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Dalla gravidanza all'infanticidio: psicologia e psicopatologia della maternità

Atto di violenza estrema, “contro natura”, inaccettabile, l’assassinio dei figli, proprio per il contrasto fra la quotidianità rassicurante del contesto e l’efferatezza del gesto, è spesso e volentieri sezionato dalla cronaca, prima con morbosa curiosità (le interviste ai vicini: “una donna gentile, una madre affettuosa, nessuno screzio in famiglia, niente che potesse far pensare...”) poi con costernata, semplicistica estraneità, magari infarinata di formule pseudo-psichiatriche (“un raptus”, “era in cura per depressione”) o pseudo-sociologiche (“solitudine, ignoranza, povertà”).
Formule generiche, superficiali, dovute all’incapacità di decifrare un orrore tanto grande nei pochi minuti o nelle poche righe di un servizio di cronaca, formule che però sembrano quasi fatte apposta per alimentare il panico che la notizia dell’assassinio di un figlio da parte di una giovane madre inevitabilmente suscita, specialmente nel pubblico femminile.
Accostare il concetto di “madre” a quello di “assassina” del proprio figlio costituisce, infatti, nella nostra cultura, una terribile contraddizione di termini.
Il figlicidio è un gesto del tutto incomprensibile, un delitto ad alta visibilità sociale che provoca allarme, timore, condanna e stupore ed evoca inquietanti fantasmi.
Ma quanto c’è di folle in una madre che sopprime una vita che lei stessa ha generato? Quali sono le motivazioni profonde che spingono una donna ad uccidere il proprio figlio?

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1 INTRODUZIONE Atto di violenza estrema, “contro natura”, inaccettabile, l’assassinio dei figli, proprio per il contrasto fra la quotidianità rassicurante del contesto e l’efferatezza del gesto, è spesso e volentieri sezionato dalla cronaca, prima con morbosa curiosità (le interviste ai vicini: “una donna gentile, una madre affettuosa, nessuno screzio in famiglia, niente che potesse far pensare...”) poi con costernata, semplicistica estraneità, magari infarinata di formule pseudo-psichiatriche (“un raptus”, “era in cura per depressione”) o pseudo-sociologiche (“solitudine, ignoranza, povertà”). Formule generiche, superficiali, dovute all’incapacità di decifrare un orrore tanto grande nei pochi minuti o nelle poche righe di un servizio di cronaca, formule che però sembrano quasi fatte apposta per alimentare il panico che la notizia dell’assassinio di un figlio da parte di una giovane madre inevitabilmente suscita, specialmente nel pubblico femminile. Accostare il concetto di “madre” a quello di “assassina” del proprio figlio costituisce, infatti, nella nostra cultura, una terribile contraddizione di termini. Il figlicidio è un gesto del tutto incomprensibile, un delitto ad alta visibilità sociale che provoca allarme, timore, condanna e stupore ed evoca inquietanti fantasmi. Ma quanto c’è di folle in una madre che sopprime una vita che lei stessa ha generato? Quali sono le motivazioni profonde che spingono una donna ad uccidere il proprio figlio?

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Informazioni tesi

  Autore: Antonia Amodeo
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2005-06
  Università: Università degli Studi di Palermo
  Facoltà: Scienze della Formazione
  Corso: Psicologia clinica
  Relatore: Alessandra Salerno
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 126

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Parole chiave

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attaccamento materno
baby-blues;
criminalità femminile
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