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l’eventuale area cerebrale responsabile della commutazione e riportando a questo proposito le 
più recenti acquisizioni.  
 
 
1. Il bilinguismo 
 
1.1. Descrizione e definizioni del fenomeno 
 
Nell’indagine sul fenomeno del bilinguismo è importante tener presente che esso – 
contrariamente alla visione comune – costituisce la norma piuttosto che l’eccezione. 
    In passato il monolinguismo è stato associato spesso all’identità nazionale unica, e solo 
recentemente si è iniziato a considerare che la diffusione di una lingua non corrisponde ai 
confini politici o nazionali di un territorio (Kess, 1979: 233).  In conseguenza a ciò linguisti 
come François Grosjean hanno fatto notare che più della metà della popolazione mondiale è 
bilingue: “Bilingualism is present in practically every country in the world, in all classes of 
society, in all age groups; in fact, it has been estimated that half the world’s population is 
bilingual” (1982). Sia da questo punto di vista, che da quello delle predisposizioni della specie 
umana di acquisire ed utilizzare diverse lingue possiamo dunque sostenere che il bi- o 
multilinguismo costituisca la norma. 
    Con il sostegno delle recenti scoperte dei ricercatori, soggetti che oltre ad una lingua 
nazionale conoscono anche un dialetto non possono essere considerati come monolingui. In 
effetti i dialetti costituiscono dei sistemi linguistici a sé stanti – con restrizioni a volte 
sull’asse diamesico – e non vengono più considerati come parlate ‘primitive’. Come afferma 
Noam Chomsky (1981), “un linguista che non sa nulla dei confini o delle istituzioni politiche 
non distinguerebbe le ‘lingue’ dai ‘dialetti’ come si fa nell’uso ordinario”. Infatti, dal punto di 
vista linguistico, anche la lingua standard non è che un dialetto riconosciuto politicamente e 
socialmente come lingua ufficiale.  
    Bisogna inoltre considerare che si possono trovare fenomeni che si avvicinano 
notevolmente alle dinamiche del bilinguismo anche in casi di monolinguismo, in quanto ogni 
lingua presenta alternanze nelle forme linguistiche, come i fenomeni di variazione 
sociolinguistica. Ciò significa che il modo di esprimersi è scelto in relazione alla situazione, 
all’interlocutore ecc. (Moretti e Antonini, 2000: 37). 
    Dal punto di vista sociolinguistico, “per bilinguismo si intende la compresenza in un 
repertorio di due lingue (Abstandsprachen) diverse” (Berruto, 1995). A seconda del rapporto 
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tra le due varietà linguistiche si parla di bilinguismo o di diglossia. Come affermano Giorgio 
Graffi e Sergio Scalise (2002: 237), si ha una situazione di bilinguismo quando tutti i parlanti 
padroneggiano le due varietà e una situazione di diglossia quando le due varietà sono usate in 
modo complementare; una varietà ha uno statuto socioculturale più ‘alto’ e l’altra uno statuto 
più ‘basso’.  
    L´attenzione viene ora rivolta al bilinguismo individuale, ovvero alla compresenza di due 
codici linguistici in uno stesso parlante. Secondo il neurolinguista Franco Fabbro, “un 
soggetto è bilingue se conosce, comprende e parla: a) due lingue, oppure b) due dialetti, 
oppure c) una lingua e un dialetto” (1996: 116-117). Sul soggetto bilingue esistono tuttavia 
numerose definizioni, le quali variano molto tra di loro, soprattutto per quanto riguarda il 
livello di padronanza. Haugen (1953) ad esempio usa il termine per denotare tutte le situazioni 
in cui una persona usa due lingue, indipendentemente dal livello di padronanza. MacNamara 
(1967) propone addiritura la seguente definizione: “Bilingue è chi possiede una competenza 
minima in uno dei seguenti quattro compiti linguistici: comprensione, produzione orale, 
lettura, scrittura in una lingua che non sia la lingua materna”. Altri studiosi come Bloomfield  
invece considerano il bilinguismo individuale come “the native-like control of two languages” 
(1933: 56). Tra le definizioni classiche italiane si può ricordare quella di Renzo Titone: “Il 
bilinguismo consiste nella capacità da parte di un individuo di esprimersi in una seconda 
lingua aderendo fedelmente ai concetti e alle strutture che a tale lingua sono propri, anziché 
parafrasando la lingua nativa” (1972: 13).  
    Sembra allora che “il fenomeno bilingue come stato e come processo è di tale complessità 
che non può essere ridotto a una semplice definizione né compreso da una semplice 
descrizione” (Titone, 1995: 9). Bisogna quindi considerare il bilinguismo un continuum di 
abilità: ad una estremità vi sono i monolingui e, all’altra, i bilingui capaci di parlare in 
maniera perfettamente scorrevole e simile al proprio linguaggio nativo anche un’altra lingua. 
Inoltre si può constatare che il valore del termine tende ad essere relativo dal punto di vista 
del valutatore. Spesso il bilingue tende ad autovalutarsi in modo severo a causa di aspettative 
troppo alte e dunque a non ritenersi bilingue. Per un individuo monolingue appare invece più 
semplice considerare altre persone bilingui.  
    Queste considerazioni hanno portato alla necessità di classificare e valutare il parlante 
bilingue secondo vari gradi di competenza e di considerare diverse tipologie di bilinguismo. I 
parametri che vengono riportati in seguito si riferiscono all’età di acquisizione, agli ambienti 
in cui è avvenuta l’acquisizione e alla frequenza con la quale le due lingue vengono usate.  
 
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1.2. Gradi di competenza 
 
Il fatto che non tutti i bilingui arrivino allo stesso grado di competenza in entrambe le lingue 
ha motivato la ricerca a coniare e definire denominazioni differenti per i vari tipi (viene fatto 
riferimento a Moretti e Antonini, 2000). 
    Vengono classificati quattro livelli di competenza, dall’ambilinguismo (o “bilinguismo 
perfetto”) da una parte al semilinguismo dall’altra. I due livelli centrali, ovvero il bilinguismo 
equilibrato e il bilinguismo non equilibrato, colgono la maggior parte dei casi di bilinguismo. 
Il livello più alto di competenza, l’ambilinguismo, caratterizza una persona che è in grado di 
funzionare ugualmente bene in entrambe le lingue in tutti i contesti e senza tracce di una 
lingua nell’uso dell’altra. Questo tipo di bilinguismo è piuttosto raro, e il termine alternativo 
“bilinguismo perfetto” indica l’irrealtà del termine, in quanto “è altrettanto insensato quanto 
parlare di un monolinguismo perfetto” (Moretti e Antonini, 2000: 51).  
    Assai più realistico e frequentemente riscontrabile è il bilinguismo equilibrato (o 
“equilinguismo”). Questa definizione mette l’accento sulla conoscenza molto avanzata in 
entrambe le lingue, simile a quella di un parlante nativo. A differenza del livello precedente 
però si possono trovare influenze reciproche e capacità di sfruttare il contatto tra le lingue per 
scopi comunicativi. Di norma questo tipo rappresenta il “bilingue prototipico”, ovvero colui 
che ha due lingue materne. 
    Al calare della competenza in una delle due lingue si arriva man mano alla categoria del 
bilingue non equilibrato (o non fluente), definito come colui la cui competenza in una delle 
due lingue è notevolmente inferiore a quella di un corrispondente monolingue. A questo 
proposito è importante tener presente che spesso le due lingue vengono usate in ambienti o 
contesti diversi. Ne consegue che esse vengono possedute in modo migliore nei rispettivi 
domini, o che una delle due sia impiegabile in un numero maggiore di situazioni. È 
fondamentale in questo caso il concetto di “dominanza”, il quale viene discusso più avanti.  
L’ultimo livello sulla scala qui riportata, il “semibilinguismo”, descrive il caso problematico 
in cui un parlante “non sa bene né una lingua né l’altra” (Moretti e Antonini, 2000: 53). 
Secondo gli autori, questo termine va però rifiutato nelle sue correlazioni con il bilinguismo, 
in quanto ha a che fare con la problematica generale dell’accesso ai compiti linguistici 
superiori, e propongono che il concetto con il quale si dovrebbe lavorare sia piuttosto quello 
di “semi-alfabetizzati” o “semi-scolarizzati”.  
    Facendo queste classificazioni bisogna annotare che è impossibile definire il grado di 
perfezione a cui un buon parlante straniero diviene bilingue (Titone, 1972: 14). Inoltre, non 
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tutti i parlanti nativi sono egualmente sensibili e non tutti posseggono la medesima ricchezza 
di vocabolario o la medesima versatilità nella scelta delle strutture.  
    In aggiunta va notato, come sottolinea Mackey (1962), che la valutazione del grado di 
abilità dei bilingui deve prendere in considerazione la loro padronanza delle quattro capacità 
di comprensione orale, espressione orale, comprensione scritta ed espressione scritta, perché 
la padronanza di una certa area non significa automaticamente la capacità anche delle altre. 
Molti parlanti possono essere considerati bilingui per quanto riguarda l’espressione e la 
comprensione orale, ma a causa di mancanza di allenamento possono non avere alcuna 
capacità nella comprensione o nella espressione scritta (un caso tipico è rappresentato dalla 
maggior parte dei parlanti delle lingue amerinde nel Nord America). Oppure, vi sono parlanti 
che dominano perfettamente la sintassi e il vocabolario delle due lingue ma la pronuncia 
soltanto di una (Titone, 1972: 14). Esistono anche casi in cui una persona può avere una 
buona competenza in un settore particolare della lingua, come per esempio nel sottocodice 
dell’informatica, ma non essere in grado di leggere fluentemente un romanzo nella stessa 
lingua (Moretti e Antonini, 2000: 50). 
    Considerando tutte queste restrizioni risulta difficile classificare i parlanti bilingui,  perciò 
molti studiosi hanno cercato di distinguere questi soggetti in base all’età di acquisizione delle 
due lingue, attribuendo importanza a due opzioni: se le due lingue sono state apprese 
simultaneamente o se la seconda è stata appresa solo successivamente. 
 
1.3. Bilinguismo precoce e bilinguismo tardivo 
 
Questa importanza proviene dalla distinzione fondamentale dei concetti di acquisizione e 
apprendimento, in quanto coincidono spesso – ma non sempre – con il bilinguismo precoce e 
il bilinguismo tardivo.  
 
1.3.1.  Acquisizione e apprendimento 
 
Come scrive Franco Fabbro, l’acquisizione di una lingua viene effettuata con modalità 
naturali, in un ambiente informale e con il coinvolgimento soprattutto della memoria implicita 
(1996: 120). O, per citare Krashen (1985) il processo avviene a livello subconscio. 
L’apprendimento di una lingua, invece, si realizza prevalentemente con modalità formali, cioè 
per regole, spesso in un ambiente istituzionale e quindi a livello conscio e con un incremento 
delle conoscenze esplicite sulla lingua. Questa distinzione viene considerata importante 
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soprattutto nell’ambito della neurolinguistica (vedi 3.2.), in quanto sembra che vi sia un 
coinvolgimento di strutture cerebrali diverse a seconda che si tratti di processi di acquisizione 
o di apprendimento (Fabbro, 1996: 120).  
    Secondo Krashen, i due processi sono distinguibili quando il parlante si trova di fronte al 
compito di dare un giustizio di grammaticalità relativo ad una frase che sente. “Se questo 
giudizio si basa su una regola che il parlante è in grado di formulare e quindi di esplicitare, 
allora abbiamo a che fare con un caso di apprendimento; se invece il parlante si basa sulle sue 
sensazioni e non è in grado di motivarle […] abbiamo a che fare con un caso di acquisizione” 
(1985).  
    A questo proposito è importante notare che esiste anche una modalità “intermedia”, ovvero 
l´apprendimento naturale (o spontaneo) (Moretti e Antonini, 2000: 38), che si distingue 
dall´apprendimento guidato in quanto oltre all’istruzione formale il soggetto acquisisce la 
lingua nella vita quotidiana. Anche Fabbro intende questa modalità intermedia quando scrive 
che “è possibile acquisire una seconda lingua anche da adulti, sempre attraverso strategie 
informali” (1996: 120). Questo avviene ad esempio quando si impara una lingua nel paese in 
cui viene parlata, quindi sia attraverso metodi d’insegnamento, sia in modo naturale 
comunicando con i parlanti nativi del posto. Come sostiene Charles Bouton (1987: 115-116), 
“quando la lingua è un mezzo di insegnamento e non semplicemente un oggetto di 
insegnamento […] essa può acquisire uno status di quasi uguaglianza con la prima”.  
 
1.3.2.  Età di acquisizione 
 
Anche per quanto riguarda queste definizioni, gli studiosi non sono del tutto unanimi da quale 
età in poi il bilinguismo si deve chiamare tardivo; il confine tra i due tipi di bilinguismo non è 
quindi fissato in modo rigido. Per alcuni, come per Maria Teresa Guasti, si ha 
un’“acquisizione precoce” se i soggetti hanno appreso la seconda lingua entro la pubertà, e 
un’“acquisizione tardiva di L2” se la seconda lingua è stata appresa in età adulta (2007: 248). 
Anche lei però distingue a questo proposito il modo in cui la seconda lingua è stata imparata, 
se “acquisita” in una situazione naturalistica nel paese in cui viene parlata, oppure se è stata 
“appresa” consciamente in un contesto di istruzione formale.  
    De Houwer (1995) invece propone un’ulteriore suddivisione, distinguendo tra “bilingual 
first language acquisition”, quando il contatto con entrambe le lingue avviene dalla nascita, e 
“bilingual second language acquisition”, quando l’esposizione alla seconda lingua non si ha 
prima del primo mese, ma prima di due anni. 
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    McLaughlin (1978) pone il discrimine tra le categorie di “infant bilingualism” e “child 
bilingualism” attorno ai 3 anni, e quello con il bilinguismo tardo attorno alla pubertà.  
Secondo alcuni il confine fondamentale si trova dunque nella prima età, attorno ai 3 anni, 
secondo altri invece nella pubertà.  
    Tutte le suddivisioni ruotano quindi sull’esistenza di predisposizioni differenti in momenti 
differenti dello sviluppo linguistico e fanno emergere il problema dell’età critica.  
 
1.3.3.  Il problema dell´età critica 
 
Secondo l’ipotesi del periodo critico (o periodo sensibile), gli esseri umani sono 
maggiormente disponibili a imparare una o più lingue tra la nascita e la pubertà. Si 
presuppone che in questo periodo avvenga la lateralizzazione del cervello, cioè la 
specializzazione prevalente dei due emisferi che assumono primariamente compiti differenti. 
Nella maggior parte dei casi è l’emisfero sinistro che si specializza nella gestione del 
linguaggio. Dopo la pubertà quindi il cervello perderebbe di plasticità e di abilità di imparare 
lingue (Penfield e Roberts, 1959). 
    Vari studi hanno dimostrato però che non c’è una base biologica che spiega il periodo 
critico. L’esistenza della lateralizzazione come fenomeno di specializzazione delle differenti 
parti del cervello non presuppone un processo di lateralizzazione nel periodo critico (Moretti e 
Antonini, 2000: 67). Secondo gli autori si tende invece ad accettare più facilmente che ci 
siano dei periodi, non necessariamente legati alla lateralizzazione del cervello, in cui il 
bambino è più disponibile per sviluppare alcuni compiti neuro-muscolari collegati al 
linguaggio, come per esempio all’apprendimento della pronuncia. Ipotizzano che esista 
comunque un periodo di una maggiore disponibilità entro il quale deve aver avuto luogo 
l’acquisizione almeno della prima lingua (e sarebbe intorno ai 4 anni). Il calo della 
disponibilità ad apprendere sembra essere molto più lento e pare continuare anche in età 
adulta, tenendo però presente che le probabilità di un apprendimento soddisfacente sono tanto 
più grandi quanto prima inizia l’apprendimento.  
    Guasti riporta che “sul breve periodo hanno maggior successo nell’acquisizione di una L2 
gli adulti o i bambini più grandi; ma sul lungo periodo, sono i bambini che hanno iniziato 
presto ad acquisire una L2 che ottengono prestazioni migliori, almeno per quanto riguarda 
morfologia e sintassi” (2007: 269). L’autrice distingue i vari periodi sensibili non per età ma a 
seconda della componente linguistica messa in gioco, affermando quindi che diverse abilità 
linguistiche sono soggette a periodi sensibili diversi. La studiosa fa riferimento a Perry e