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La crisi del sindacato unitario


Tra l'autunno '45 e la primavera '46, la convivenza fra le tre maggiori correnti sindacali della CGIL si fece sempre più difficile.
Gli organi collegiali della DC (e lo stesso De Gasperi) richiamarono più volte i sindacalisti cattolici affinché rafforzassero la loro identità culturale e organizzativa nel sindacato unitario.
Al contempo il risultato elettorale del giugno '46 che no rispondeva alle aspettative togliattiane di leadership comunista della sinistra di classe accentuò la pressione del PCI sul sindacato.
L'obiettivo di Togliatti era quello di conservare la presenza del PCI nel governo ma nello stesso tempo rafforzare la capacità di mobilitazione comunista nel paese: lo strumento per questo scopo era il sindacato. Infatti, fu lo stesso leader comunista a chiedere nel novembre '46 la fine del principio di pariteticità negli organi direttivi del sindacato e la loro composizione secondo il criterio della rappresentanza proporzionale alle correnti.
Il criterio della pariteticità aveva operato all'interno dei CNL per la lotta unitaria antifascista. È evidente che il superamento di questo criterio avrebbe accentuato le tensioni interne in quanto diretto ad affermare la leadership sindacale comunista. Inoltre, cominciava a divenire cruciale la questione dell'art.9 dello Statuto della CGIL che attribuiva al sindacato la possibilità di azione politica anche tramite scioperi o di protesta o a sostegno di determinati indirizzi politici e conferiva ad esso la possibilità di divenire strumento di mobilitazione a sostegno della lotta di un partito politico. In quel momento storico l'alleanza obbligata ma conflittuale tra DC, PC e PSIUP, rendeva cruciale l'uso di un potente strumento di mobilitazione delle masse come il sindacato.

Inoltre, bisogna considerare che tra la fine del '46e i primi mesi del '47, il confronto fra le correnti sindacali ruotò attorno alla definizione costituzionale della natura del sindacato e sul diritto di sciopero. L'art.39 della Cost. fu il terreno di scontro decisivo fra le tre correnti sindacali.
Il primo problema fu la veste giuridico-istituzionale del sindacato per la quale i cattolici ipotizzavano l'iscrizione obbligatoria mentre i comunisti desideravano fosse libero, privo di veste istituzionale, associazione di fatto indipendente dallo stato e dotata di libertà di sciopero (Di Vittorio auspicava anche la separazione fra azione sindacale e azione di partito ma Togliatti era contrario).
La seconda questione riguardava la capacità di firmare i contratti collettivi di lavoro: i comunisti intendevano riservarla al sindacato che rappresentasse la maggioranza assoluta dei lavoratori; i sindacalisti cristiani rifiutavano questa tesi perché da essa sarebbe scaturita la preminenza certa ai comunisti.
La soluzione fu un compromesso con la rinuncia dei sindacalisti cattolici al sindacato obbligatorio di diritto pubblico e l'abbandono da parte dei comunisti del principio maggioritario: l'art.39 rispecchia questa soluzione sia nei primi due commi sia nell'ultimo.

In sede di Costituente anche l'art. 40, che doveva regolare il diritto di sciopero, fu oggetto di contrasti: Di Vittorio aspirava alla completa libertà di sciopero mentre i cattolici, preoccupati per un suo uso come strumento di lotta politica, intendevano regolarlo soprattutto nel settore dei servizi pubblici. Alla fine prevalse la formulazione di La Pira che pur garantendo il diritto, ne rinviava l'applicazione alla legislazione ordinaria.

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