordato e delle intese, presuppone in tesi appunto la separazione e la divergenza degli ordini, che vieta a ciascuna delle parti di assumere lo stesso punto di vista dell’altra e ne prevede solo in ipotesi la possibilità di incontro e convergenza su questioni particolari individuate negli accordi con la Chiesa cattolica e nelle intese con tutte le altre confessioni.
Queste convenzioni sono volte ad individuare punti di collegamento tra ordinamenti originari in principio separati, la maggior parte di rapporti tra i quali registra una divergenza derivante dall’indipendenza degli ordini, e quindi dalla diversità radicale dei valori propri delle confessioni rispetto all’ordine dello Stato.
Il riconoscimento dell’”autonomia istituzionale” delle confessioni religiose comporta, di conseguenza, il divieto di ingerenza statale nell’esercizio del loro potere di governo e di giurisdizione sui propri fedeli, semplici o qualificati (ministri di culto) che siano.
Il principio è espressamente affermato nell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense e nelle intese.
Ma in realtà anche questo principio è un corollario del riconoscimento costituzionale dell’autonomia confessionale.
Di qui la regola del difetto di giurisdizione dello Stato sui provvedimenti di carattere disciplinare in materia spirituale adottati dalle confessioni nei confronti dei propri fedeli.
Per la tutela dei propri diritti essenzialmente confessionali, i fedeli devono esperire i rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento confessionale di appartenenza, “senza poter mai ricorrere allo Stato per ottenere il suo intervento di supplenza”.
Le Sezioni Unite della Cassazione si sono spinte oltre e hanno affermato il difetto di giurisdizione anche nei confronti di provvedimenti di espulsione adottati (non dalla confessione, ma) da una confraternita, perché anche in tal caso lo Stato “non vuole interferire nell’attività di religione o di culto, né nell’esplicazione dei poteri degli organi statutari”: conclusione inaccettabile nei confronti di un ente ecclesiastico che, seppur avente un fine esclusivo o prevalente di culto, rientra nel novero delle associazioni ed è soggetto in parte alle leggi civili.
Il provvedimento disciplinare in materia religiosa appare così generalmente e strutturalmente inidoneo ad integrare gli estremi del danno ingiusto giustiziabile innanzi agli organi dello Stato.
E ciò anche sotto il profilo penale, tant’è che la minaccia di un provvedimento disciplinare non integra il reato di minaccia proprio perché non riguarda un danno ingiusto.
Non mancano, tuttavia, le eccezioni alla regola del difetto di giurisdizione sui provvedimenti confessionali in materia spirituale e disciplinare.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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