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La traducibilità del Novecento


Il Novecento si dedica soprattutto al problema della traducibilità. La poesia è la forma assolutamente più difficile da tradurre. Croce riprende ciò che diceva Dante. Robert Frost dice che la poesia è ciò che si perde nella traduzione. Roman Jakobson dice che dato che è il suono a semantizzare la poesia, essa è intraducibile per natura. Croce tuttavia ammette l'utilità della traduzione e ne distingue due tipi: quella prosastica che serve a dare una vaga idea della poesia originale e la traduzione che ha valore artistico in sé.
Ortega y Gasset continua sulla stessa linea dicendo che la traduzione è un'utopia perchè anche quando si parla non diciamo ciò che vogliamo dire ma solo una parte perchè non siamo in grado di esprimere il nostro pensiero completamente. Ortega riprende Humboldt e la sua teoria della non corrispondenza di vocaboli sinonimici in lingue diverse (dio in basco e in spagnolo, bosco in tedesco e in spagnolo). La traduzione è però importante perchè pur non coincidendo più con il testo tradotto, mette in rapporto il presente con il passato, allontana l'uomo dalla lingua di oggi e lo porta verso quelle di ieri, insegnandogli il senso della storia, l'unica via di scampo alla limitatezza dell'attualità.
Contrario è invece Walter Benjamin che sostiene che la traducibilità non sono è possibile ma costituisce addirittura la condizione ideale di certe opere, che solo attraverso la traduzione rivelano il loro significato. La traduzione tende all'espressione del rapporto più intimo delle lingue fra loro.

Tratto da LETTERATURE COMPARATE di Gherardo Fabretti
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