La realtà in cui ho vissuto ha contribuito al consolidarsi di questa sorta di pregiudizio ideologico 
perché lontana dai linguaggi fantasmagorici metropolitani, e più vicina alla civiltà contadina 
decantata da Pasolini (che la scelse come ambientazione ideale dei suoi film). 
Anche nei pur timidi tentativi che alcuni docenti provavano, non c’era ancora una piena 
consapevolezza dell’oggetto di studio, era semplicemente un inserire il discorso sui media come 
ausiliario o ancillare rispetto a tutto il sistema didattico istituzionale. 
Le cose naturalmente cambiano con l’inizio della mia carriera universitaria, con lo studio dei 
fenomeni della comunicazione e con la certezza sempre più radicata in me che nonostante tutte le 
difficoltà, quella fosse la scelta giusta. La conferma a questo mio presentimento prendeva forma 
sempre più, man mano che le difficoltà dei primi anni venivano meno e che iniziavo a studiare 
realmente le cose che mi interessavano. 
Iniziavo a prendere dimestichezza con una nuova terminologia, e lo studio stesso delle parole 
difficoltà che si celava nello sciogliere dei nodi anche di carattere terminologico. Lampante è la 
riflessione sul contradditorio termine “industria culturale”, con tutto il suo bel carico di 
problematicità, che entrava nel mio patrimonio genetico, e dal quel momento in poi non ne sarebbe 
più uscito. 
La fiducia nei mezzi di comunicazione aumentava in maniera proporzionale a quella nel genere 
umano e cambiava anche prepotentemente l’angolatura da cui vedevo le cose. Più il mio oggetto di 
studio diventava difficile, più paradossalmente mi sembrava semplice trarne delle conclusioni. 
Mi accostavo allo studio di discipline come la sociologia o la semiotica, che contribuivano ad 
aprirmi la mente e ad uscire da una ormai superata e troppo tradizionale forma di antagonismo 
deficiente, di resistenza ai fatti culturali che aveva un sottostrato ideologico molto pericoloso. La 
mia ottica iniziava a diventare più laica e con questo anche il grado di complessità con cui mi 
approcciavo a determinati studi aumentava. 
Le ragioni personali si iniziavano a sovrapporre a quelle scientifiche e la convinzione di essere nel 
giusto nel ritenere che i prodotti culturali non fossero affatto un’appendice della cultura con la “c” 
maiuscola trovavano delle legittimazioni teoriche sempre più fondate. 
L’approccio sociologico si univa a quello semiotico ed estetico ed ecco che la mia tesi prendeva 
forma autonomamente con l’aiuto di tutti i miei mentori, i miei numi tutelari grazie ai quali ho 
imparato che l’umiltà scientifica va applicata sempre e comunque anche e soprattutto quando si 
affrontano argomenti che risultano per i più spuri, contaminati e sprochi. 
Con la passione per i prodotti della cultura di massa, si aggiungeva la consapevolezza che i criteri 
che spesso avevo usato per giudicarli erano del tutto inadeguati e fuorvianti. 
 
IV 
A questo non era difficile rendersi conto che c’era e continua ad esserci qualche problema sia di 
definizione che d’impostazione.  
E proprio questi problemi e queste contraddizioni ho voluto analizzare e soprattutto la posizione che 
gli intellettuali hanno assunto a riguardo. 
Lungo il nesso intellettuali – industria culturale si situa questo lavoro, in che modo i ceti colti hanno 
assunto una forma il più delle volte pregiudiziali nei confronti dei prodotti culturali, reduci da una 
tradizione di derivazione umanistica e più propriamente idealistica e crociana.  
Il periodo storico è quello che si estende dal secondo dopoguerra, con l’affermarsi delle poetiche 
neorealiste e arriva fino alla metà degli anni sessanta con l’esaurirsi di una spinta avanguardistica 
sotto l’egida del Gruppo 63.  
Sono questi due movimenti, e lo sviluppo dei loro propositi, a fare da cornice, da corollario, allo 
sviluppo della tesi. 
Nel primo capitolo oltre ad un quadro storico è racchiusa quella che si è voluta definire l’“Eredità 
culturale”, nel senso di tradizioni culturali con cui doversi assolutamente confrontare.  
Dalla ingombrante presenza di Benedetto Croce, all’affermarsi delle teorie francofortesi 
sull’industria culturale e sulla cultura di massa, fino all’utilizzo il più delle volte ideologico e 
strumentale del pensiero di Antonio Gramsci, nasce la sfiducia e l’incompatibilità che i ceti colti 
mostrano nei confronti dei prodotti culturali di massa. 
Si è cercato di fare un excursus storico e terminologico sui concetti con i quali confrontarsi, tenendo 
presente che la letteratura sulla materia è vastissima, quindi facendo delle chiare scelte tematiche in 
base alle finalità della tesi. 
Nel quadro generale rientrano anche brevi cenni ai padri con cui confrontarsi, i già citati Croce e 
Gramsci, e Luigi Pareyson, che si inserisce sia come precursore di un atteggiamento d’avversione 
nei confronti dell’idealismo crociano, sia come filosofo che ha anticipato alcune tematiche di 
carattere semiotico nell’elaborazione del concetto di interpretazione. 
Il secondo capitolo, che intitolato “Politica e cultura”, prende in esame soprattutto il fenomeno del 
neorealismo ed alcune personalità intellettuali come voci fuori dal coro, analizzate alla luce di 
quella che è definita da molti “egemonia culturale” della sinistra.  
In quel momento la “cultura prende partito”, sceglie la via della politicizzazione e della 
partitizzazione che la condurrà inevitabilmente ad una incurabile malattia storica con effetti a volte 
disastrosi. 
Se il fenomeno neorealista è analizzato prendendo in esame alcuni nodi problematici che lo 
attraversano, diversa è l’analisi di figure come quella di Elio Vittorini, Italo Calvino e Pier Paolo 
 
V
Pasolini, portatori di un esperienza intellettuale assolutamente originale anche e soprattutto 
all’interno di una cultura fortemente oppressiva come quella marxista del secondo dopoguerra. 
Per Vittorini basti analizzare la polemica condotta sulle pagine del “Politecnico” con il leader 
comunista Togliatti, e la diversa accezione data al binomio politica – cultura; Calvino è visto come 
figura unica nel panorama italiano di lucidità e intelligenza, dotato di una curiosità intellettuale che 
lo rende il prototipo di intellettuale a metà strada tra l’“apocalittico” e l’“integrato”
1
, in un 
atteggiamento che è, nonostante tutto, propositivo nei confronti dei problemi che il mondo moderno 
pone; infine Pasolini come elemento di rottura, che nella contraddittorietà sarà il massimo di 
integrazione e paradossalmente anche di negazione del sistema dei media. 
L’ultimo capitolo riguarda l’altra faccia della medaglia, ovvero il movimento neoavanguardistico 
del Gruppo 63 che nasce come negazione della tradizione precedente e finisce per diventare 
modello di tutte quelle poetiche che da innovative sono inglobate nel sistema per diventare 
anch’esse tradizione. 
Qui, oltre ad un breve cenno alle caratteristiche della avanguardie di inizio secolo, c’è l’analisi di 
un’altra figura fondamentale di intellettuale e nel quadro dello studio sulle comunicazioni di massa 
ed in quanto esponente di spicco del Gruppo 63, mi riferisco ad Umberto Eco e ai suoi studi dei 
primi anni sessanta che introducono nuove metodologie di analisi come quelle semiotiche, 
prendendo come oggetto di queste analisi, primo forse nel panorama nostrano, le forme di consumo 
più smaccatamente popolari come il fumetto, la canzone di consumo, il linguaggio televisivo, ed 
ancorandoli ad un discorso più generale sui movimenti di sperimentazione contemporanei. 
Queste le motivazioni, e questi anche i temi della mia tesi che ho voluto intitolare “Idiosincrasie 
mediali” proprio perché riguarda l’incompatibilità che ha accompagnato la cultura italiana nello 
studio dei prodotti culturali, anche e soprattutto in quelle organizzazioni che si sentivano più vicine 
alle masse e che facevano dell’uso degli intellettuali un  programma politico, mi riferisco alle 
culture cosiddette di sinistra che alla luce della nostra della nostra tesi risultano essere più elitarie 
che massive. 
Mi permetto ora di effettuare dei ringraziamenti a coloro che hanno permesso la realizzazione di 
tutto questto. 
Innanzitutto un ringraziamento particolare va ai miei genitori, per la fiducia che hanno sempre 
riposto in me, per gli insegnamenti più preziosi che ho tratto nei loro comportamenti, per le parole 
dette e per quelle non dette, per la fierezza con la quale ho sempre riconosciuto in loro un fine e mai 
un mezzo. 
                                                 
1
 Cfr. Eco U., Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 2001. 
 
VI 
Ad Adelaide, fiera e fedele compagna di questo viaggio, per non aver mai minato le mie certezze, 
per essere stata sempre la persona che credevo che fosse e che pensavo di no trovare mai. 
Alla mia sorellina, perché incostante, a volte incomprensibile, ma sempre amabile. 
A Davide, per esser stato il mio alter ego, la persona che era li al momento giusto a ricordarmi 
giorno dopo giorno che tutte le esperienze vissute insieme, restano indelebili, scolpite nella mente 
per l’eternità, e soprattutto perché a volte il silenzio è meglio di cento parole. 
Ad Antonio, Archè, Gianluca, Peppone, Talpone, perché l’amicizia non ha scadenze, indicazione 
d’uso o controindicazioni, è quel sorriso degli occhi che parla da sé senza bisogno di interpreti o 
esegeti, che ti incanta a al quale non puoi resistere. 
A Marzia, Santina, Enza, per avermi accolto come un fratello, per avermi sostenuto e capito, per 
esser state sorelle, mamme, ma soprattutto amiche. 
E ancora a tutti coloro che in vario modo mi hanno sostenuto, osteggiato, incoraggiato, evitato, 
parlato, guardato, sfiorato, ignorato, perché da tutti voi ho imparato qualcosa, ho trovato in voi la 
forza di continuare per la mia strada e soprattutto perché ho capito di non essere solo. 
Per tutto questo e tanto latro ancora grazie. 
   
 
VII
LO SCENARIO 
 
  
                               
 
 
 
 
  L’ordine esistente è in sé concluso prima che 
   arrivi l’opera nuovo;  ma dopo che l’opera nuova è comparsa, se l’ordine deve 
 continuare  
                                           a sussistere, deve tutto essere modificato, magari di pochissimo;  
                                                              contemporaneamente tutti i rapporti, le proporzioni,  
i valori d’ogni  
                                                              opera trovano un nuovo equilibrio; e questa è la  
coerenza tra  l’antico e il nuovo. Chiunque approvi questa idea di un ordine, di  
                                               una forma che è propria della letteratura europea non troverà   
assurda l’idea che il passato sia modificato dal presente, 
come lo è  che il presente trovi la propria guida nel passato 
                      
  Tomas Sterne Eliot,  Tradizione e talento individuale. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
                                                                        
I. 
LA STORIA 
 
 
 
1. Cenni storici 
 
1.1. Uno sguardo sul mondo 
 
La fine della seconda guerra mondiale segna l’inizio di una serie di trasformazioni politiche e 
sociali senza precedenti, la più eclatante delle quali è, a partire dal 1945, il tramonto dell’egemonia 
dell’Europa occidentale, e la definitiva affermazione di due nuove grandi potenze, gli Stati Uniti e 
l’Unione Sovietica. Rese più forti dall’impegno di organizzazione militare e interna richiesto dalla 
guerra, esse sono ora destinate a diventare i poli di due sfere di influenza antitetiche: quella 
capitalista e quella comunista. Da questo momento condizioneranno, o addirittura determineranno, 
le vicende politiche, economiche, culturali e sociali dell’intero pianeta sino alla fine degli anni 
Ottanta, quando l’Urss si sfalderà, provocando il crollo del blocco comunista e la fine del 
socialismo reale. 
 Ai nostri giorni, pertanto, un solo sistema sembra sopravvivere e prosperare, quello capitalista, pur 
con le innumerevoli sfumature e le tante realtà estremamente diversificate con cui si presenta. 
Quella capitalista è una società nella quale, volenti o nolenti, ci ritroviamo tutti, se si escludono gli 
estremi retaggi oramai antistorici dell’esperienza comunista (Cuba e Corea del Nord) e il grande 
enigma della Cina, per la quale le tradizionali classificazioni di comunismo e di capitalismo 
sembrano inadeguate a definirne il volto, tanto complessa e peculiare è la sua realtà sociale, 
ideologica e politica che comunque si presenta ormai come il nuovo colosso dell’economia 
mondiale con il quale fare i conti. 
Gli Stati Uniti, usciti dalla guerra con il potenziale industriale intatto e sostenuti dalla produttività di 
un sistema economico capitalistico avanzato, che li mette in grado di costruire più navi, più aerei, 
più manufatti di qualunque altro paese del mondo, propongono un modello “democratico” basato 
sul concetto della libera iniziativa e sull’efficienza industriale. 
Dal canto suo l’Unione Sovietica, che ha dato il maggior contributo per sconfiggere il potente 
avversario tedesco, ha subìto perdite umane e materiali rilevantissime, che la impegnano oltre 
misura nella fase di ricostruzione. Essa, apparentemente capace di assicurare lo sfruttamento 
integrale e il pieno impiego delle risorse ricorrendo alla pianificazione economica, rappresenta il 
modello di sviluppo sociale d’impronta comunista. Su queste premesse in pochi anni l’Urss 
11 
                                                                                                LO SCENARIO 
 
consolida il dominio sui paesi dell’Est occupati nel corso della guerra, imponendo con la 
forza regimi filosovietici in Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania e Cecoslovacchia, mentre con un 
potente apparato repressivo controlla la situazione interna. 
L’occupazione militare della Germania si risolve in una vera e propria divisione del paese: la 
Repubblica democratica, sotto l’influenza sovietica, da un lato e Repubblica federale, sotto 
l’influenza occidentale, dall’altro. Inizia così la “guerra fredda”, vale a dire quel duro confronto 
globale (economico, politico, sociale, culturale ecc.) che contrapporrà per molti anni le due grandi 
potenze, raggiungendo punte di altissima tensione che hanno rischiato di sfociare più volte in uno 
scontro armato diretto. 
Un lento e graduale processo di distensione prende le mosse nel 1956 con il XX Congresso del 
partito comunista sovietico, e, pur con mille difficoltà, negli anni successivi si afferma la politica di 
equilibrio fra i due sistemi antagonisti. I maggiori artefici di questo processo sono il presidente 
americano John Fitzgerald Kennedy e il premier sovietico Nikita Sergeevic Kruscev. 
Intanto la fisionomia del mondo subisce mutamenti profondi: la decolonizzazione in Africa e in 
Asia crea nuovi stati, ma lascia in eredità difficili situazioni, alle quali si aggiungono l’insorgere di 
tendenze nazionalistiche o i contrasti dovuti all’una o all’altra etnia. Le tensioni e i conflitti interni e 
quelli con l’Occidente sono particolarmente gravi nei paesi arabi, usciti dall’ambito del protettorato 
britannico. Una questione cruciale è la formazione dello Stato d’Israele nel 1948, che dà inizio allo 
scontro diretto fra gli Stati arabi appoggiati dall’Urss e Israele sostenuto dagli Usa. Essa si trascina 
fino ai nostro giorni, sia pure con maggiori prospettive di ricomposizione, mentre il dialogo fra 
Palestinesi ed Ebrei sembra ormai un processo irreversibile, al di là delle inevitabili pause e ricadute 
periodiche. 
Una nuova drammatica crisi internazionale si apre con la questione di Cuba nel 1962 e con 
l’intervento armato degli Stati Uniti nel Vietnam nel 1964. 
Nel corso degli anni Sessanta, in tutto il mondo occidentale serpeggiano un senso di insicurezza e 
una profonda inquietudine, ma solo alla fine del decennio essi acquistano una fisionomia concreta e 
precisa con l’esplosione di violente proteste studentesche, che partono dall’università statunitense di 
Berkeley, in California, e si propagano a macchia d’olio in gran parte dell’America, a Parigi e in 
altre città europee. Si apre così un periodo in cui molti valori fino ad allora considerati fondamentali 
verranno messi in discussione e saranno rifiutati ogni ruolo e autorità tradizionali: ciò darà luogo ad 
un fenomeno sociale, la “contestazione”, che avrà profonde ripercussioni politiche e culturali. 
Sul piano economico e sociale, gli anni Settanta rappresentano per il mondo intero un nuovo 
momento di difficoltà: il motivo contingente è l’aumento del prezzo del petrolio deciso dai paesi 
produttori, ma ad esso si aggiungono le lotte sindacali, la crescita dei salari e quindi del costo del 
12 
I. LA STORIA 
lavoro, una minore produttività, l’aumento delle spese sociali, la diminuzione dei consumi, e altri 
elementi ancora.  
Nello stesso periodo riceve notevole impulso il processo di costruzione dell’unità europea, iniziato 
nel lontano 1957 e che sta raggiungendo traguardi significativi proprio in questi anni, alle porte del 
terzo millennio. 
Il quadro internazionale subisce nuove radicali trasformazioni nel decennio successivo: un 
momento cruciale in questo senso è il 1985, anno in cui viene eletto segretario del partito comunista 
sovietico Michail Sergejevic Gorbaciov, che avvia nel suo paese un faticoso ma inarrestabile 
passaggio a nuovi metodi politici e amministrativi, improntati ad una maggiore modernità, 
trasparenza e libertà interne: una “ristrutturazione” profonda dall’interno del sistema comunista. Il 
processo noto come perestrojka ha conseguenze di portata incalcolabile per il mondo intero, anche 
se non salverà il regime sovietico dal tracollo che avverrà di lì a poco. 
La cronaca mondiale degli ultimi anni è densa di eventi che si succedono repentinamente, creando 
sconvolgimenti economici, sociali e politici di vastissima portata. Nel 1989 cadono l’uno dopo 
l’altro i regimi comunisti, prima in Polonia e in Ungheria, poco dopo nella Germania orientale (una 
caduta che determina la riunificazione delle due Germanie nel 1990), in Bulgaria e infine in 
Cecoslovacchia. Nel 1991 anche l’Unione Sovietica si disgrega, smembrandosi in una serie di 
repubbliche che tuttora stanno attraversando una delicata fase di transizione. Il clima di distensione 
fra Est e Ovest e l’unificazione europea hanno aperto nuove prospettive e speranze nel mondo, ma 
numerosi problemi sono ancora lontani dall’essere risolti. La frattura fra il Nord e il Sud del pianeta 
rimane assai profonda, e in assoluto essa rappresenta la sfida principale dei nostri tempi; tuttavia 
ulteriori motivi di preoccupazione sono determinati dalla situazione nei paesi medio- orientali, dove 
si profilano all’orizzonte nuovi episodi di tensione. Le tragiche conseguenze dovute al riaffiorare di 
nazionalismi e contrasti etnici in vari paesi, soprattutto nell’Europa orientale, nei Balcani e in Africa 
sono storia di questi giorni. 
Passata la paura per uno scontro atomico tra i due blocchi subentra, oggi, la psicosi collettiva che 
colpisce gli Stati occidentali a seguito degli attentati terroristici che hanno sconvolto la normalità 
della vita quotidiana. Prima l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, poi le bombe nella 
stazione di Madrid l’11 marzo 2004 e per finire il sangue nelle metropolitana londinese il 7 luglio 
2005. Un’offensiva da parte dei terroristi di matrice islamica che mina le certezze di tutti noi e che 
si pone come il vero incubo del XXI secolo. 
 
   
 
 
                  
13
        
                                                                                                LO SCENARIO 
 
                                                
1.2.   In Italia 
 
L’Italia del dopoguerra partecipa alla dinamica della storia internazionale nel suo complesso, anche 
se, com’è ovvio, i problemi specifici le conferiscono una fisionomia particolare. 
La situazione italiana risente degli avvenimenti del che vanno dall’8 settembre del ’43 fino al 
biennio ’47-48, che costituiscono delle vere e proprie cesure. Dopo l’8 settembre “ci sono due 
patrie, due Italie, due nazioni che, in nome degli stessi valori di patriottismo e di difesa della 
patria, si combattono l’un l’altra, [...] e c’è una terza Italia, il popolo italiano nella sua 
maggioranza, che in qualche modo “assiste” a questo scontro e a questa guerra civile.”
1
  
Il trauma che si sviluppa è forse il lascito più significativo che resta della seconda guerra mondiale 
oltre al consolidarsi del divario esistente tra nord e sud, in questo caso riguardo alle modalità della 
liberazione. 
Se al sud ci si occupa già da due anni dei problemi della ricostruzione, la Resistenza al nord rende 
quella parte d’Italia più partecipativa, più entusiasta per la Liberazione imminente. Questa diversità, 
insieme ai problemi storici presenti nel meridione d’Italia già durante il Risorgimento, andrà a 
consolidare un modo di intendere lo Stato che ancora oggi va per la maggiore e porterà alla nascita 
di movimenti secessionisti in tempi recenti. 
Il primo faticoso impegno del paese, dopo cinque anni di guerra che lo hanno lasciato nella 
devastazione e nella misera, è la ricostruzione.  
Dalle ceneri del conflitto l’Italia esce infatti assai prostrata, con il potenziale civile e produttivo in 
larga parte distrutto o inadeguato alle nuove esigenze, data la condizione di generale arretratezza 
economica in cui il paese versava anche prima della guerra. Si tratta quindi di ricostruire le 
infrastrutture e in molti casi anche le strutture stesse dell’economia partendo quasi da zero. 
Il piano Marshall americano, che prevede aiuti per i paesi dell’area occidentale, offre un notevole 
contributo e consente di avviare la ripresa economica, che si effettua grazie al profondo e corale 
sforzo di tutte le componenti sociali; ma i problemi italiani dell’immediato dopoguerra non 
riguardano solo il versante economico, bensì anche le istituzioni e la stessa situazione politica. 
Dopo la caduta della monarchia, sancita da un referendum popolare indetto nel 1946 che decreta la 
forma di istituzione repubblicana dello Stato, viene eletta un’apposita assemblea, l’Assemblea 
costituente, con il compito di redigere la Costituzione, la cui stesura viene completata nel dicembre 
del 1947. 
Nel frattempo l’unità delle forze antifasciste si spezza e si affermano due grandi schieramenti, 
quello cattolico legato alla tradizione popolare e all’influenza della Chiesa, rappresentato 
 
1
 Zani L., La terza Italia dell’uomo qualunque, in Morcellini M. – De Nardis P., Società e industria culturale in Italia, 
Meltemi, Roma 1999, p. 78. 
14 
I. LA STORIA 
politicamente dalla Democrazia cristiana, e quello comunista che fa capo al Pci. La rottura delle 
forze del Cln è un altro spartiacque nello sviluppo della società italiana del dopoguerra. 
Le elezioni del primo Parlamento repubblicano, che si svolgono nell’aprile del 1948 in un clima di 
forte passione politica, si concludono con la vittoria della Dc e, quindi, la sconfitta del Pci, alleato 
con i socialisti nel Fronte popolare. 
La ripresa economica nel dopoguerra è decisa e costante; dagli anni Cinquanta l’incremento della 
produzione industriale, la crescente motorizzazione, il basso costo della manodopera e delle materie 
prime, la disponibilità di capitali accelerano la fase di crescita del paese, consentendo un 
miglioramento del tenore di vita. 
Il grande sviluppo dei paesi occidentali nel dopoguerra si lega quindi in primo luogo alla 
produzione di beni di consumo destinati a settori molto ampi della popolazione: l’industria produce 
ora oggetti e strumenti di cui possono essere acquirenti anche le famiglie operaie e che, diffusi su 
vasta scala, modificano i caratteri della vita sociale.  
I maggiori beneficiari però sono i settori legati alla grande produzione industriale, appoggiati dai 
sindacati, mentre restano pressoché immutate le condizioni dell’agricoltura, causa del crescere dello 
squilibrio tra Nord e Sud, che si rispecchia nella estesa migrazione interna. 
Sul piano politico, l’evento più significativo dei primi anni Sessanta è la nascita dell’alleanza fra la 
Dc e il Psi, il centro-sinistra, che, sia pure fra molte difficoltà e contraddizioni, inaugura l’epoca 
delle riforme e delle nazionalizzazioni, e rappresenta nell’insieme una fase ricca di risultati positivi. 
Con il centro-sinistra lo scontro ideologico fra l’area cattolica e il partito comunista si attenua, 
mentre anche la Chiesa contribuisce al nuovo clima di distensione, grazie all’impegno del papa 
Giovanni XXIII.  
Il processo di accelerazione industriale culmina nel cosiddetto “miracolo economico” e fa 
registrare, oltre ad un diffuso benessere, un’intensa urbanizzazione. Il paese accoglie quasi con 
euforia i benefici effetti del boom, e un clima di maggior prosperità sembra riversarsi, forse per la 
prima volta, anche su ampi strati del mondo operaio e contadino.  
La moneta appare forte come mai in precedenza, l’inflazione è pressoché inesistente, la 
disoccupazione a livelli più che accettabili, il quadro politico, al di là dei frequenti cambiamenti di 
governo, stabile e ancorato a valori occidentali. La vita quotidiana di strati sempre maggiori della 
popolazione è modificata dalla presenza dei nuovi beni di consumo, che facilitano l’esistenza, 
creando nuove abitudini e nuovi comportamenti.  
I mezzi di comunicazione di massa diffondono in modo capillare messaggi e forme che avevano 
caratterizzati fin dall’inizio lo sviluppo della modernità, ma avevano in precedenza agito solo su 
alcuni strati della popolazione urbana. 
                  
15
        
                                                                                                LO SCENARIO 
 
I comportamenti più minuti e l’orizzonte più generale dell’esistenza vengono ad 
uniformarsi in funzione della produzione e del consumo: caratteri questi tipici della cultura di massa 
che come avremo modo di vedere suscitano un notevole allarme nel mondo intellettuale. A questi 
processi si accompagnò un progressivo aumento della scolarizzazione, con un passaggio, non privo 
di contrasti, da una scuola d’élite a una scuola di massa. 
La civiltà cittadina ed industriale, basandosi sull’impiego delle grandi masse di uomini, sulla loro 
integrazione nei processi produttivi del consumo, necessita della diffusione di un livello di cultura 
minimo e omogeneo che renda possibile il contatto e la collaborazione tra i singoli individui. Anche 
per questo nelle aree industriali ed urbane prima e in quelle contadine poi, l’alfabetizzazione tende a 
raggiungere un livello di massa. 
Il veloce cammino del progresso, che comprende fenomeni di omogeneità culturale, porta 
automaticamente a compimento quell’unificazione linguistica del paese invano cercata dal tempo 
dell’unità politica. 
E’ proprio di quegli anni un incontro – scontro tra una lingua italiana “media”, di tipo burocratico, 
ricca di formule retoriche, legate ancora a radici umanistiche, e la vitalità dei diversi dialetti, legati a 
situazioni concrete, espressioni del popolo che con la Resistenza sembra finalmente giunto alla 
ribalta della storia. I più intensi rapporti tra le varie zone del paese, le migrazioni interne, i mezzi di 
comunicazione di massa, creano nuovi interazioni e intrecci linguistici, e nello stesso tempo nuove 
difficoltà di comunicazione. Le tradizioni dialettali, che persistono nell’uso delle comunità locali, si 
scontrano con la lingua comune, con il linguaggio della produzione e del consumo, con le forme 
della comunicazione di massa. La secolare questione della lingua sembra avviarsi ad una soluzione 
automatica, in modo indipendente da tutte le iniziative degli intellettuali, per effetto delle forze 
produttive e dell’espansione industriale.  
Si tratta di una tendenza inarrestabile, ma non ancora del tutto assestata. Ancora negli anni Sessanta 
alcune situazione sociali risultano immuni dagli effetti del nuovo sviluppo e vedevano sopravvivere 
le ultime tracce della tradizionale civiltà contadina.  
Ma il processo è ormai innescato e si sarebbe definitivamente affermato nel corso degli anni 
Settanta. 
Mentre la fine degli anni Sessanta vede esplodere anche in Italia il fenomeno della contestazione, 
come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti. La rivolta giovanile esprime il disagio della generazione 
nata nel dopoguerra, che non si riconosce nei modelli economici del capitalismo borghese e rifiuta 
l’opulenta società occidentale.  
I giovani ribelli vivono quella società come un luogo d’alienazione e di sudditanza alle leggi del 
consumismo, ne criticano la violenza aperta o sotterranea, giudicandola fonte di squilibri e di 
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I. LA STORIA 
ingiustizie sociali, la accusano di livellare i bisogni e le idee riducendo l’individuo a merce. Il 
movimento di contestazione chiede forme di cultura moderne e strutture più adeguate ai tempi di 
quelle trasmesse da un’organizzazione scolastica ritenuta antiquata e inefficiente.  
A distanza di trent’anni è ancora molto difficile determinare con esattezza il valore del movimento 
studentesco e i suoi riflessi sullo sviluppo della società italiana.  
È un dato di fatto innegabile che esso ha avuto un’impronta velleitaria e prospettive utopistiche e 
che le sue posizioni, a volte pericolosamente settarie, hanno contribuito in larga misura a fissarne il 
fallimento e a lasciare un senso di profonda disillusione in coloro che vi avevano riposto la loro 
fiducia, oltre a spargere sul terreno pericolosi germi di violenza e di intolleranza.  
D’altra parte, va anche aggiunto che il movimento del 1968 si fece portatore di generose istanze 
egualitarie e libertarie, e determinò la crisi e il crollo di strutture mentali e sociali ormai superate dai 
tempi e, in qualche caso, pericolose per la stessa democrazia del paese. 
Si potrebbe, dato il rilievo che il 1968 assunse come data, fissare in quell’anno il confine tra due 
epoche diverse, quella della ricostruzione e della crescita economica del dopoguerra, segnata dalla 
guerra fredda e dallo scontro tra i grandi blocchi, e quella della nuova società planetaria. 
Accanto alle lotte studentesche, nell’autunno del 1969 ripartono le lotte sindacali nelle fabbriche: 
sono gli albori di uno dei periodi più oscuri e convulsi della storia italiana di questo dopoguerra, gli 
anni Settanta. Quest’epoca buia nella quale ristagno economico, inflazione, disoccupazione, nuovi 
bisogni e nuovi modelli sociali, lotta politica e sindacale si uniscono nel determinare una miscela 
esplosiva, vede incrementare il gravissimo fenomeno del terrorismo, sul quale non si è ancora fatta 
del tutto chiarezza. Sia di matrice “nera”, teso ad una svolta autoritaria, che “rossa”, con l’intento di 
colpire al cuore la struttura dello Stato, esso dilaga nel paese producendo attentati, omicidi, stragi, 
mentre resta ancora da stabilire il ruolo svolto dai servizi segreti.  
L’apice del dramma è raggiunto nel 1978, quando il presidente della Democrazia cristiana, Aldo 
Moro, viene rapito e ucciso insieme alla sua scorta dalle Brigate rosse, la più efficiente 
organizzazione terroristica di sinistra. In seguito il fenomeno declina e viene represso dagli organi 
dello Stato, lasciando tuttavia insoluti molti interrogativi.  
Il frenetico succedersi degli eventi internazionali incide profondamente anche nel nostro paese, che 
aggiunge ai problemi tipici di tutte le società avanzate i gravi scompensi dovuti ad uno sviluppo 
economico e sociale disorganico e ad una struttura statale spesso inefficiente. 
Chiusa definitivamente la partita con il terrorismo, il paese usufruisce negli anni Ottanta di una 
nuova fase di stabilità, allorché le forze cattoliche, laiche e socialiste recuperano un rapporto di 
attiva collaborazione, che passa, per la prima volta dall’avvento della Repubblica, anche attraverso 
                  
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governi a guida non democristiana. Tuttavia a partire dai primi anni Novanta il paese è 
interessato da una ventata di profondi mutamenti.  
A seguito di numerosi scandali che inquinano pesantemente la vita pubblica, la magistratura opera 
una salutare azione di pulizia, conosciuta col nome di “Mani pulite” e determina una radicale 
revisione del sistema partitico. I partiti tradizionali ne escono profondamente indeboliti, se non del 
tutto sfasciati, per cui sono costretti a cambiare fisionomia; inoltre, nascono nuove aggregazioni 
politiche.  
Contemporaneamente si opera una modifica delle regole elettorali per adeguarle alle esigenze della 
società, mentre l’azione di risanamento dei conti pubblici attuata dai vari governi apre la strada al 
pieno inserimento dell’Italia nell’Unione europea fin dal primo momento. Dalle ceneri dei vecchi 
partiti ne nascono dei nuovi che si vogliono alternativi ma che in sostanza mantengono la vecchia 
nomenklatura travestita sotto le due grandi chiocce del centrodestra e del centrosinistra. 
Ad una prima fase di consolidamento del sistema bipolare ne segue una seconda di nostalgia verso 
il proporzionale con le rivendicazioni dei partitini che a seguito delle elezioni intermedie vedono 
crescere il loro peso all’interno delle rispettive coalizioni. 
Ma oltre alle vicissitudini politiche anche la fragilità economica che ha connotato la prima fase 
dell’esperienza europea, la mancanza di competitività delle nostre industrie sul mercato globale, 
causa anche dell’invasione cinese in quei settori che per anni ci hanno visto all’avanguardia come il 
manifatturiero e il tessile. 
Questo una sguardo laconico agli ultimi cinquant’anni di storia, dove le vicende politiche ed 
economiche si sono intrecciate con quelle sociali e culturali rendendo lo scenario molto più 
complesso di quello che potrebbe sembrare. 
Come postmoderne Arianne cercheremo di dipanare la matassa cercando di fare chiarezza anche su 
quei temi di cui oggi si pensa di aver detto tutto. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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