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Tra il modernsimo e il postmodernismo, J. Ashbery e A. Zanzotto




L'abbassamento del letterario e l'innalzamento del massmediale segnano lo spartiacque tra il modernismo e il postmodernismo. La lingua dei giornali, delle televisioni, delle canzoni pop è il nuovo linguaggio dei personaggi. Le loro vite si costruiscono come in un montaggio cinematografico. Le storie procedono a salti e vuoti, fuori da qualsiasi idea di sviluppo cronologico. L'ordine degli eventi è quello dell'ordine che si trova nella pagina.
John Ashbery è un poeta oscuro. I suoi testi sono collage di frasi riportate, di ricordi, di citazioni nascoste, di associazioni mentali e giochi di parole. Rare le citazioni colte o le parole auliche. Usa il linguaggio dei mass media. Identità e immedesimazione dell'io lirico non esistono. Il poeta è un ascoltatore. Le voci si alternano e si confondono. Non un singolo testo coincide con una singola voce.
Andrea Zanzotto è un postmodernista platonista, legato ancora ad una idea di bellezza sopravvissuta allo scempio, come nella Beltà, del 1968, la sua più importante raccolta. La scrittura zanzottiana è una inesausta e inappagabile smania di regole formali, unita ad un ascolto continuo delle voci interiori e degli idiomi più diversi, che porta la sua scrittura sulle vie più intentate dell'esplorazione linguistica con effetti di straniamento, doppiaggio, camaleontismo. Sonda il vocabolario, la sintassi, la metrica e l'immaginazione poetica. Entra in dialogo con passato, presente e futuro. La poesia diventa voce dei luoghi, riconoscimento dell'arcaico al di là delle deformazioni della civiltà post – industriale.

Tratto da LETTERATURE COMPARATE di Gherardo Fabretti
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