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Giovanni Pascoli – Il gelsomino notturno


Il metro è comunissimo in Pascoli, quartine di novenari a rime alternate; eppure il ritmo varia, con quella regolarità che così spesso in Pascoli maschera o riassorbe l'eccezione. Infatti nel primo distico di ogni quartina i novenari hanno sempre la scansione di seconda – quinta, la più tipica di Pascoli, ma nel secondo distico, rientrato nell'originale, il ritmo diviene quello cosiddetto trocaico, di prima – terza – quinta; anzi il secondo distico della quarta strofetta è scandito secondo una variante del trocaico, prima – terza – sesta, il che avviene precisamente in connubio col maggiore ardimento figurale della poesia, la metafora e sinestesia protratta per cui, ricondotta la Chioccetta al suo senso proprio, l'aia è il cielo e il pigolìo è, sinesteticamente, lo strascico puntiforme di stelle. Ne viene globalmente un contrasto fra la testa delle quartine, più cantabile e distesa, e che, dato il ritmo, più facilmente ospita sdrucciole,  e la coda, più lenta e chiusa, cui quasi sempre sono affidati i momenti più misteriosi della lirica.
Secondo un costume d'epoca, è una poesia per nozze, dapprima pubblicata appunto in un opuscolo nuziale, che Pascoli ha lungamente elaborato a partire da stesure in prosa. Al suo centro sta il motivo della fecondazione, ma svolto, pur entro quella regressione psicologica individuata da Debenedetti, con un acuto simbolismo erotico connotato anzitutto dal tratto sensuale dell'odore e forse anche da quello dell'aprirsi dei fiori: tale simbolismo assume in sé, e nello stesso tempo vela, l'occasione e si svolge lungo una catena di pregnanti immagini metaforiche: una casa che bisbiglia, gli occhi sotto le ciglia, la Chioccetta, i petali gualciti, l'urna molle e segreta.
Per forza erotica il Gelsomino notturno va accostato alla Digitale purpurea.
Tutto nel Gelsomino è affidato al potere evocativo degli oggetti e delle creature che sono, senza eccezione alcuna, i soggetti delle frasi; frasi brevi o brevissime, di uno o due versi, giustapposte nell'ordina successivo, ma franto, delle sensazioni, come per riquadri. È una grande e suggestiva partitura di oggettivazione simbolica, non inferiore a quelle del maggiore simbolismo europeo, che tuttavia Pascoli, come gli accade, non sa condurre proprio fino in fondo: subito al v.2 si affaccia, e ci appare come una mezza stecca, l'intrusione autobiografica nell'ora che penso a' miei cari; tuttavia è giusto dire che è questo riferimento a garantirci che lo scrivente non guarda a quelle epifanie dal di fuori, ma le vive dal di dentro, partecipe eppure escluso, come forse alludono i vers dell'ape che non trova più una sua cella e lo stesso verso finale, quel non so che da non intendersi come cifra dantesco – tassiana o romantica, ma come ulteriore segnale dell'esser – fuori: e chi allargherà le letture vedrà facilmente che il tema dell'esclusione, col suo rovescio o complemento della protezione, è non meno che fondamentale in Pascoli. La scena è compresa nel tragitto fra la notte e l'alba, ciò che è segnato anche dalla contrapposizione fra inizio e fine di s'aprono e si chiudono, tuttavia con momenti di sosta rappresentati soprattutto dall'evidente parallelismo della terza e quinta strofa, formate da tre su quattro versi similari, e, come si vedrà, una rima comune: o meglio dal contrappunto tra uno sviluppo temporale collocato all'esterno e uno collocato all'interno, a seguire il tragitto del lume che sale dalla sala alla stanza da letto.
Ma eccezionalmente la lirica inizia con una E che indica, come è stato definito felicemente, la continuità del detto col non detto. Questo attacco, in unione ad una coordinazione d'ora in poi sempre asindetica, garantisce alla prima scenetta naturale il valore di un “improvviso” e insieme il ruolo protagonistico dei fiori notturni. Accompagnatore significativo ne è, come già detto, il motivo dell'odore, e inoltre quello del lume, che come accennato non solo si ripetono ma portano con sé eccezionalmente la ripetizione di una stessa parola – rima e relativo accompagnamento con voci assai simili (sala, scala) in versi di uguale o analoga fattura, specie 11 e 19.

Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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