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CAPITOLO 1 
 
 
1. La riserva cognitiva 
Nell’ambito della neuropsicologia, si sviluppa alla fine degli anni ‘80 il concetto 
di riserva. A seguito di numerosi studi condotti su pazienti patologici, principalmente 
affetti dal morbo d’Alzheimer, emerse una certa dissonanza tra la gravità della patologia 
e il suo manifestarsi clinicamente. I ricercatori si dedicarono in particolare allo studio di 
soggetti sani, ovvero che in vita non avevano mai manifestato una condizione clinica ma 
i cui cervelli, come emerse dai successivi esami autoptici, ne riportavano i chiari segni 
organici (Stern, 2002).  
Nel 1988 Robert Katzman e il suo team di ricerca (Katzman et al., 1988), presentò 
per la prima volta in un articolo pubblicato sugli Annals of Neurology il termine riserva. 
Un esame autoptico fu eseguito su 137 residenti di una struttura infermieristica qualificata 
per i disturbi della memoria, con un’età media intorno agli 85 anni; il 78% risultò affetto 
da demenze, di cui il 55% presentava i segni e i sintomi specifici della malattia 
d’Alzheimer. Particolari furono i casi di 10 soggetti le cui prestazioni funzionali e 
cognitive in vita risultavano essere genericamente preservate, se non uguali o addirittura 
migliori di quelle dei soggetti sani (il gruppo di controllo); ciononostante proseguendo 
nell’esame post-mortem, i cervelli mostrarono le caratteristiche placche neocorticali della 
malattia di Alzheimer. I risultati inattesi emersi dallo studio di questi soggetti si pensò 
fossero da attribuire a caratteristiche strutturali dei loro cervelli; infatti, nonostante questi 
fossero affetti dal morbo d’Alzheimer, sembravano conservare comunque una sostanziale 
quantità di neuroni prestanti, sfuggite al deterioramento patologico. Una fu l’ipotesi 
mossa per spiegare l’accaduto: i soggetti ancora prima dell’insorgere della patologia 
avevano cervelli di dimensioni maggiori rispetto alla media, e di conseguenza 
presentavano un maggior numero di neuroni e una più fitta rete neuronale (Katzman et 
al., 1988). Cosicché anche se segnata dalla demenza, la rete neuronale manteneva le 
risorse necessarie per mantenere un buon livello di funzionamento.  
A spiegare tali particolarità venne teorizzato il concetto di riserva, che emerse a 
seguito di numerose osservazioni che giunsero a mostrare non esserci una relazione 
diretta tra il grado di lesione cerebrale e la sua manifestazione (Katzman et al., 1988;
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Mortimer et al. 1981; Satz, 1993). Tra gli studi condotti sull’argomento, importanti furono 
le evidenze emerse dallo studio di Snowdon (2003), condotto su un campione 
sperimentale particolare, se non unico nel suo genere, che permise di ottenere evidenze 
importanti che verranno trattato in modo approfondito più avanti nel capitolo. 
Inizialmente il termine fu presentato accompagnato dall’aggettivo cerebrale 
(brain reserve), in quanto si pensò che la riserva fosse una proprietà emergente da 
caratteristiche fisiche del cervello come il suo volume. In seguito, si propose il termine 
riserva neuronale (neuronal reserve), poiché a determinarne le qualità si pensò fosse 
l’aspetto funzionale e quindi la rete neuronale, l’insieme di sinapsi e dendriti. Più recente 
è il termine di riserva cognitiva.  
 
1.1. Che cos’è la riserva cognitiva 
La riserva cognitiva viene definita come la capacità del cervello adulto di 
fronteggiare gli effetti di una lesione o di una patologia cerebrale affinché non solo non 
vi sia un manifestarsi della sintomatologia clinica attesa, ma anche un risparmio delle 
funzioni cognitive che di norma risulterebbero deficitarie (Stern, 2002). Il cervello umano 
sembrerebbe in grado di aggirare l’effetto della lesione ricercando e attivando nuovi 
circuiti funzionali che possano sopperire al deficit cognitivo, e reintrodurre quella 
funzione prima deficitaria (Steffener e Stern, 2012, Cabeza et al., 2018). La riserva 
cognitiva sembrerebbe in grado di richiamare delle strategie cognitive preesistenti 
all’evento acuto, più sofisticate che permettano nuovamente l’elaborazione di 
informazioni, la risoluzione di problemi e l’esecuzione dei compiti. Questa capacità di 
resilienza è tanto più grande quanto più sono sviluppate ed efficienti le reti neurali di un 
soggetto (Katzman et al., 1988, Satz, 1993). Maggiore è la riserva maggiore è il grado di 
danno neurologico che si riesce a contrastare prima che emerga tutta la sintomatologia 
legata alla lesione, o alla patologia, stessa (APA Dictionary of Psychology).  
La riserva cognitiva emerge ogniqualvolta si verifichi un bilanciamento tra un 
certo cambiamento cerebrale, che può essere una lesione, una patologia o il normale 
invecchiamento, e il livello di funzionamento corrente della persona. Alla base vi è una 
differenza interindividuale: a fronte di una medesima lesione i soggetti con un’alta riserva 
cognitiva sono in grado di fronteggiare tale lesione con risultati superiori, nei punteggi di 
performance, rispetto ai soggetti caratterizzati da una bassa riserva cognitiva. Si tratta di
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un’entità malleabile, il cui livello dipende dalla somma delle esperienze di vita a cui si è 
stati esposti fino a quel momento. I ricercatori hanno individuato un insieme di variabili 
che cooperano per la costruzione della riserva cognitiva, tra queste il livello di scolarità, 
il QI e l’insieme di fattori attribuibili all’ambiente di crescita (Stern, 2013).  
È importante distinguere il concetto di riserva cognitiva da quello di riserva 
cerebrale, seppur siano strettamente correlati, ci sono delle marcate differenze da 
considerare. Negli anni sono stati sviluppati due modelli, uno denominato attivo e l’altro 
passivo, che hanno permesso di chiarire tale distinzione.  
 
1.2. I modelli teorici della RC 
Come precedentemente scritto, negli anni i ricercatori hanno individuato tre 
differenti classi di riserva: la riserva cerebrale, neuronale e cognitiva. Che a loro volta 
hanno richiamato l’attenzione sulla necessità di sviluppare dei modelli di analisi e 
classificazione: il modello passivo e il modello attivo.  
 
1.2.1 I modelli passivi 
La riserva cerebrale rappresenta ciò che si potrebbe definire un modello passivo 
di riserva; quest’ultima viene concepita in termini di quantità di danno che il cervello può 
contrastare prima che raggiunga un limite soglia oltre il quale vi è l’emergere 
dell’espressione clinica. Il modello si riferisce in modo specifico ai danni a livello 
cerebrale dovuti al normale invecchiamento e ai processi patologici sia acquisiti sia 
degenerativi. Gli studi si sono infatti sviluppati in relazione a ricerche condotte su pazienti 
affetti dal morbo di Alzheimer, rispetto alla possibilità di diagnosticare la demenza prima 
ancora dell’emergere dei sintomi.  Nello studio condotto da Katzman e i suoi colleghi 
(1988), sui soggetti affetti da Alzheimer, si riscontrò una certa variazione temporale 
rispetto ai danni patologici estesi e la loro manifestazione clinica. Nell’esame post-
mortem emerse che i soggetti, i quali presentavano sia un danno patologico esteso che 
una manifestazione clinica evidente in vita, avevano cervelli di peso e volume inferiore 
rispetto a coloro che al pari del danno non presentavano alcuna sintomatologia. Secondo 
tale visione la riserva cerebrale è determinata dalla dimensione del cervello (volume, peso 
e circonferenza cranica) e dalla densità neuronale, ovvero il numero di neuroni presenti 
in fase premorbosa e dall’efficacia della rete neuronale (Chicherio et al., 2012).
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Altre variabili determinanti vennero in seguito individuate (Stern e Barulli, 2019). 
Gli studi condotti da Sachdev e Valenzuela (2009) hanno suggerito che un altro elemento 
in grado di predire il declino cognitivo a seguito di una certa patologia è il numero di 
neuroni piramidali presenti a livello corticale. Il dato è stato poi considerato un valore 
complementare alla misura della circonferenza cranica per determinare con maggiore 
efficacia la probabilità di rischio di demenza (Mortimer et al., 2003). Più recente è invece 
la proposta di Whalley e colleghi (2016) di utilizzare come misura predittiva l’estensione 
della superficie corticale.  
Al modello passivo di riserva cerebrale si affianca un secondo modello, quello 
soglia che venne studiato da Satz e colleghi a partire dal 1993 (Stern, 2012). Si tratta di 
un modello poco più articolato che non si basa sul concetto di riserva cerebrale, ma sul 
costrutto di capacità della riserva cerebrale (Brain Reserve Capacity, BRC). Anche questo 
costrutto, come il primo teorizzato da Katzman (1988), riconduce il concetto di riserva 
alle caratteristiche strutturali e fisiche emergenti del cervello. Il modello riconosce 
l’esistenza di differenze individuali e, come il modello passivo, assume che un’elevata 
BRC sia un elemento protettivo rispetto alla sintomatologia dementigena mentre una 
BRC bassa consiste in un elemento di vulnerabilità. Il modello venne denominato 
“soglia” proprio perché Satz teorizzò che a fronte di uno stesso danno cerebrale, nel 
momento in cui viene oltrepassata la soglia, si produce in ogni individuo uno stesso esito.  
Le cui differenze individuali, in termini di manifestazione clinica, sono dovute 
esclusivamente alla capacità globale di riserva propria dell’apparato cerebrale. Il valore 
di soglia viene rappresentato dagli stessi ricercatori come un’asticella, che è tanto più alta 
quanto la capacità di riserva è più sviluppata (Stern, 2012). I deficit funzionali e cognitivi 
emergerebbero quindi solo dopo che una certa soglia fissa viene raggiunta, e i soggetti 
con una maggior riserva cerebrale avrebbero semplicemente una maggior quantità di 
abilità, sviluppate negli anni, da perdere prima che il decadimento funzionale e cognitivo 
si espliciti (Stern et al., 2018).  
Un terzo tipo di modello di riserva che di molto si avvicina a quella cerebrale, sia 
per componente che per concetto, è quello della riserva neuronale (Mortimer et al., 1981). 
Tale modello, come suggerisce il nome stesso, considera determinante, in termini di 
capacità di fronteggiare una lesione cerebrale, la quantità di neuroni di cui dispone una 
persona. Analogamente, per quanto accade con l’analisi quantitativa della riserva
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cerebrale, anche in questo caso la misura del volume del cervello e della superficie 
corticale sono i mezzi più comunemente utilizzati, dal momento in cui un cervello grande 
sarà costituito da un maggior numero di neuroni. Solo recentemente, grazie allo sviluppo 
delle tecniche di neuroimmagine, le ricerche hanno potuto rilevare delle misurazioni più 
specifiche di questa componente. Attraverso la risonanza magnetica (RM) è stato infatti 
possibile ottenere delle misure precise del volume della sostanza grigia e della sostanza 
bianca, e con l’impiego della tomografia a emissione di positroni (PET) anche una misura 
dell’integrità della rete sinaptica (Stern et al., 2018). 
 
1.2.2 Il modello attivo 
Poco più recenti sono gli studi che hanno permesso di individuare una riserva 
cognitiva e costruire il relativo modello attivo, che fa riferimento a differenze quantitative 
rispetto a come gli individui gestiscono le loro risorse (Stern, 2002). Tale modello assume 
che vi sia un’attività diretta del cervello ad affrontare la sfida rappresentata dalla lesione 
cerebrale, sollecitando specifici processi funzionali e cognitivi a fine adattivo.  
Attraverso l’impiego di strategie, di processi cognitivi e della rete di connessione 
funzionale tra neuroni, il cervello è in grado di adottare modalità attive per contrastare il 
processo patologico. L’attività di contrasto impiega sia processi cognitivi preesistenti, 
sostituendo la via di processamento deficitaria con una alternativa, sia processi 
compensatori. Nel caso in cui due pazienti avessero lo stesso livello di BRC, colui con 
una maggiore riserva cognitiva risulterà essere in grado di fronteggiare una lesione più 
estesa rispetto all’altro prima che emergano i segni clinico-comportamentali del 
decadimento (Stern, 2009). Il modello attivo, a differenza di quello passivo, non stabilisce 
un livello soglia oltre il quale sarà visibile il declino, ma si concentra a individuare 
l’insieme dei processi che permettono all’individuo di mantenere la propria funzionalità 
a discapito della lesione che presenta. Esso viene impiegato non solo per interpretare le 
alterazioni cerebrali a seguito di un danno o il normale invecchiamento, ma anche per 
interpretare le differenze individuali nell’elaborazione delle informazioni in assenza di 
lesione. Il focus è posto sulle modalità attraverso le quali i processi permettono di 
sostenere il danno così da mantenere l’adeguato funzionamento (Chicherio et al., 2012).  
Sul piano sperimentale l’espressione della riserva cognitiva (RC) è al giorno 
d’oggi studiata tramite l’impiego di strumentazioni di neuroimmagine, grazie alle quali è
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possibile osservare in vivo le similarità e le differenze tra soggetti nei pattern di 
attivazione cerebrale durante la realizzazione di uno specifico compito. Stern e colleghi 
(2005) impiegarono lo strumento di tomografia a emissione di positroni (PET) col fine di 
studiare la relazione tra la riserva cognitiva e il livello di attivazione cerebrale durante un 
compito di riconoscimento. I soggetti, divisi in gruppi diversi tra giovani/adulti e 
adulti/anziani, vennero sottoposti a due condizioni sperimentali: una a basso carico 
mnestico e l’altra ad alto carico mnestico. I risultati riportarono che durante lo 
svolgimento del compito vi era una differenza di intensità d’attivazione delle regioni 
funzionali coinvolte a seconda del carico di memoria richiesto e l’età del partecipante. I 
giovani adulti con una RC maggiore, mostravano un’elevata attivazione in quelle regioni 
direttamente coinvolte nella rete neurofunzionale, responsabile dell’incremento del carico 
di memoria fra le due condizioni sperimentali, mentre vi era una diminuzione 
dell’attivazione delle altre aree cerebrali. Al contrario nei soggetti adulti anziani, con RC 
elevata, si registrava un decremento dell’attività nelle aree direttamente coinvolte 
all’aumento del carico mnestico e un incremento nelle regioni non direttamente coinvolte 
(un processo denominato compensazione neuronale). Le differenze osservate, rispetto ad 
attivazioni più o meno intense legate al tipo di compito e all’età dei partecipanti, sono 
considerate la manifestazione neuronale della riserva cognitiva (Chicherio et al., 2012). 
Nonostante i modelli attivo e passivo di riserva siano stati proposti dai loro autori, 
Satz (1993) e Stern (2002), come contrapposti non è possibile avere il completo quadro 
funzionale del costrutto senza considerarli congiuntamente. La capacità di resilienza del 
cervello, rispetto a lesioni, patologie o il semplice invecchiamento, affonda le sue radici 
sia in caratteristiche quantitative dell’organo stesso che qualitative delle funzioni facenti 
capo al sistema nervoso centrale. È chiaro che la linea di demarcazione tra riserva 
cerebrale e cognitiva non è netta, la differenza risiede nei termini d’analisi. Il modello di 
riserva cognitiva non può prescindere da una componente di base fisiologica, poiché 
l’apparato cerebrale essenzialmente media tutte le funzioni cognitive.  Il livello d’analisi 
della componente fisiologica che interessa la riserva cognitiva riguarda elementi come 
l’organizzazione sinaptica o il relativo impiego di regioni specifiche del cervello. Al 
contrario di quanto accade nell’analisi del costrutto di riserve cerebrale, i cui parametri 
d’interesse sono il volume cerebrale o la superficie corticale (Stern, 2009). Questa 
relazione tra riserva cerebrale e cognitiva è in realtà biunivoca, in quanto molti fattori
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associati all’incremento della riserva cognitiva, come l’esposizione ad un ambiente 
stimolante, si è visto avere effetti diretti sul cervello incrementandone il volume (Kesler 
et al., 2003).  
 
1.3 La RC tra compensazione e mantenimento 
 Se la riserva cerebrale si focalizza sull’aspetto hardware, ovvero delle componenti 
fisiche, la riserva cognitiva funge da software rappresentando l’insieme delle procedure 
nel vasto sistema di elaborazione cognitiva (Stern, 2002). Consiste nell’abilità del 
cervello di fronteggiare un problema con l’impiego di approcci alternativi quando quello 
standard è danneggiato. Nei soggetti questo aspetto emerge in modo evidente in presenza 
di una lesione, di una patologia oppure durante il normale invecchiamento, attraverso due 
meccanismi: la compensazione (Steffener et Stern, 2012) e il mantenimento (Cabeza et 
al., 2018). 
  In diversi studi di neuroimmagine (Becker et al, 1996; Deutsch et al, 1993; Grady 
et al., 1993), che si sono proposti di analizzare le differenze tra pazienti sani e affetti da 
malattia d’Alzheimer (AD, Alzheimer’s Disease), è stata riscontrata una differenza 
nell’attivazione dei circuiti neuronali durante la risoluzione di uno stesso compito. I 
soggetti dementi hanno riportato una maggiore attivazione, che è stata interpretata come 
l’evidenza empirica del processo di compensazione. Ingaggiare vie di processamento 
alternative non è un mero meccanismo d’aggiramento del deficit, bensì permette 
l’esecuzione del compito massimizzando la performance attraverso l’impiego di reti 
neuronali e strutture cerebrali indenni. Nell’arco degli anni lo svilupparsi di nuove 
ricerche ha portato ad un’evoluzione del concetto di riserva. Lo stesso Stern (2009) 
propose il superamento della distinzione precedentemente individuata tra riserva 
cognitiva e compensazione, grazie ad una concettualizzazione alternativa attenta 
all’esame dei processi neuronali.  
Due furono le nuove componenti individuate: la riserva neuronale e la compensazione 
neuronale. La prima si esprime sotto la forma di efficienza, capacità e flessibilità nell’uso 
delle reti di connessione e dei processi cognitivi, che si differenziano tra individuo e 
individuo, e che sono fonte di vantaggio laddove si presenti una lesione o una patologia 
cerebrale.
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La compensazione neuronale, a differenza della riserva neuronale, si riferisce all’insieme 
di reti e processi alternativi, che l’individuo sano non usa e che vengono appunto attivati 
in caso di deficit. Tale abilità di compensazione fornisce il sostegno per mantenere e 
migliorare la prestazione comportamentale (Chicherio et al., 2012). Tre sono i 
meccanismi individuati da Cabeza e colleghi (2018) attraverso i quali la compensazione 
opera. Attraverso la sovraregolazione, durante lo svolgimento di un compito, i soggetti 
anziani reclutano dei circuiti neuronali che i soggetti giovani nella stessa condizione 
sperimentale non risultano usare.  Attraverso la selezione i soggetti anziani, analogamente 
al meccanismo prima presentato, fanno capo a circuiti non impiegati dai soggetti giovani, 
ma in particolare tali circuiti sono caratterizzati da una minore efficacia e di conseguenza 
da un minor dispendio di risorse per l’attivazione, al contrario dei circuiti scelti dai più 
giovani che oltre ad essere molto efficaci sono anche dispendiosi in termini di fatica. Il 
terzo approccio è quello della riorganizzazione, caratterizzato dallo sviluppo di un 
meccanismo totalmente nuovo a seguito di un danneggiamento cerebrale. Questo si è 
spesso osservato in soggetti che a seguito di un evento acuto hanno sviluppato afasia: 
l’emisfero sinistro, non più in grado di svolgere il suo controllo sul dominio del 
linguaggio, viene compensato dall’emisfero destro. I soggetti anziani spesso mostrano 
più pattern di attivazione bilaterale dei soggetti giovani.  
Il modello di analisi della compensazione più conosciuto è l’HAROLD, acronimo 
per Hemispheric asimmetry reduction in older age, termine coniato da Cabeza (2002, 
2018). Secondo tale modello gli individui anziani, che quindi vanno incontro ad un 
decadimento cognitivo legato all’invecchiamento, per ottenere delle performance elevate 
in diversi compiti cognitivi fanno affidamento su regioni cerebrali solitamente non 
ingaggiate, appartenenti all’emisfero controlaterale. Il concetto può essere rappresentato 
metaforicamente dall’immagine del bastone. Un soggetto anziano con difficoltà di 
deambulazione potrebbe far ricorso ad un bastone così da riuscire a camminare meglio, 
certo è che questa alternativa non è in grado di sostituire la performance di una gamba 
sana (Stern et al., 2012). Analogamente, il processo di compensazione ha i suoi limiti, 
infatti, non sempre vi è un miglioramento in termini di performance, più spesso si registra 
il mero mantenimento della funzionalità esistente (Stern et al., 2012; Robertson, 2013). 
Il secondo meccanismo è quello del mantenimento (Cabeza et al., 2018); questo 
termine è stato proposto per indicare il processo di preservazione delle risorse neuronali,