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Articolo 13: "verità di ragione" e "verità di fatto"

Prima di procedere oltre, Leibniz tenta di risolvere un problema che può scaturire dai fondamenti posti. Si è detto che la nozione di sostanza individuale racchiude virtualmente in sé tutto ciò che le potrà accadere, e che, considerando tale nozione, vi si può scorgere tutto ciò che si potrà enunciare con verità di essa, così come nella natura del cerchio possiamo scorgere tutte le proprietà che se ne lasciano dedurre. Sembra con ciò che la differenza tra verità necessarie e contingenti sia distrutta, che la libertà umana non abbia più alcun luogo e che una fatalità assoluta debba regnare su tutte le nostre azioni, così come sul resto degli avvenimenti del mondo. Per rispondere a questo problema bisogna innanzitutto distinguere ciò che è certo da ciò che è necessario. I futuri contingenti sono certi, poiché Dio li prevede, ma ciò non significa che siano necessari. Essi sono necessari ex hypothesi, ovvero per supposizione, dal momento che il loro contrario non implica contraddizione e poteva essere realizzato da Dio qualora Egli avesse deciso di attualizzare un altro degli infiniti mondi possibili. Gli eventi che hanno caratterizzato la vita di Giulio Cesare sono indiscutibilmente “certi”, come ci insegna la storia. Considerati nel loro complesso, essi costituiscono la nozione completa della sua sostanza individuale e la loro effettiva realizzazione è razionalmente motivata. Vi è quindi una ragione per cui Cesare ha attraversato il Rubicone piuttosto che fare il contrario, e vi è una ragione anche per il fatto che abbia vinto la battaglia di Farsalo piuttosto che l’abbia persa. Ma tali eventi non sono “necessari” in se stessi. Essi si sono realizzati perché Dio, nella scelta del mondo da portare all’esistenza, ha scelto, secondo ragione, il migliore dei mondi possibili in cui era inquadrata una determinata nozione di Giulio Cesare. L’attribuzione a Cesare di determinati predicati, dunque, non è assoluta, ma dipende dalle scelte compiute da Dio secondo ragione. Ogni “verità di fatto” fondata sui decreti divini è di natura contingente, nonostante essa sia certa: a seguito del decreto, la somma degli eventi attribuiti a una sostanza individuale non muta affatto nel sistema di riferimento del migliore dei mondi possibili. Tuttavia, nonostante Dio scelga sempre il meglio, ciò non toglie che ciò che è imperfetto rimanga possibile in sé, anche se non avverrà mai, perché non la sua impossibilità, ma la sua imperfezione fa si che sia respinto. Per le realtà contingenti, dunque, è sempre possibile, almeno in linea di principio, il loro opposto.
Ciò non vale per le verità eterne della matematica (“verità di ragione”): esse sono necessarie in qualunque degli infiniti mondi possibili, perché il loro opposto implica contraddizione. Tali verità non sono create da Dio (come voleva Cartesio), ma sono coeterne a Dio, costituiscono la sua stessa essenza e ad esse Dio si conforma necessariamente, in quanto non potrebbe mai contraddire la sua stessa essenza.
Sia la libertà umana che quella divina vengono salvaguardate: non vi è libertà maggiore per Dio che agire secondo ragione, e non vi è libertà maggiore per l’uomo che agire secondo i decreti divini. Libertà umana e divina coincidono in questo senso.

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