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Nota metodologica
I distretti industriali negli ultimi decenni hanno rappresentato l’asse
portante del capitalismo italiano, confermando di fatto l’assoluta centralità delle
PMI. Il contributo delle PMI alla crescita dell’economia italiana è stato molto
rilevante nei decenni passati sia in termini di prodotto che di posti di lavoro creati.
L’economia italiana, quindi, non la si può comprendere se non si prende in
considerazione il vasto sistema di piccole imprese organizzate in buona parte in
distretti industriali specializzati prevalentemente nei settori tradizionali e che
basano la loro competitività soprattutto attraverso legami forti con la cultura e
con le istituzioni locali. Proprio il legame con il territorio e con le istituzioni locali
hanno consentito ai distretti industriali negli anni ’70 e ’80 di essere molto
competitivi fino a quando non è emersa la grande impresa, che ha messo in crisi il
sistema delle imprese distrettuali. Infatti, con gli anni Novanta si apre una nuova
fase in cui la concorrenza specialmente nei settori tradizionali diventò sempre più
agguerrita. In questo scenario dinamico, le imprese distrettuali sono state chiamati
ad implementare nuove strategie che fossero sempre più orientate verso
l’innovazione di processo e di prodotto. Questa necessità è diventata sempre più
imponente con la crisi del 2008-2009, in cui migliaia di piccole e piccolissime
imprese sono state costrette a chiudere e la competizione è diventata ancora più
dura.
L’obbiettivo di questo lavoro, quindi, è proprio quello di mostrare non solo
l’importanza che i distretti industriali hanno avuto nell’economia italiana, ma
anche quali saranno le sfide che i distretti dovranno fronteggiare nei prossimi
anni. Per approcciare un argomento così complesso, si è partiti dalle origini e
dalle cause che hanno favorito lo sviluppo del modello distrettuale, continuando
ad analizzare quali sono i suoi elementi caratterizzanti. Nel primo capitolo,
dunque, si sono descritte le origini e gli elementi costitutivi dei distretti e le varie
teorie economiche che hanno analizzato questo fenomeno. Inoltre, si è proceduto
con l’analisi del mercato in cui operano le imprese distrettuali e si è visto che essi
prevalentemente operano in un mercato che potremo definire di concorrenza
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monopolistica. Successivamente, si è passati ad esaminare quali sono stati i fattori
che hanno determinato il successo del Made in Italy soprattutto negli anni ’80 e
come in seguito si è evoluto e, quindi, la crisi finanziaria del 2008-2009 che ha
colpito il tessuto produttivo italiano e che ha costretto i distretti a rivedere il loro
modo di “fare impresa”. Proprio per questo motivo, si è cercato di proporre
possibili vie di uscita, partendo dall’analisi dei dati di Unioncamere sulle
perfomance economico-reddituali dei distretti negli ultimi anni, precisamente dal
2008 al 2011. Presa coscienza del ruolo del distretto industriale e della sue
dinamiche degli ultimi anni, nel secondo capitolo si è cercato di dimostrare che la
competitività delle PMI dipende anche dalla capacità di saper delocalizzare la
propria attività produttiva e, quindi, di saper scegliere le migliori strategie di
internazionalizzazione per essere protagonisti vincenti nella nuova economia
globale. Per sopravvivere, quindi, i distretti devono aprirsi al mondo esterno non
solamente esportando i propri prodotti, ma sviluppando reti in differenti territori
in modo tale da proiettarli verso l’esterno. Esistono, infatti, diversi modelli di
internazionalizzazione e diverse strategie che le imprese possono adottare, anche
se le piccole imprese sono quelle meno incentivate ad adottare strategie di
internazionalizzazione e ad innovare. Proprio per questo occorrono politiche
industriali che dovranno incentivare le imprese, soprattutto di piccole dimensioni,
ad investire in innovazione, perché ciò rappresenta la chiave per far sì che i
distretti e le PMI italiane possano vincere la sfida della globalizzazione.
Nell’ultimo capitolo si analizzano quali sono le origini e le caratteristiche dei
distretti industriali meridionali, quali sono le sfide all’internazionalizzazione che il
sistema produttivo meridionale deve affrontare se vuole uscire definitivamente da
una situazione di non sviluppo. Infatti, proprio su questo punto viene evidenziato
come nel Sud esistono aree che hanno subito sia un processo di
industrializzazione che di deindustrializzazione e viene spiegato, quindi, quali
sono state le cause che hanno portato a questa dicotomia. Infine, è stato analizzato
uno dei distretti industriali, specializzati nel settore agro-alimentare, il distretto di
Nocera Inferiore- Gragnano, in cui sono stati analizzati quali sono le principali
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linee strategiche future necessarie per il suo definitivo decollo e le perfomance
economico-reddituali dal 2008 al 2011.
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Capitolo I
Le origini e l’evoluzione dei distretti industriali italiani
1.1 La nascita dei distretti industriali e i suoi elementi costitutivi
L’Italia ha sperimentato dopo la seconda guerra mondiale un processo di
industrializzazione, che si è accentuato durante gli anni settanta e si è esteso su
tutte le regioni italiane anche al di fuori del cosiddetto “triangolo industriale” e
che ha riguardato soprattutto lo sviluppo delle piccole e medie imprese inserite nei
distretti industriali ( Schilirò, 2008). Definire il distretto non è cosa facile, in
quanto non esiste una definizione che sia unanimemente riconosciuta, anche se
diversi studiosi dell’economia hanno provato a dare una definizione. L’interesse
sui distretti industriali si è diffuso sul finire degli anni ’60 del ventesimo secolo e
affonda le sue radici in un fenomeno più complesso come la crisi del fordismo e il
passaggio alla fase post-fordista, con l’affermarsi di un nuovo modello produttivo
(Cresta, 2008).
Il modo di produzione fordista si diffuse dagli inizi del novecento, quando
negli Stati Uniti si diffusero nuovi metodi di organizzazione scientifica del lavoro,
che furono teorizzati da Taylor. La sua idea, infatti, era basata sul fatto che i
lavoratori potevano produrre in maniera molto più efficiente, se i requisiti di ogni
mestiere avessero potuto essere determinati “scientificamente”, attraverso anche
un sistema di incentivazione adatto per motivare i lavoratori a produrre secondo le
loro capacità e le loro inclinazioni. Successivamente, però, il sistema di
produzione fordista-taylorista entrò in crisi in seguito all’emergere di nuovi
fenomeni economici e sociali come per esempio, la comparsa di nuove tecnologie
che consentirono di avere maggiori economie di scala, la domanda di merci si
diversificò e riguardò in misura crescente beni e servizi che non richiedevano
necessariamente requisiti di efficienza e, quindi, consentirono al consumatore di
soddisfare i bisogni sempre più immateriali (Cresta, 2006). In questo modo, le
nuove modalità di organizzazione della produzione, misero in crisi la grande
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impresa e favorirono la nascita e la diffusione delle piccole e medie imprese e dei
distretti industriali che fin da subito furono in grado di servire il mercato in
maniera efficiente e tempestiva (Cresta 2008). Tutti questi fenomeni hanno
attirato l’attenzione di molti studiosi come Alfred Marshall (1842-1924) che
utilizzò per la prima volta il termine “distretto industriale” nel 1867. Egli, infatti,
aveva identificato due tipologie di produzione: la prima basata su un’attività di
larga scala e la seconda basata sulle piccole imprese localizzate su uno stesso
spazio fisico e collegate tra loro da una medesima attività produttiva ( Becattini,
2002). Marshall, inoltre, aveva notato come la compresenza di più imprese
operanti nello stesso settore e localizzate nello stessa area creasse un “atmosfrea
industriale”, in grado di sopportare e incoraggiare lo sviluppo locale dal punto di
vista prettamente industriale (Schilirò, 2008).
L’elemento sicuramente più innovativo della teoria marshalliana si basava
sull’importanza delle economie esterne all’impresa, generate dall’agglomerazione
di piccole e medie imprese, in cui tutti gli attori economici di quel determinato
territorio interagiscono in modo costante e duraturo. Inoltre, il Distretto
Industriale Marshalliano è costituito dalle seguenti caratteristiche (Cresta, 2008):
1) piccole imprese specializzate localizzate in una stessa area;
2) la presenza di un indotto costituito in prevalenza da piccole imprese che
svolgono la loro attività nel terziario;
3) flessibilità produttiva e capacità di adeguarsi al mercato;
4) propensione all’innovazione;
5) l’esistenza di capitale umano qualificato;
6) atmosfera industriale capace di sostenere l’industria locale;
7) legame con il territorio e supporto delle istituzioni e degli attori locali
coinvolti in un determinato territorio.
In Italia, il distretto industriale fu una vera e propria innovazione
organizzativa e le sue origini sono da ricondursi secondo Brusco e Paba (1997),
agli anni Cinquanta. Infatti, uno dei primi economisti italiani che studiò questo