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Claudio Monteverdi e la musica monodica barocca


Il lavoro di Claudio Monteverdi segna più di ogni altro il passaggio dalla musica rinascimentale polifonica a quella monodica barocca. Nel corso della sua lunga vita ha prodotto opere che possono essere classificate in entrambe le categorie, e fu uno dei principali innovatori che portarono al cambio di stile.
Seguendo il movimento generale dell’epoca, basato sulla concentrazione espressiva della singola voce, aveva fatto proprie le nuove teorie secondo le quali la musica doveva illustrare i contenuti espressivi della parola, potenziandoli e traducendoli in immagini sonore. Per dirla come lui: l’armonia serva dell’orazione.
L’evoluzione dell’opera monteverdiana si dipana nel periodo del suo soggiorno a Mantova, presso i Gonzaga. Tra il 1587 e il 1606, Monteverdi pubblica cinque libri di madrigali, ancora polifonici e concepiti secondo la logica cinquecentesca, ma rivelanti elementi di forte originalità. Nel primo libro emergono inaspettati ritmi di danza, di fresca ispirazione popolaresca, o atmosfere arditamente sensuali, come quelle di Baci soavi e cari, sul testo del famoso Guarini. Nel secondo e nel terzo, confrontandosi spesso col Tasso, fa emergere con evidenza la singola voce, continuando la ricerca di individualità solistiche nel quarto libro.
Ma è nel quinto libro, del 1605, che si apre pienamente l’ideale Monteverdiano di una musica che non si chiuda mai nel gioco astratto dei rapporti sonori, ponendosi invece come manifestazione e riproduzione delle passioni umane. È in questo libro che si riassume compiutamente la seconda pratica, col basso continuo (che favorisce l’impiego di dissonanze senza preparazione, grazie alla sua chiara indicazione armonica) e lo stile concertato, che contrappone il solista al coro o gruppi di voci di diverso peso, registro e timbro, creando una atmosfera drammatica, caravaggesca.
Nell’Orfeo Monteverdi riversa tutta l’esperienza accumulata con la composizione dei madrigali, aggiungendovi la sontuosità e la spettacolarità tanto desiderata dal suo protettore, il duca Vincenzo, senza che venisse meno l’armoniosità del macro testo, servito benissimo dal libretto di Alessandro Striggio figlio. L’Orfeo alterna magistralmente pregnanti episodi in stile recitativo, andamenti madrigalistici e strofici, cori con o senza dance, brani di grande virtuosismo vocale.
Il finale a lieto fine, in vece dell’uccisione di Orfeo da parte delle Baccanti del libretto di Striggio, è da considerarsi come funzionale alla riuscita pubblica dell’opera. Monteverdi supera il recitar cantando della Camerata, e non è difficile da vedere se si confronta l’Orfeo con la Dafne di Marco da Gagliano, su libretto di Rinuccini.
Nel 1608 esce anche Il ballo delle ingrate, sempre su libretto di Rinuccini, unico esempio sopravvissuto (perché inserito nell’ottavo libro dei madrigali) di balletto di corte, un misto di danza e canto sullo sfondo di prodigiosi meccanismi scenici e sfarzosi costumi.
Nel 1614 esce un sesto libro di madrigali, in cui Monteverdi affianca a composizioni con solo basso continuo, madrigali concertati arricchiti da un elaborato impiego della monodia. Nell’ultimo madrigale aumenta a sette il numero di voci, accentuando i caratteri barocchi del pezzo coi testi del Marino (usati anche nei precedenti tre testi).

Tratto da STORIA DELLA MUSICA di Gherardo Fabretti
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