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Introduzione 
Il problema delle risorse comuni 
 
Le risorse comuni si definiscono come beni non escludibili e rivali nel 
consumo: sono beni utilizzati da più individui, rispetto ai quali emergono 
difficoltà di esclusione e il cui “consumo” da parte di un attore riduce la 
possibilità di fruizione da parte degli altri. Se da un lato non si può 
impedire ad altri di godere di quelle risorse e chiunque può sfruttarle 
gratuitamente senza che venga  posto un limite, dall’altro l’uso di una 
risorsa da parte di un individuo può diminuire o impedire il godimento 
della stessa da parte di altri. L’individuo che si appropria del bene comune 
gode del  beneficio per intero, mentre il costo che sosterrà è una piccola 
parte in quanto esso verrà ripartito tra tutti gli utenti.  
Il primo problema delle risorse comuni è  quello del free-riding, fenomeno 
per cui chi beneficia di un bene, di una risorsa, non ne paga il prezzo. Dato 
che gli individui hanno un incentivo a comportarsi da free-rider la 
conseguenza negativa che ne deriva è il saccheggio della risorsa comune. 
Nello stesso tempo nessuno è incentivato a darsi da fare per migliorare il 
bene perché sosterrebbe per intero un costo per appropriarsi solo in 
parte di un beneficio. Il problema del free-riding si manifesta quando 
conduce all’eccessivo uso di una risorsa di proprietà comune. Il free-rider 
si comporta come un egoista che non assume alcuna responsabilità nei 
confronti della società. Poiché nessuno può essere escluso dal godimento 
dei benefici di un bene pubblico ciascuno agirà confidando sul fatto che   
gli altri pagheranno per la produzione del bene; ma se tutti fanno lo 
stesso ragionamento, non ci sarà incentivo alla produzione privata del 
          
 
 
 
 
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bene. Dunque da chi verrebbe prodotto il bene? Dal policy maker, il quale 
o fornisce direttamente il bene finanziandone la produzione oppure può 
utilizzare il gettito fiscale per pagare un produttore privato perché 
produca il bene.  
 Il fenomeno del free-riding si manifesta  in ordine ai beni pubblici e anche 
alle risorse comuni; ma che cosa li distingue, cosa c’è di diverso nell’uno e 
nell’altro caso? Ciò che li distingue è la rivalità: il godimento dei benefici 
che derivano da una bene pubblico da parte di un individuo non 
diminuisce il godimento da parte di un altro e quindi il problema non è 
quello del consumo eccessivo, bensì quello della  produzione del bene 
pubblico; mentre nel caso delle risorse comuni, esse molto spesso già 
esistono e pertanto non bisogna produrle, dunque il problema è di ridurre 
o evitare lo sfruttamento eccessivo che porta alla distruzione della 
risorsa, danneggiando così le generazioni future 
 Nel 1968  Garret Hardin scrisse un articolo intitolato “The tragedy of the 
commons” in cui preannunciava il destino delle risorse comuni. L’articolo 
di Hardin costituisce il punto di partenza del dibattito contemporaneo 
sull’argomento. Hardin, biologo di formazione, fu uno specialista del 
problema dell’incremento demografico mondiale. Secondo Hardin il fatto 
stesso che i commons (le risorse comuni) siano di libero accesso e che 
non esista la possibilità di limitare il numero degli utilizzatori porta ad una 
situazione in cui il comportamento razionale individuale non può che 
causare il degrado o la distruzione della risorsa stessa, poiché gli 
utilizzatori si trovano intrappolati in una tragedia della libertà basata su di 
un irrisolvibile conflitto tra interessi individuali e interesse collettivo, con 
l’inevitabile prevalere del primo sul secondo e da cui è possibile uscire 
solo con l’intervento di un’autorità esterna, di norma lo Stato. 
          
 
 
 
 
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 L’esempio classico a cui si fa riferimento è quello del villaggio medievale 
in Inghilterra: nessuna famiglia era proprietaria del terreno, che era 
quindi di proprietà collettiva; tutti i residenti avevano il diritto di farvi 
pascolare le loro pecore. Ciò che caratterizza la proprietà collettiva è 
l’esistenza di una comunità regolamentata per cui chi rispetta le regole ha 
diritti sul bene comune  e chi non le rispetta non ha alcun diritto; invece 
le res nullius sono cose di nessuno e il bene diventa di proprietà di chi ne 
viene in possesso. Con il passare degli anni aumentava la popolazione, ma 
anche il numero di pecore portate al pascolo. La conseguenza fu che la 
terra venne tanto sfruttata da divenire sterile. Ciò dimostra che quando 
un gruppo di individui sfrutta in modo eccessivo una risorsa collettiva 
impedisce ad altri di goderne nella stessa misura e provoca la distruzione 
del bene. 
 Hardin sostiene che “freedom is the recognition of necessity” cioè la 
libertà nell’uso dei beni comuni deve basarsi sul rispetto delle regole 
imposte dalla limitatezza delle risorse e dalla loro naturale capacità di 
rinnovamento. Nell’esempio del villaggio medievale l’appezzamento 
veniva  diviso tra le famiglie residenti e ciascuna di esse aveva il diritto di 
recintare la parte assegnata. Attraverso la recinzione, delimitando i 
confini di quel bene in origine comune, si pone un freno al libero accesso 
e al libero sfruttamento della risorsa e di conseguenza il bene sarà 
utilizzato in modo ottimale in vista di un suo miglioramento e non di una 
distruzione a cui sarebbe stato altrimenti soggetto.  
Già il filosofo greco Aristotele aveva individuato il problema delle risorse 
comuni affermando che “ciò che è comune alla massima quantità di 
individui riceve la minima cura. Ognuno pensa principalmente a se stesso, 
e quasi per nulla all’interesse comune” (Politica, Libro II cap.3). Come si 
evince da queste parole, Aristotele sottolineava il mancato rispetto 
          
 
 
 
 
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dell’uomo per il prossimo e il suo spiccato egoismo che lo rende un 
perfetto free-rider, un individuo che consuma più della quota socialmente 
efficiente di  una risorsa pubblica ad esso spettante o fronteggia meno di 
una congrua parte dei costi per la sua produzione. 
Dunque le ipotesi tradizionali di risoluzione dei problemi legati alle risorse 
comuni sono due: quella sostenuta da Hardin, cioè l’intervento dello 
Stato che assume la proprietà pubblica della risorsa e ne organizza lo 
sfruttamento, oppure la privatizzazione, ipotesi sostenuta in particolare 
dagli economisti. 
Su questa ipotesi si è formata una scuola di pensiero detta “Scuola di 
Chicago” la cui visione può essere riassunta in questa frase: “i diritti di 
proprietà attribuiscono agli individui il potere di scegliere qualsiasi 
utilizzazione di una risorsa in un insieme di utilizzazioni consentite” 
(Alchain, 1989). La proprietà privata non comporta solo il potere di 
utilizzare il bene in qualsiasi modo, ma anche l’obbligo di utilizzarlo 
cercando di non danneggiare, e quindi di rispettare, la proprietà altrui; se 
ad esempio un soggetto è proprietario di un ristorante dal quale vengono 
emanati cattivi odori e fumi sul terreno a fianco, si modificano le 
caratteristiche fisiche della proprietà altrui causandone un danno. 
“Ma perché esistono i diritti di proprietà? Diversi sono i fattori che 
giustificano la loro esistenza: 1) l’incentivo a conservare e migliorare le 
cose; 2)per agevolare il trasferimento dei beni quando questo risulti 
vantaggioso agli individui, ad esempio quando qualcuno non ha più la 
possibilità di coltivare il proprio terreno oppure vuole trasferirsi; 3) la 
possibilità di evitare controversie per l’appropriazione dei beni” (S. 
Shavell, 2007). 
          
 
 
 
 
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La Scuola di Chicago sostiene quindi che la possibilità di risolvere il 
problema delle risorse comuni risieda nella esatta definizione di diritti di 
proprietà, ipotesi sostenuta anche da Ronald Coase il quale dimostra, nel 
suo teorema, come il mercato possa giungere ad un equilibrio sociale 
migliore rispetto all’intervento dello Stato o della regolamentazione. 
 Il meccanismo del mercato per funzionare deve coesistere con la piena 
assegnazione dei diritti di proprietà. Per diritto di proprietà si intende   un 
fascio di poteri accompagnati da limiti; è l’attribuzione ad un soggetto del 
potere di utilizzare liberamente, nei limiti consentiti dalla legge, un certo 
bene o servizio. Ipotizziamo che un imprenditore industriale abbia il 
diritto di uso di un bene e che,  pur rispettando i limiti fissati dalla legge, 
produca dagli stabilimenti un cattivo odore nei pressi della fabbrica 
causando un’ esternalità negativa che rappresenta “l’effetto dell’azione di 
un soggetto economico sul benessere di altri soggetti non coinvolti 
direttamente nell’azione: se tale effetto è dannoso avremo un’esternalità 
negativa” (Mankiw, 2007). Gli abitanti residenti del circondario e gli 
esercenti sono danneggiati infatti nel minore giro d’affari, nella perdita 
del valore patrimoniale delle case e nella minore qualità della vita. 
L’impresa inquinatrice tende a massimizzare la produzione e gli inquinati 
subiscono il danno economico dell’inquinamento. Il teorema di Coase 
dimostra che se gli inquinati negoziano con l’inquinatore, entrambe le 
parti otterranno un vantaggio; l’imprenditore si impegna a ridurre la 
produzione e gli inquinati offrono in cambio una compensazione 
economica. Dunque le famiglie e gli esercenti pagheranno l’impresa per 
far ridurre la produzione e quindi l’inquinamento. Il processo può essere 
anche inverso per cui l’imprenditore chiede di aumentare la produzione 
offrendo in cambio una compensazione economica, cioè pagandoli.