2. Ha toccato?  
  
Un piccolo passo per l'uomo ma un grande balzo per l'umanità. Tanti piccoli 
interventi tra i molteplici settori dell'economia europea, anzi, mondiale, ci 
permetteranno di fronteggiare al meglio le avversità date dalla crisi climatica ed 
ambientale attuale e ad impedire che il nostro amato Pianeta venga distrutto. Ma 
davvero quest'uomo ha toccato la luna d'Europa come sostiene Ursula Von Der 
Leyen? Davvero il Green Deal europeo, qualora gli Stati membri dovessero 
rispettarne i vincoli con gran zelo e convinzione, riuscirà a guidarci verso la 
creazione di un mondo più sano ed equo da un punto di vista tanto climatico e 
ambientale quanto sociale? Sono così efficaci le soluzioni che propone, le tappe per 
cui intende procedere?  
Vorrei riportare qui l'esperienza di un ingegnere chimico, Joseph R. Loer, che credo 
sia fondamentale per rispondere a queste domande. L'esperienza lavorativa da cui 
intendo partire viene riportata da Loer in un breve saggio pubblicato su 
"Ecofeminism. Women, Culture, Nature" dal titolo "Ecofeminism in Kenya. A 
chemical engineer's perspective" (Loer, 1997).  La storia si svolge in Kenya, nella 
regione di Tharaka e più precisamente nel villaggio di Kondo. Priva di acqua potabile 
ed elettricità e con un terreno particolarmente arido, la regione di Tharaka è 
considerata la zona più arretrata del Paese dagli stessi abitanti. A portare l'ingegnere 
in una landa così desolata era stato un progetto di approvvigionamento idrico ideato 
tre anni prima dal Ministero per lo Sviluppo Idrico in favore della popolazione del 
villaggio di Kondo. L'idea era quella di costruire un efficace sistema di raccolta 
dell'acqua piovana. Individuata la superficie rocciosa adeguata e costruito un muro di 
cemento armato alto un piede che tenesse lontani tutti i possibili elementi di disturbo, 
quali ramoscelli o piccoli serpenti, si era proceduto con la costruzione del serbatoio 
vero e proprio. Il sistema aveva funzionato per circa una stagione, dopodiché, 
cessato il suo utilizzo, era rimasto in disuso, abbandonato alla rovina. Fu a questo 
punto che il Ministero per lo Sviluppo Idrico decise di intervenire inviando un team di 
ingegneri che potessero non solo ripristinare il vecchio sistema di 
approvvigionamento ma migliorarlo, permettendo così all'acqua di giungere tanto al 
villaggio quanto alla scuola elementare distante mezzo miglio. Il lavoro, strettamente 
tecnico, richiedeva naturalmente la redazione di progetti ingegneristici; il 
tracciamento dei percorsi delle condutture; la costruzione di nuove murature. Tutto 
sommato nulla di diverso da quanto era servito per il primo sistema di 
approvvigionamento ideato. Tale precedente sforzo, tuttavia, poggiava su un 
approccio che da decadi portava al fallimento di tutti i progetti che vi si fondavano: il 
Band Aid Approach
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. 
 
 
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 https://idioms.thefreedictionary.com/band-aid+approach
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Caratteristica precipua di tale approccio era una fiducia particolarmente cieca nei 
confronti della tecnologia; una soluzione frettolosa che mira a mitigare i sintomi ma 
che di fatto non risolve il problema alla base e lascia "il paziente" in uno stato di forte 
dipendenza. I progetti fallivano perché gli esperti chiamati dall'esterno a costruire il 
dato sistema andavano via e quanti rimanevano nei villaggi beneficiari, i locali 
africani nel nostro caso, dovevano attendere il loro ritorno per far fronte a qualsiasi 
guasto. Prima dell'avvio della costruzione del sistema di approvvigionamento idrico, 
gli abitanti di Kondo non avevano mai avuto acqua potabile; quando il sistema era 
fallito la loro unica risorsa fu quella di tornare alla raccolta dai flussi. È sempre così. 
Chi riceve i benefici di certi progetti apprezza in un primo momento la venuta degli 
esperti stranieri: i bambini stanno senz'altro meglio grazie all'aumento del consumo 
di acqua potabile, le donne non passano metà del loro tempo a fare avanti e indietro 
per la raccolta idrica e gli animali possono bere quando vogliono. Ma quando il 
sistema non è mantenuto, si rompe, e nessuno nella comunità possiede le 
conoscenze necessarie per ripararlo, i progressi ottenuti vengono subito dimenticati. 
Finché i membri di una comunità non riconoscono qualcosa come loro e non 
vengono fornite le conoscenze adeguate al mantenimento del sistema di cui stanno 
beneficiando, difficilmente questo verrà preso in cura. Questa volta fu diverso. Il 
lavoro strettamente tecnico, si fosse voluto seguire nuovamente il medesimo 
approccio di tre anni prima, avrebbe richiesto circa tre settimane. Ci vollero invece 
ben quattro mesi per ultimare il sistema, realizzato rigettando il Band Aid Approach e 
con una garanzia di successo nel lungo periodo senza precedenti. Innanzitutto due 
soli ingegneri occidentali vennero inviati a Kondo, tra cui Loer. I restanti cento 
individui coinvolti nel progetto erano kenyoti. Nei Paesi del Terzo Mondo spesso, 
"occidentale" equivale ad "esperto" e i due professionisti americani furono subito 
consapevoli del fatto che le loro voci avrebbero potuto sopraffare quelle dei locali. 
Optarono allora per recarsi ogni giorno al villaggio insieme ad un interprete e ad un 
sociologo. Passate lezioni indicavano la necessità di spiegare gli aspetti tecnici del 
progetto chiaramente e, soprattutto, di integrare i locali nel medesimo. Usando 
questo approccio si cercava di lasciar spazio a conoscenze e cultura locali e di 
creare fiducia tra occidentali e kenyoti. La comunità acconsentì all'avvio del progetto 
soltanto dopo sei settimane di discussione. "Una volta- testimonia Loer- arrivai al 
 
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 https://coreybradshaw.wordpress.com/files/2009/04/band-aidearth.jpg
villaggio e scoprii che il nostro incontro con i locali era stato cancellato poiché tutti gli 
uomini si erano dovuti recare al funerale di un uomo in un villaggio vicino. Capivamo, 
ovviamente, ma ciò significava che avremmo dovuto attendere un giorno in più per 
poter riprogrammare un nuovo incontro per la settimana successiva. Tutti i leader 
della comunità infatti, erano uomini. Le donne e i bambini non avevano alcun potere 
e non potevano assolutamente parlare per loro. Figuriamoci riprogrammare un 
incontro con degli occidentali. All'inizio pensavo che tutto questo fosse inutile e 
sciocco. La gente di Kondo viveva in condizioni pessime: l'acqua era sempre sporca 
di fango; gli allevamenti costantemente minacciati dalle malattie e anche nei periodi 
migliori i capi erano sempre molto magri. I ragazzi avevano i voti scolastici più bassi 
del distretto quindi perché non affrettarsi ed accettare il nostro aiuto? Non lo capii se 
non dopo un po' di tempo. Non era perché non considerassero il progetto utile ma 
perché la loro visione della vita era ciclica, non certo lineare e progressiva. Il 
progresso era certamente qualcosa di buono, ma doveva seguire i loro ritmi. Ogni 
qualvolta si erano fidati degli occidentali esperti avevano visto i loro progetti fallire 
nel giro di un anno, rovinati dall'incuria. Presto capii che in quanto occidentale avrei 
dovuto mettere da parte l'assunto secondo cui chi viene da fuori conosce ciò che è 
meglio per gli altri e permettere ai locali di Kondo di usare la propria voce e rispettare 
il loro stile di vita. Imparai ad accettare che per gli abitanti di Kondo qualche 
settimana di ritardo erano normali. Similmente iniziai a mettere in discussione la mia 
idea di progresso. Costruire il serbatoio nuovo e le annesse condutture, non avrebbe 
cambiato significativamente le vite degli abitanti di Kondo. Le donne specialmente, 
che vedevano il progetto con maggior sospetto, sapevano che le loro vite non 
avrebbero subito alcuna modifica radicale perché il cambiamento non avviene per 
miracolo. Per nessuno. Figuriamoci per loro. Era evidente quanto queste persone, 
con la loro tendenza a vivere una vita semplice e legata alla terra, fossero costanti. 
Era la costanza il perno delle loro vite. E la costanza significava che gli uomini 
assumessero il ruolo degli uomini in quanto pensatori e decisori politici, e le donne 
assumessero il ruolo delle donne, responsabili della raccolta idrica e della cura 
domestica. Gli uomini di Kondo vedevano i grandi benefici di un sistema di 
approvvigionamento idrico. Ma per le donne cosa sarebbe cambiato? Nulla. Ne 
erano consapevoli e per questo guardavano al progetto con sospetto". (Loer, 1997) 
Quanto riportato da J. R. Loer costituisce uno strumento prezioso per comprendere 
quanto una transizione verde equa non sarà mai davvero possibile perseguendo la 
sola via degli investimenti e della tecnologia. La testimonianza dell'ingegnere 
acquista ancora più valore sul piano critico se letta attraverso le lenti di una 
prospettiva ecologica quale l'eco-femminismo o femminismo ecologico. Progetti 
come la costruzione di un sistema di approvvigionamento idrico in Kenya al fine di 
migliorare la vita dei locali, così come una transizione verde per i Paesi sviluppati, 
dovrebbero essere posti all'intersezione di tre fattori chiave, individuati dalla studiosa 
eco-femminista K.Warren: tecnologia, stile di vita locale, femminismo (Loer, 1997). 
Quando analizziamo il rapporto umano-ambiente al fine di perseguire progetti volti al 
miglioramento delle condizioni di vita di una comunità, dobbiamo considerare un 
approccio che tenga conto di questi tre fattori e ancor più della loro intersezione. È 
proprio lì che opera l'ecofemminismo. A Kondo, il primo tentativo di fornire acqua 
potabile aveva fatto esclusivo affidamento sulla scienza e la tecnica, ed era fallito.
Gli ingegneri capirono solo dopo molto tempo che fin quando non avessero 
combinato le loro tecnologie con le prospettive culturali locali, quello che volevano e 
necessitavano davvero, avrebbero continuato a fallire. Ma come conciliare queste 
due prospettive, tecnologica e culturale, con la prospettiva femminista? È senz'altro 
una questione articolata. Il femminismo può essere espresso in molti modi. Nel 
nostro caso, potremmo partire riconoscendo che nella società kenyota esiste una 
separazione tra valori e attributi maschili, come la ragione e la mente, e valori e 
attributi femminili, come la fisicità e l'emotività. Sulla base di questa distinzione i 
maschi devono comportarsi come uomini e le femmine come donne (utilizzo qui il 
termine maschio e femmina in riferimento agli attributi sessuali che differenziano 
biologicamente gli individui). Gli uomini possono e devono discutere tra loro, parlare 
nelle piazze e al mercato; tutto ciò che è spazio pubblico gli appartiene. Le donne, al 
contrario, agiscono nello spazio privato; si prendono cura dei figli e della casa. C'è 
però qualcosa in più. I ruoli maschili non sono solo visti come distinti da quelli 
femminili ma anche in qualche modo superiori. Il femminismo, nella sua versione 
tout court, prevede il riconoscimento e lo smascheramento di queste realtà che sono 
realtà sociali. La società potremmo considerarla come un insieme di individui che 
sulla base dei propri valori legge e interpreta determinati fenomeni quali, ad 
esempio, la costruzione di un sistema idrico. Se lo sguardo della società influenza il 
modo in cui si guarda al progetto e la medesima società è pervasa da una 
differenziazione di genere, allora il femminismo deve essere integrato nell'ideazione 
del progetto per quanto tecnico esso sia. Per esempio quando venne il momento di 
istruire la popolazione circa il funzionamento e il futuro mantenimento dell'impianto, 
racconta Loer, gli uomini fecero subito un passo avanti. Ritenendosi "pensanti" 
(badiamo bene, pensanti in quanto uomini) ritenevano di essere loro i più qualificati a 
gestire l'impianto. Le donne al massimo avrebbero potuto mantenere l'impianto, 
prendersene cura, rispettando così il proprio ruolo nella società. Il peso della cultura 
ricadeva così tutto sulle spalle degli uomini.  
La verità è un'altra.  
Le donne, nell'arco della loro vita, sarebbero state i soggetti certamente più implicati 
nell'utilizzo del sistema. Le loro voci, i loro bisogni, le loro conoscenze riguardo lo 
stato delle acque dovevano necessariamente essere integrate nel progetto. Il punto 
di vista femminile doveva essere integrato nello sviluppo del sistema idrico affinché 
questo potesse risultare efficace nel lungo periodo. Riporta Loer "riuscimmo ad 
integrare queste prospettive femminili nel progetto, insistendo sul fatto che anche le 
donne potessero ricevere adeguata istruzione circa il funzionamento, la gestione e la 
manutenzione dell'impianto. Ciò in cui non riuscimmo fu trasformare il progetto in 
qualcosa che le donne potessero vedere senza sospetto. La posizione del rubinetto 
da cui sarebbe fuoriuscita l'acqua, ad esempio, fu decisa dal consiglio locale 
ignorando completamente la proposta delle donne, le quali spingevano per ottenere 
dall'impianto una riduzione delle distanze da percorrere per l'approvvigionamento. Il 
rubinetto fu posto vicino l'abitazione del capo per riflettere il suo prestigio" (Loer, 
1997). Mentre si trovavano a Kondo gli ingegneri non seguirono alcun principio eco-
femminista nelle loro decisioni. I problemi furono tutti ascritti alla dimensione più
strettamente pratica e tecnologica finché non fu chiaro che, senza ridiscutere dei 
ruoli di genere, anche questo progetto non sarebbe durato più di un anno.  
Questa testimonianza non deve essere assolutamente presa come un caso 
specifico. I problemi che oggi ci troviamo ad affrontare a causa del progresso (per 
come lo abbiamo concepito naturalmente) e del suo impatto sull'ambiente richiedono 
più che mai una analisi critica delle tecnologie; del ruolo che svolgono nelle nostre 
vite; della possibilità che offrono per una transizione verde ed equa. Scriveva Jaques 
Cousteau nel 1981:  
" nato dalla volontà di sopravvivere, ironicamente, il perseguimento di tecnologia e 
progresso ci sta portando alla rovina e sta mettendo a rischio la sopravvivenza di 
tutte le forme di vita, umana e non. Tuttavia chi denunciasse il progresso e la 
tecnologia come unici artefici del disastro nel tentativo di dare una soluzione al 
problema, non avrebbero che una visione parziale. Non dobbiamo dimenticare che il 
processo di civilizzazione che ha riempito le nostre strade di smog è lo stesso che ci 
ha permesso di costruire satelliti con i quali monitorare il pianeta. La tecnologia che 
usiamo per soffocare il pianeta è la stessa che ci permetterà di salvarlo" (Cousteau, 
1981) 
Il ruolo delle tecnologie nella lotta al cambiamento climatico e al disastro ambientale 
potrebbe essere assimilato a quello di una torcia. Suo compito precipuo dovrebbe 
essere quello di illuminare il nostro cammino; fornire stimoli e idee; strumenti efficaci 
di contrasto. Ma si sa, gli strumenti non sono mai intrinsecamente buoni o cattivi, 
solo funzionali. Il movimento ecologista ha spesso sottolineato i problemi connessi 
con una visione scientifica e tecnologica del mondo, positivista potremmo dire. In "La 
morte della natura" di Carolyn Merchant discute di come il femminismo e il 
movimento ecologico, insieme in un felice matrimonio, possano contribuire ad una 
visione critica della tecnologia, riassegnandole il giusto posto all'interno di quella 
grande storia che è la lotta per il clima e per l'ambiente:  
"giustapporre gli obiettivi dei due movimenti può suggerire nuovi valori; fare luce su 
possibili nuove strutture sociali basate non sulla dominazione dell'uomo sulle donne 
e sulla natura, ma sulla piena espressione del talento tanto maschile quanto 
femminile; mantenere l'integrità ambientale" (Merchant, 1988).  
Una posizione eco-femminista ci aiuta a sviluppare una diversa idea di progresso 
basata sulla consapevolezza che l'attuale sistema di dominazione dell'uomo sulla 
natura, che vede quest'ultima come mera risorsa; un corpo inerte, privo di ragione e 
qualitativamente inferiore rispetto alla cultura elaborata dagli umani (umani maschili), 
è strettamente connesso al sistema di dominazione dell'uomo sulla donna. Il 
femminismo ecologico trova posto nell'esperienza di un ingegnere in Kenya perché è 
un "femminismo che tenta di unire le domande del movimento femminista con quelle 
del movimento ambientalista" (Warren and Cheney, 1991). L'ecofemminismo, come 
ramo del movimento femminista, ha come concetto costituente l'idea che il nostro 
modo di guardare al mondo e interpretarne i fenomeni dipende dalla struttura sociale 
nella quale siamo immersi. La struttura patriarcale non esiste soltanto in Kenya ma 
anche qui, nell'Occidente capitalista, e si configura come "una cornice concettuale 
oppressiva che privilegia la visione di genere maschile, legittimando una serie di
comportamenti e relazioni di potere diseguali" (Warren, 1997). Solo se percepiremo 
queste relazioni di potere e il modo in cui ci danneggiano potremo davvero operare 
per un cambiamento positivo e creare visioni alternative in cui la scienza e la 
tecnologia si integrino perfettamente con le "voci locali" per restituire un quadro della 
realtà senz'altro più complesso e realistico, così come un progresso più sostenibile e 
perseguibile. Ora, nessuno di noi da solo possiede le adeguate conoscenze 
scientifiche ed esperienze umane per poter cogliere il mondo nella sua interezza e 
complessità ed è qui che entra in gioco la relazione. La scoperta della dimensione 
relazionale è uno dei grandi contributi del movimento femminista alla cultura dal XX 
secolo in poi. Abbiamo bisogno di un approccio interdisciplinare agli studi scientifici; 
di un contatto tra studiosi e cittadinanze; di un'integrazione tra competenze esperte e 
conoscenze locali; dell'istituzione di una relazione sana ed equa tra esseri umani e 
tra esseri umani e natura. Il modo in cui portiamo avanti la ricerca scientifica dipende 
fortemente dal nostro modo tutto sociale di guardare al mondo. I filosofi eco- 
femministi non hanno solo individuato nella scienza un loro possibile oggetto di 
studio e riforma ma hanno dimostrato come l'ideologia di certi ricercatori e la scelta 
di un dato metodo scientifico influenzino i risultati della scienza stessa. I numerosi 
metodi scientifici che Warren e Cheney situano in un grande continuum vengono di 
volta in volta selezionati dai ricercatori sulla base degli studi che si stanno 
effettuando (Warren e Cheney, 1991). Nessun metodo è oggettivamente più corretto 
dell'altro, piuttosto può risultare più o meno pertinente in base alle ricerche in atto. La 
scienza moderna e la tecnologia indubbiamente sono strumenti indispensabili per lo 
sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo. Ma quando applichiamo le nostre conoscenze e 
competenze scientifiche, e specifiche a questo punto, in un Paese differente, con 
una cultura differente, si richiede prima di tutto una comprensione precisa del 
contesto in cui si andrà ad operare che va oltre la mera raccolta di dati empirici sulla 
composizione dell'aria, dell'acqua e del suolo. Dunque se da una parte è vero che la 
conoscenza scientifica occidentale è di grande aiuto per lo sviluppo sostenibile del 
Sud, dall'altra parte è altrettanto vero che un inappropriato uso della scienza e della 
tecnologia possa provocare danni e addirittura regressi. La voce degli scienziati non 
è più importante della voce dei locali; è la loro integrazione ad essere fondamentale 
per il conseguimento del progresso sostenibile. L'ecofemminismo riconosce questi 
problemi poiché riconosce la relazione come costituente fondamentale per una 
corretta visione del mondo. Una visione ecologica in cui "le relazioni non sono 
qualcosa di estrinseco, qualcosa che viviamo come aggiunto alla natura ed 
esperienza umana. Esse giocano un ruolo fondamentale nel definire il nostro stesso 
essere umani. Le relazioni tra umani e non umani, si tratti di ambienti o agenti 
naturali in senso proprio, contribuiscono alla costituzione dell'umano" (Warren, 
1993). La filosofia eco-femminista chiama affinché la voce delle donne; dei locali; di 
quanti fino ad ora sono stati ai margini della società, natura compresa, emerga per 
costituirsi come un nuovo modo di vedere, conoscere e sentire il mondo. Il contesto 
culturale di applicazione della tecnologia è importante e va tenuto da conto o il 
progetto è destinato a fallire. Purtroppo questa consapevolezza non è ancora 
adeguatamente diffusa e il Green Deal europeo lo ha dimostrato.