Consumatori e Grande Distribuzione di fronte alla crisi ambientale                                                                        Andrea Petito 
 
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L’ambizione è dunque quella di fare vedere il “rovescio della medaglia” di un modello 
economico che ha nel raggiungimento della Bottom line (il fine ultimo, ossia l’aumento del 
profitto) il suo unico obiettivo.  
Le grandi imprese, attraverso una serie di decisioni giuridiche, hanno assunto caratteristiche 
davvero peculiari: sono dovute, per legge, annettere l’interesse finanziario dei loro proprietari 
al di sopra di ogni altra cosa. Di fatto sono dunque obbligate annettere il fine ultimo al di 
sopra di tutto, anche del bene pubblico. Devono cioè occuparsi di ottenere profitti immediati 
per gli azionisti, che sono una minoranza di persone. 
Le imprese hanno obblighi solo verso loro stesse, per ingrandirsi ed ottenere profitti. Così 
facendo, accumulano sempre più profitti fino al punto di fare pagare dei costi sociali ad altre 
persone, tanto è rilevante l’impatto delle loro azioni sull’ambiente e sulla società. In altre 
parole producono delle esternalità, dove per esternalità si intendono gli effetti di una 
transazione tra due individui nei confronti di terzi che non hanno partecipato in alcun modo 
allo svolgimento della transazione. 
Licenziamenti, azioni antisindacali, incendi nelle fabbriche, sfruttamento della manodopera, 
danni alla salute umana causati da prodotti pericolosi, rifiuti tossici, inquinamento, distruzione 
dell’habitat, allevamento intensivo, deforestazione, emissioni di CO2, scorie nucleari ecc. 
compongono il fardello sociale e ambientale che le grandi imprese dovrebbero caricarsi sulla 
schiena assumendosi tutte le responsabilità di tali azioni. In realtà nessuno si fa carico di 
questo pesante fardello, che viene disperso nella società e nell’ambiente come se si trattasse di 
un’epidemia. 
Molte grandi imprese non si preoccupano se alcune sostanze chimiche sintetiche che 
permeano i nostri luoghi di lavoro, i nostri prodotti di consumo, la nostra aria e la nostra 
acqua, possono provocare il cancro, anomalie congenite e altri effetti tossici. Oppure non si 
esimono dall’utilizzare ormoni artificiali negli allevamenti di bestiame, nocivi per la mucca, 
ma soprattutto potenzialmente nocivi per noi consumatori. 
Il problema è che il rispetto delle leggi diventa sempre più una questione di convenienza e 
costi. Se la possibilità di essere scoperti e la pena sono inferiori ai costi di adeguamento alla 
legge, nella maggior parte dei casi la decisione sarà condizionata dal principio economico 
della razionalità e dell’utilitarismo, segnalando così una falla nel Capitalismo: come sostiene 
Serge Latouche [1995, 8]: 
 
«Ciò che si contesta è la pretesa dell’utilitarismo di ricondurre tutte le azioni umane al solo calcolo 
degli interessi, di dare a questi un contenuto univoco quantificabile.[…] Il riduzionismo di una visione 
del mondo che passa tutto al setaccio del solo calcolo economico non riesce né a comprendere la 
 
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complessità del vivere, né a generare l’ordine sociale ideale che pretende di fondare. Insomma, si 
ritiene che sia pericoloso affidarsi all’utilitarismo per risolvere in modo umano i problemi attuali». 
 
Gli intermediari che operano sul mercato non sono certo persone la cui coscienza viene scossa 
dalle problematiche sociali o ambientali: vedono solo il profitto. Ad esempio, non si esimono 
dal comprare il Coltan (minerale necessario per la produzione dei microchip) perché viene 
estratto nelle miniere del Congo da bambini. 
Le informazioni che si ricevono in borsa non contemplano mai le problematiche sociali e 
ambientali, perché, a meno che non si trasformino in merce e vengano messe sul mercato, non 
riguardano l’economia. 
Ma il vento sta cambiando. Di fronte all’evidenza della finitezza delle risorse (petrolio in 
primis) sono molti oramai a constatare che si debba procedere verso un’inversione di 
tendenza.  
Per molto tempo, il genere umano non si è preoccupato delle conseguenze negative che 
potevano derivare dalla sua attività. Non ha avuto altro riguardo se non per i suoi bisogni. Ha 
sfruttato e sta sfruttando in modo eccessivo le risorse ambientali disponibili, e in un certo 
senso ha preso in prestito capitali ambientali appartenenti alle generazioni future, senza avere 
né l’intenzione né la possibilità di “restituirli”. Molte imprese hanno agito (e agiscono) da 
predatori, predando qualcosa che non è loro ma che appartiene a tutte le creature della terra. 
«Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo», diceva Gandhi 
[http://it.wikiquote.org/wiki/Mahatma_Gandhi]. Bisogna modificare la situazione generale, 
ma per farlo ci vuole il sostegno e l’impegno di tutti noi: cittadini/consumatori, imprese, 
autorità pubbliche.  
È necessario che tutti rivedano il proprio rapporto con l’ecosistema: le imprese 
massimizzando il rapporto tra valore prodotto e risorse utilizzate e adottando un 
atteggiamento più partecipativo in ambito ambientale e sociale; le istituzioni promuovendo la 
diffusione di politiche e modelli di sviluppo sostenibile; i cittadini cambiando l’atteggiamento 
nei confronti di queste tematiche in favore di un comportamento più responsabile e 
sostenibile, volto al riciclo/riutilizzo nonché all’acquisto di prodotti etici, anche pagandoli a 
un prezzo superiore. 
Obiettivo della tesi è proprio quello di evidenziare, in un clima generale di profonda crisi 
ambientale e sociale, un primo e significativo cambiamento di tendenza nei comportamenti di 
consumatori e imprese. 
La crisi ambientale viene analizzata all’interno del circuito distributivo. Perché la Grande 
Distribuzione? Perché con il Capitalismo il settore della Grande Distribuzione si è sviluppato 
 
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enormemente, diventando sempre più l’anello di congiunzione tra domanda e offerta. (come 
testimonia l’ascesa al primo posto della catena distributiva Wal-Mart nella speciale classifica 
delle maggiori Multinazionali).  
Negli ultimi anni si è assistito all’incrementarsi di pratiche di consumo sostenibili e 
responsabili, con un incremento della domanda di prodotti che rimandano a valori etici. Nella 
strategia complessiva della Grande Distribuzione questa crescente domanda è stata 
ovviamente recepita, con la conseguenza di una progressivo impegno nel fornire un’offerta 
adeguata.  
Ciò ha portato a un vero cambiamento nella strategia dell’impresa, riassumibile nel concetto 
di marketing ecologico: l’adozione di politiche volte alla sostenibilità ed alla soddisfazione di 
una domanda sempre maggiore da parte dei consumatori di protezione e salvaguardia 
dell’ambiente, oltre che di tutela della salute. 
Gli obiettivi del marketing ecologico sono dunque quelli di sviluppare prodotti sui quali sia 
garantita la compatibilità ambientale (cioè prodotti con sistemi a basso impatto ambientale), 
trasmettere un’immagine di elevata qualità, che includa la “sensibilità ambientale” 
riconoscibile al prodotto ma anche all’azienda produttrice, ma soprattutto promuovere la 
crescita della consapevolezza ambientale del consumatore. 
La presente trattazione si compone in quattro capitoli: il primo tratta la questione 
ambientale da un punto di vista sociologico, analizzando la crisi ambientale in tutti i suoi 
aspetti; il secondo capitolo analizza e mette in discussione il modello economico vigente; il 
terzo offre una panoramica sulle tappe di passaggio nella società dei consumi e mette in 
rilievo un cambiamento di tendenza nel comportamento del consumatore; il quarto capitolo si 
concentra sul rapporto impresa-ambiente, focalizzandosi principalmente sul ruolo della 
Grande Distribuzione ed evidenziandone i campi strategici su cui muoversi; il quinto capitolo, 
più specifico, verterà sulle politiche ambientali adottate da quattro catene distributive. 
 
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1. AMBIENTE E SOCIETÀ: LO SGUARDO 
SOCIOLOGICO 
 
 
 
1.1  LA CRISI AMBIENTALE 
 
L’ambiente in cui viviamo sta mutando ad un ritmo tale da creare enormi 
preoccupazioni agli studiosi che si occupano di ecologia. È ormai entrato nella quotidianità il 
pensiero che l’ambiente in cui viviamo non sia più in grado di sostenere la nostra crescita. 
Si, perché se prendessimo in considerazione esclusivamente i dati demografici relativi agli 
ultimi secoli ci accorgeremmo di come, col passare degli anni, la specie umana sia in realtà 
cresciuta. 
Da questo punto di vista la crisi dell’ambiente sembra non impedire l’espansione del genere 
umano, quindi si può dire che questo suo modo di adattarsi all’ambiente gli ha permesso di 
crescere. Niente di più sbagliato. 
La questione relativa alla crisi ambientale viene limitata in tal senso alla perdita di specifici 
beni naturali dovuti al degrado della natura, che non interesserebbe direttamente le attività 
dell’uomo, la sua sopravvivenza e la sua vita collettiva.   
Ma la crisi ambientale interessa direttamente l’uomo perché egli stesso ne è l’artefice ed egli 
stesso ne pagherà le conseguenze. Luigi Pellizzoni e Giorgio Osti [2003] individuano tre 
aspetti in grado di dimostrarlo: 
 
 ξ  L’insostenibilità della crisi ambientale: l’uomo finora si è espanso demograficamente, 
ma questa sua crescita è destinata a tracollare in un prossimo futuro. L’ecologia infatti 
ci insegna che una specie rapidamente cresciuta può incorrere in un drastico crollo, 
dovuto ai ritmi insostenibili delle proprie attività. 
Il calcolo dell’impatto delle attività umane sull’ambiente si rivela troppo alto rispetto 
alla capacità di tenuta e riassorbimento dello stesso. L’uomo insomma non riesce a 
sfruttare uno spazio ambientale senza alterarne o danneggiarne le caratteristiche 
essenziali: utilizza le risorse rinnovabili più rapidamente del suo rinnovamento, si 
rende protagonista di emissioni di materiali maggiori della capacità di riassorbimento 
 
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dell’ambiente, utilizza sempre con maggiore intensità risorse non rinnovabili senza 
preoccuparsi di creare sostituti fisici con le stesse funzioni ma nati da risorse 
rinnovabili. 
In pratica: ci sono precisi limiti allo sfruttamento delle risorse naturali, oltrepassati i 
quali l’ecosistema è incapace di rigenerarsi e crolla, si degrada, si semplifica rendendo 
indisponibile un insieme di beni. 
Ciò ci conduce all’idea moderna di impronta ecologica di una comunità: essa consiste 
nella traduzione in ettari di superficie terrestre dell’ingombro dell’attività umana, 
prevedendo anche quanto le risorse sono sfruttabili e in che misura gli scarti sono 
riassorbibili dall’ambiente. 
Con l’impronta ecologica si riesce a confrontare fra consumi della popolazione di un 
certo territorio e risorse biologiche e energetiche disponibili nello stesso, valutando 
quindi il consumo di capitale naturale da parte di una collettività. 
Ad esempio, se in una comunità il consumo di carne bovina è pari a 90 Kg per abitante 
all’anno, per produrre tale quantitativo servirà una certa superficie di terreno da 
pascolo e un terreno in cui coltivare i foraggi, servirà una superficie dalla quale 
ricavare l’energia per il processo produttivo e una superficie per smaltire i residui di 
tale processo. Sommando queste superfici si ottiene l’impronta o quantità di terreno 
biologicamente attivo necessario per garantire il consumo annuo pro capite di carne 
bovina. Allo stesso modo si calcola quanto terreno biologicamente produttivo possiede 
quella comunità, dividendolo poi per il numero degli abitanti. Nel caso dell’Italia si 
stima un’impronta ecologica di 4,2 ettari pro capite a fronte di una disponibilità di 
terreni biologicamente attivi di 1,3 ettari pro capite. Il deficit per abitante è notevole (-
2,9) e significa che il paese non riesce a garantirsi il servizio ecologico con le sole 
risorse presenti entro i propri confini nazionali. 
Arriviamo così al punto fondamentale: se un cittadino italiano consuma una superficie 
maggiore al terreno biologicamente attivo della nostra Nazione, qualcun altro in altre 
parti del mondo dovrà accontentarsi di meno. E se l’intera popolazione della terra ne 
consuma di più, prima o poi avrà bisogno di una terra supplementare. 
È quello che si sta verificando: il consumo dell’umanità è superiore a quello che la 
natura è in grado di rigenerare. 
Il prelievo, la movimentazione e gli scarti di materiale sono insostenibili ossia non 
possono essere assorbiti dall’ecosistema, che verrà dunque modificato: si avranno 
scomparse di specie, vaste aree destinate all’ammasso di rifiuti, e minacce ai 
meccanismi fondamentali della riproduzione umana; 
 
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 ξ  L’ingiustizia sociale della crisi ambientale: alla crescita demografica della popolazione 
umana ha fatto da contraltare la distribuzione squilibrata delle risorse naturali 
all’interno del pianeta. Lo squilibrio distributivo può essere analizzato da diversi punti 
di vista: temporale, territoriale, sociale.  
Da un punto di vista temporale bisogna considerare che la distribuzione attuale di 
risorse risente delle scelte politiche ed economiche attuate da imperi, regni e stati che 
si sono succeduti nel corso della storia. Certe zone sono state irrigate, rendendo così il 
terreno più fertile, altre sono state spogliate delle proprie risorse con un prelievo vasto 
e capillare. 
Anche i sistemi ecologici hanno la loro inerzia: ad esempio, un taglio dissennato di 
alberi la cui riproduzione è piuttosto lenta in un certo periodo storico si ripercuote 
sulle generazioni successive, privandole per lungo tempo di alberi tipici di quella zona 
e clima. La stessa cosa vale per la concentrazione dell’anidride carbonica 
nell’atmosfera: è un processo cominciato 200 anni fa, che impiegherà molto tempo a 
rientrare, sempre che vengano applicate da subito forti misure restrittive sulle 
emissioni. 
Da un punto di vista territoriale si può notare come intere zone del pianeta godano dei 
vantaggi e patiscano gli svantaggi in maniera drammaticamente impari. Perché ciò 
accade? 
Semplicemente perché le zone sottopressione sono state sottoposte ad un tale prelievo 
di risorse o ammasso di rifiuti da rischiare il tracollo del proprio ecosistema e della 
popolazione che ci vive. Consideriamo il fenomeno del sovrapascolamento: 
l’esagerata introduzione di specie poco selettive nell’alimentazione come le capre ha 
portato alla desertificazione di alcune zone. Insomma, come sostengono Luigi 
Pellizzoni e Giorgio Osti [2003, 21]: 
 
«si crea una crisi ecologica perché una popolazione è mano abile di un’altra nel regolare lo 
sfruttamento delle proprie risorse naturali». 
   
Ma se approfondissimo il questa situazione e considerassimo il problema ambientale 
da un punto di vista sociale ci accorgeremmo che nello squilibrio territoriale si 
possono trovare importanti elementi di ingiustizia. Infatti, come sostengono Luigi 
Pellizzoni e Giorgio Osti [2003, 22]: «il malessere ecologico di una zona è 
funzionalmente legato al benessere di un’altra».  
 
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La casistica è ricca ma l’esempio più illuminante riguarda sicuramente la 
concentrazione di rifiuti tossici in zone abitate da popolazioni marginali o socialmente 
discriminate. 
Per i paesi industrializzati è relativamente facile smaltire in aree del Terzo Mondo 
sostanze inquinanti. Non bisogna andare lontano per accorgersi di questo fenomeno: in 
Italia, infatti, molte industrie del Nord provvedono a trasportare abusivamente i propri 
rifiuti in regioni del Sud come la Campania. 
Lo squilibrio ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri è sempre più netto e grave: 
 
«Un abitante medio di una nazione del nord consuma una quantità di risorse naturali circa 
dieci volte superiore a quella di un abitante medio del sud. Inoltre, il primo ha bisogno di 
molto più spazio per smaltire i residui dei propri consumi» [Ibidem, 22].  
 
Ciò che spiega un alto deficit ecologico non è quindi la densità, ma il livello dei 
consumi di energia e di beni straordinariamente elevato: in parole povere, il cosiddetto 
spreco.  
Spontaneamente sorge una domanda: come e dove i paesi in deficit reperiscono le 
risorse naturali che consumano? Semplicemente le importano. Ma è proprio 
sull’impatto sociale e ambientale causato dal commercio di materie prime che si è 
innescato un dibattito: le attuali modalità di compravendita di beni, fra cui quelli 
ambientali non sono eque perché non tengono conto dei punti di partenza di ciascun 
attore economico: 
 
«il libero mercato, senza barriere doganali, fra paesi con capacità finanziarie smisuratamente 
diverse, non può sortire una situazione equa. Quando uno dei contraenti dispone di grandi 
risorse finanziarie, condiziona tutto l’andamento del mercato. Può intervenire sui cambi 
valutari, sulle istituzioni che concedono prestiti e garanzie, sulle amministrazioni che 
rilasciano le licenze, sulle imprese che trasformano i prodotti grezzi, sulla domanda di 
lavoro.[…] La potenza finanziaria finisce per garantire posizioni di monopolio e oligopolio. 
La conseguenza di ciò è la facoltà di stabilire con ampi margini discrezionali i prezzi delle 
merci, condizionando la stessa sopravvivenza delle imprese fornitrici di materie prime.  Chi 
detiene il potere finanziario può così accedere ai beni naturali collocati in paesi ad economia 
debole con grande facilità, remunerandoli con prezzi vantaggiosi per i propri margini di 
profitto» [Ibidem, 24].