II 
Comuni minori a svolgere una serie rilevante di funzioni, quanto 
meno singolarmente, esso non può prescindere da una verifica delle 
reali capacità organizzative degli enti rilevanti e della congruità delle 
loro dimensioni territoriali alle funzioni affidate. 
Il problema, pertanto, è quello della dimensione demografica ottimale 
dei nostri Comuni, della sua correlazione con i principi di efficienza 
ed efficacia dell’azione amministrativa e dell’accorpamento di quelli 
più piccoli perché anch’essi possano essere messi in condizione di 
rispondere alle sempre più pressanti esigenze dei cittadini: in altre 
parole, le ragioni di una gestione razionale, economica ed efficiente 
delle risorse, che in qualche modo si pone come condicio del 
federalismo reale e non solo teorico, suggeriscono una spinta 
all’aggregazione. 
Allo stato attuale, dunque, l’esercizio congiunto ed integrato di 
funzioni e servizi è divenuta la principale risposta al problema di dare 
al governo locale delle dimensioni appropriate, in attuazione del 
principio di adeguatezza previsto dall’art. 4, comma 3, lett. g), l. n. 59 
del ’97 (vale a dire quel principio che richiede l’idoneità organizzativa 
dell’amministrazione ricevente a garantire, anche in forma associata 
con altri enti, l’esercizio delle funzioni conferite). 
Alla luce di quanto detto, il ridisegno, l’irrobustimento e la diffusione 
delle forme associative diventano imprescindibili, e la dimensione 
numerica, l’ampiezza delle circoscrizioni territoriali, nonché la 
struttura organizzativa delle amministrazioni locali, sollecitano, in 
assenza di un radicale intervento sul numero di tali enti, lo sviluppo di 
forme associative e l’istituzione di nuovi organismi sovracomunali. 
Allo scopo di incentivare e stimolare il riordino territoriale di cui 
sopra, venne inserita nella legge sulle autonomie locali (legge 8 
giugno 1990, n. 142) una variegata gamma di strumenti: dalla 
previsione di un programma regionale di modifica delle circoscrizioni 
comunali e di fusione dei piccoli Comuni, al mantenimento di forme 
di partecipazione e decentramento per le collettività dei piccoli 
Comuni fusi; da contributi statali e regionali per favorire le fusioni, 
 III 
alla previsione dell’Unione di Comuni, come nuova forma associativa 
specificamente destinata a questo scopo. 
L’esperienza attuativa di tali previsioni, tuttavia, è stata assolutamente 
deludente, al punto che, se alla vigilia dell’approvazione della legge si 
contavano 8.088 Comuni, ora se ne segnalano 8.103: con un numero 
che, dunque, non solo non è diminuito, ma tende ad un lento e 
costante aumento. 
Le ragioni dell’insuccesso della politica di riordino territoriale del ’90, 
ed in particolare di quella delle fusioni, si ricollegano soprattutto alla 
forte resistenza delle collettività locali, chiuse nella difesa della loro 
autonomia e delle proprie tradizioni di autogoverno: esse, infatti, si 
sono opposte ed ancora si oppongono decisamente ad ogni proposta di 
riduzione del numero dei Comuni, vedendo in tale scelta sia una 
diminuzione di autonomia e di significative prerogative costituzionali, 
sia un attacco alle loro tradizioni storiche. 
Ora, nel quadro di risultati di questo tipo, si è avviato un dibattito che 
ha posto in discussione dalle fondamenta i metodi, se non gli stessi 
obiettivi, seguiti dalla legge n. 142, sino alla svolta segnata dalla l. n. 
59 del ’97 (e, quindi, anche dal d.lg. n. 112 del ’98), dalla l. n. 265 del 
’99 e dal d.lg. n. 267 del 2000, che hanno posto espressamente il 
problema dell’adeguatezza degli enti destinatari delle nuove funzioni. 
In particolare, a partire dal ’97, il legislatore nazionale ha preferito 
seguire un indirizzo diverso rispetto a quello originario della l. n. 142: 
pur non trascurando la possibilità di giungere ad una semplificazione 
del reticolo del sistema di governo locale attraverso delle procedure di 
fusione dei Comuni più piccoli (riordino strutturale), questi ha 
preferito intraprendere la via di sviluppare le forme associative tra gli 
enti locali territoriali, ed è passato, sostanzialmente, dalla politica 
delle fusioni alla politica dell’associazionismo comunale (approccio 
funzionale). 
Così, la prospettiva di un diffuso movimento tendente 
all’accorpamento dei piccoli Comuni in un lasso di tempo 
relativamente breve sembra oramai essere stata abbandonata dallo 
stesso legislatore, che ora pare piuttosto perseguire un migliore 
 IV
esercizio di funzioni e di compiti mediante forme associative 
liberamente scelte dai Comuni: in particolare, questi ha dettato una 
disciplina generale ed organica degli strumenti consensuali dell’azione 
amministrativa, prevedendo una varietà di ipotesi tra loro distinte, in 
modo da consentire agli enti locali di scegliere la forma di 
collaborazione più appropriata al caso, in considerazione delle 
caratteristiche intrinseche di ciascun istituto. 
Spetterà poi all’autonoma determinazione dei Comuni scegliere tra le 
cosiddette forme “forti” di aggregazione (quelle, cioè, che danno cita a 
veri e propri enti di ambito intercomunale, quali sono le Unioni, le 
Comunità montane e i consorzi) e gli strumenti più “snelli” per la 
gestione associata (vale a dire quelli, come ad esempio le convenzioni, 
grazie ai quali la cooperazione tra più Comuni si sviluppa mediante 
forme collaborative simili a contratti, la cui stipulazione non dà luogo 
né ad un nuovo soggetto istituzionale né a nuovi organi). 
A prescindere dalla forma associativa utilizzata, comunque, merita 
rilevare come attualmente la questione della revisione delle 
circoscrizioni territoriali appaia oggi più che mai una questione 
cruciale, rappresentando, essa, uno degli ostacoli più rilevanti ad una 
efficace ed adeguata distribuzione delle funzioni amministrative sul 
territorio. 
Da quanto precede deriva l’interesse di trattare un tema così rilevante 
come la frammentazione e l’inadeguatezza comunale, da un  lato, ed i 
processi associativi fra Comuni, dall’altro: nel presente lavoro si 
cercherà, pertanto, di svolgere una motivata riflessione sul fenomeno 
della collaborazione intercomunale, ed in particolare sulle singole 
forme associative previste dal nostro legislatore e sulla necessità che i 
Comuni, e più in generale tutti gli enti locali, si ispirino, in tutte le 
loro possibili relazioni, ad un modello “cooperativo” e non più 
gerarchico o piramidale, come erano tradizionalmente abituati. 
 
Il presente lavoro si compone di quattro parti, ognuna delle quali si 
articola in diverse sequenze che trattano temi specifici. 
- La prima parte comprende i capitoli 1 e 2. 
 V
Dopo alcuni paragrafi necessari a definire le origini storico-legislative 
dell’autonomia comunale, il primo capitolo è interamente dedicato 
alle norme relative alle autonomie locali presenti nella Costituzione 
repubblicana e alle leggi che, a partire dal 1990, hanno modificato 
l’assetto e l’ordinamento dei nostri enti locali (in particolare, in questa 
sezione, vengono analizzati i principali obiettivi ed i tratti salienti di 
alcune delle leggi più importanti in materia di enti locali, vale a dire la 
l. n. 142 del ‘90, la l. n. 59 del ’97, la l. n. 265 del ’99 ed il nuovo testo 
unico del 2000). 
L’obiettivo di questa analisi è essenzialmente quello di evidenziare 
come nel nostro Paese, nel corso degli anni, l’autonomia e 
l’indipendenza dei Comuni siano aumentati in modo esponenziale, e 
come l’intento del legislatore, nazionale  e regionale, sia stato quello 
di accrescere gli spazi di autodeterminazione del livello di governo più 
vicino ai cittadini, e cioè proprio dei Comuni, al fine di garantire a 
detti enti l’esercizio di un numero di funzioni sempre più ampio. 
L’obiettivo cui è orientato il capitolo 1 viene, inoltre, completato con 
una serie di valutazioni sull’importanza del decentramento e 
dell’autonomia comunale e con una analisi, anche terminologica, dei 
due termini sopra citati. 
Sempre al fine di evidenziare la portata del trasferimento, tuttora in 
atto, di compiti e funzioni agli enti locali minori, il secondo capitolo 
del presente lavoro tratta del principio di sussidiarietà (analizzandone 
le origini storiche, la presenza e la diversa accezione in ambito 
comunitario, nonché, per quanto attiene il nostro ordinamento statuale, 
il suo recente inserimento nel testo di riforma della seconda parte della 
Costituzione) e del principio di adeguatezza. 
- La seconda parte è composta dal capitolo 3, nel quale, prima di 
addentrarsi nell’analisi delle forme aggregative vere e proprie, si 
chiariscono i termini della questione del riordino territoriale e si 
descrivono le modalità di fusione previste dalla nostra Costituzione, 
prima, e dall’art. 11 della legge n. 142, poi.  
Nel proseguo del capitolo 2, inoltre, vengono analizzati i motivi del 
fallimento della politica delle fusioni e le ragioni che hanno spinto il 
 VI
legislatore, a partire dal ‘97, ad optare, diversamente dal passato, per 
una riforma basata sull’adesione volontaria e consensuale dei singoli 
enti alle esperienze di cooperazione. 
- La terza parte raggruppa i capitoli 4, 5, 6 e 7. 
Questa parte può essere definita il fulcro di tutto il lavoro, in quanto in 
essa si analizzano nel dettaglio le singole forme associative previste 
dalla legislazione positiva italiana e si esaminano minuziosamente 
tutti i cambiamenti e le novità apportate dal legislatore alla materia in 
esame, il tutto attraverso un’analisi che parte dalle origini normative 
di ogni singola forma associativa alla disciplina attuale di ciascuna di 
esse. 
In particolare, i capitoli 4, 5 e 7, trattano delle forme di aggregazione 
cosiddette  “forti” o stabili, vale a dire di quelle forme di integrazione 
che determinano, per i Comuni che decidono di usufruirne, la 
creazione di un apposito ente, dotato di propri organi, di una propria 
autonomia e, dunque, essenzialmente staccato dai singoli Comuni 
associati: entrando nello specifico, il quarto capitolo si concentra sulle 
Unioni di Comuni; il quinto capitolo tratta delle Comunità montane, 
mentre il settimo capitolo si occupa della forma associativa più 
risalente nel tempo: i consorzi.   
Il sesto capitolo del presente lavoro, invece, analizza un aspetto 
differente del fenomeno dell’associazionismo comunale: in esso, 
infatti, si descrive l’istituto della convenzione, vale a dire quella forma 
di collaborazione “flessibile”, “non strutturata”, che non determina, 
per gli enti che la utilizzano, la creazione di un ente ad hoc, ma che 
consiste, essenzialmente, in una sorta di contratto che vincola le parti 
contraenti solamente con riguardo all’esercizio della funzione o del 
servizio associato ed al raggiungimento dei fini previamente accordati. 
In sintesi, l’obiettivo della quarta sezione della tesi, è quello di mettere 
in evidenza le consistenti differenze fra le forme strutturate e non 
strutturate di collaborazione, e di ripercorrere l’evoluzione legislativa 
di ciascun istituto attraverso un’analisi completa delle diverse 
normative di riferimento. 
 VII
- La quarta parte, infine, è rappresentata dalle conclusioni, nelle quali 
si riassume brevemente quanto detto in precedenza e si illustrano i 
vantaggi e gli svantaggi connessi alla collaborazione; i principali 
motivi che spingono gli enti locali ad esercitare congiuntamente ed in 
modo integrato con altri enti una serie più o meno ampia di funzioni; 
le resistenze e le ostilità mostrate dagli enti stessi nei confronti delle 
diverse forme associative, soprattutto di quelle più “forti” e stabili. 
Per completare questa parte, infine, si è ritenuto opportuno formulare 
alcune indicazioni che, tenendo conto delle esigenze di autonomia e di 
indipendenza degli enti locali, potrebbero essere utili alla 
valorizzazione, allo sviluppo ed alla diffusione capillare delle singole 
forme associative analizzate nel corso del presente lavoro. 
 
 
 1
 
CAPITOLO I 
 
 
 
 
 
 
 
 
IL PERCORSO STORICO-LEGISLATIVO DEL 
COMUNE: 
L’AUTONOMIA COMUNALE DAL MODELLO 
ORIGINARIO ALL’ORDINAMENTO VIGENTE. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 2
 
1.1 L’ETÀ COMUNALE. 
 
“I Comuni sono un prodotto spontaneo della realtà sociale cioè della 
vita e dello sviluppo delle popolazioni. Essi nascono, in genere, come 
associazioni naturali di famiglie: associazioni che, organizzate 
territorialmente ed istituzionalmente, giungono talvolta ad 
identificarsi con lo Stato e di frequente lo precedono, per divenire, 
attraverso un lungo processo di adattamento, il tessuto connettivo 
dello Stato moderno”
1
. 
Il Comune, inteso in questi termini, ha un’origine antichissima che 
risale al Medioevo, in quanto trova il suo antecedente storico nelle 
città medioevali (secc. XI-XIV)
2
. 
Agli inizi del secondo millennio, a seguito della crisi e del 
dissolvimento del mondo feudale, in quasi tutti gli Stati dell’Europa 
occidentale si è assistito al formarsi di Comuni liberi ed indipendenti. 
Nati come associazioni volontarie tra i cittadini più influenti, essi 
costituivano degli ordinamenti particolari nell’ambito 
dell’ordinamento generale dell’Impero, del quale riconoscevano 
pienamente la sovranità e al cui diritto (ius commune) subordinavano e 
coordinavano il proprio (ius propium)
3
. 
Ciò nonostante, i Comuni medioevali erano veri e propri ordinamenti 
sovrani, dal momento che successivamente riuscirono ad ottenere 
dall’autorità regia il riconoscimento formale del loro potere: potevano 
darsi proprie leggi (statuta); esercitare la loro giurisdizione, imporre 
tasse e tributi. 
Nonostante la tesi più sostenuta dagli storiografi sia quella di negare la 
continuità tra l’esperienza dei Comuni moderni e quella dei Comuni 
nel Medio Evo, è importante rilevare che grazie ai caratteri dei “liberi” 
Comuni medioevali si può comprendere il carattere autonomistico e 
                                                           
1
  GIOVENCO L., L’ordinamento Comunale, Milano, Giuffrè, 1983, 1. 
2
  GALASSO, voce Comune, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1961, 169, osserva come 
le esperienze costituzionali del Comune medioevale “solo indirettamente possono venire 
collegate ad una premessa storica del Comune moderno, e si inseriscono invece 
pienamente nel grande alveo dell’evoluzione storica dello Stato moderno”. 
3
  GALASSO, op. cit. 
 3
pluralista dell’organizzazione comunale prevista dalla nostra 
Costituzione
4
. 
L’impostazione autonomistica tipica del periodo medievale, tuttavia, 
cominciò a declinare nettamente a partire dal XIV secolo, periodo in 
cui si è assistito alla crisi e poi alla morte dei governi autonomi delle 
città. 
Nel periodo della Signoria e del Principato, infatti, si è verificato un 
processo di concentrazione del potere nelle mani del “signore”, che 
finì con l’assorbimento dei “liberi” Comuni medioevali nelle nuove 
formazioni statali, intolleranti delle comunità indipendenti diffusesi al 
loro interno. 
La conseguenza per i Comuni fu evidente ed inevitabile: perdita di 
qualsiasi potere politico ed assunzione di un ruolo subordinato di tipo 
amministrativo
5
. 
 
 
 
1.2 DALLA CRISI DELL’ANCIEN RÉGIME AL SISTEMA          
      AMMINISTRATIVO NAPOLEONICO. 
 
L’Era della Signoria, segnata da un profondo ed incisivo 
ridimensionamento dei poteri comunali, anticipa il modello di governo 
centralistico ed autoritario adottato dallo Stato monarchico. 
E’ importante rilevare, a questo proposito, che, derivando 
l’ordinamento comunale italiano dalla legislazione e dalle istituzioni 
                                                           
4
 PIRAINO A., Le autonomie locali nel sistema della Repubblica, Torino, Giappichelli, 
1998. 
5
 GALASSO, op. cit., 177, descrive così la nuova situazione dei Comuni durante l’epoca 
della Signoria e del Principato: “Non più elettive le magistrature comunali, non più 
convocati i consigli deliberanti e perciò esaurita e ridotta a povera cosa l’attività 
statutaria, ingigantiti i poteri dei funzionari statali con funzioni di controllo e di vigilanza 
che non trovano altro limite se non nella volontà del  signore, finì per prodursi, come era 
inevitabile, una sorta di appiattimento delle strutture amministrative” […] ”a questo 
processo di appiattimento, un altro ne andò aggiunto non meno grave per la vita cittadina: 
e cioè il disinteresse, che finì per diventare distacco, della grande maggioranza dei 
cittadini dalla cosa pubblica”. 
 4
piemontesi
6
, è a questa normativa cui bisogna far riferimento per 
comprendere l’evoluzione storica comunale. 
Le politiche accentratrici adottate dalla monarchia Sabauda dal XVII 
secolo in poi erano tutte volte alla creazione di un modello di governo 
centralistico, che poco o nulla lasciava all’autonoma determinazione 
delle istituzioni amministrative locali. 
Basti pensare alle “Regie Costituzioni” del 1770 e al “Regolamento 
dei Pubblici” del 1775, che istituivano e delineavano con chiarezza la 
figura ed i poteri dell’”intendente”: “agente governativo periferico 
incaricato di eseguire la volontà dell’autorità centrale in un 
determinato ambito territoriale – la Provincia – e per conseguenza di 
seguire e di controllare, nello stesso ambito, l’attività dei Pubblici, 
cioè dei Comuni, unici enti locali conosciuti dall’assolutismo sardo-
piemontese”
7
. 
Le origini vere e proprie ed i tratti essenziali dell’ordinamento 
comunale italiano, tuttavia, risalgono alle concezioni della rivoluzione 
francese del 1789 e ai principi contenuti nella costituzione francese 
post-rivoluzionaria. 
Durante questo periodo, infatti, si profilarono alcune idee generali che, 
accettate o rifiutate dai sovrani, non poterono essere ignorate, e, al 
contrario, influenzarono in diversi modi e con diversa intensità le 
legislazioni e le costituzioni europee. 
Ciò fu particolarmente vero per il Piemonte che, oltre a subire la  
suggestione provocata dai rivolgimenti francesi, sentì un influsso 
maggiore a causa dell’annessione all’Impero di Francia e 
dell’estensione degli ordinamenti amministrativi napoleonici alle 
province subalpine. 
Abbandonata l’impostazione centralistica e gli assetti locali tipici 
dell’ancien régime, la Costituzione del 1789 aveva riconosciuto 
l’esistenza di un “puvoir municipal”. 
                                                           
6
 L’unificazione italiana avvenuta nel 1861, venne, infatti, portata avanti dallo Stato 
Piemontese. 
7
 PETRACCHI A., Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, Neri 
Pozza Editore, Venezia, 1962, 28. 
 5
L’intento di questa normativa era quello di rendere razionale il quadro 
territoriale (articolato in Dipartimenti, Distretti e Comuni) attraverso 
la creazione di un sistema locale autonomistico. 
Ne era la prova l’elettività di tutti gli organi preposti alle tre 
amministrazioni locali e la mancanza di organi statali destinati a 
rappresentare il potere centrale e ad esercitare su di esse delle funzioni 
di controllo. 
Tra i principali criteri che connotarono il modello francese nel periodo 
rivoluzionario c’era quello della “generalizzazione del regime 
comunale”. 
Mentre nell’ancien régime il potere locale era considerato come un 
privilegio concesso solo a determinate parti del territorio, con la 
rivoluzione l’ordinamento comunale fu esteso all’intero territorio della 
Francia. 
La Costituzione post-rivoluzionaria del 1789, inoltre, prevedeva un 
ordinamento omogeneo per tutti i Comuni, la cui organizzazione e il 
cui complesso di funzioni erano regolati da norme uniformi, 
indipendentemente dalle caratteristiche peculiari o dalle dimensioni 
comunali. 
L’esaltazione del potere municipale tipica di questa fase storica, 
tuttavia, ebbe breve durata e, sotto il regime napoleonico, il Comune 
divenne poco più che una “semplice circoscrizione amministrativa 
dello Stato”
8
. 
Il riassetto dell’ordinamento locale operato durante questo regime si 
fondava su due principi fondamentali: la concentrazione dei poteri 
esecutivi nelle mani di organi monocratici e la collocazione di tali 
organi in una precisa e definita scala gerarchica. 
I sindaci (maires) erano alla base di tale assetto organizzativo: 
rappresentavano il governo centrale, che deteneva il potere di nomina 
e di rimozione dalla carica degli stessi. 
Al vertice di tale scala gerarchica c’era il Prefetto, perno essenziale 
dell’accentramento napoleonico. 
                                                           
8
 GIOVENCO, op. cit., 2. 
 6
Questi veniva configurato come rappresentante del governo in 
periferia e come organo preposto alla tutela e al controllo dei 
Comuni
9
. 
Una forte amministrazione centrale a carattere accentuatamente 
autoritario con una serie di enti locali sottoposti alla sua costante 
vigilanza, era dunque il modello organizzativo caratterizzante questo 
periodo storico. 
 
 
 
1.3 IL COMUNE IN ITALIA DALL’UNITÀ AL  
      FASCISMO. 
 
Come già i vari Stati italiani preunitari, il Piemonte aveva recepito 
l’impostazione amministrativa centralistica di tipo napoleonico.  
La storia della legislazione comunale piemontese dal 1848 al 1854, 
infatti, fu dominata da una costante: la tendenza a concentrare nelle 
mani del Governo il controllo e la tutela degli enti locali. 
Una tendenza inversa rispetto all’egemonia centrale si ebbe con 
l’emanazione dell’Editto albertino del 27 novembre 1847 n. 659, 
secondo il quale l’organizzazione amministrativa locale si articolava 
in Divisioni e Province (erette a corpi morali) da un alto, e Comuni 
dall’altro, ai quali furono riconosciuti, anche se solo parzialmente, 
autonomia e auto-governo
10
. 
Tale sistema, però, non entrò in vigore in quanto fu assorbito dalla 
riforma introdotta con la  l. 7 ottobre 1848 n. 807, che prevedeva 
l’elezione solo degli organi deliberativi. 
Tale normativa manifestava un evidente accrescimento dell’ingerenza 
statale nella gestione delle amministrazioni comunali e, allo stesso 
tempo, rappresentava la base della successiva legislazione in materia. 
                                                           
9
   Il Prefetto coordinava la sua attività con i vari ministri, dei quali trasmetteva gli ordini ai 
livelli inferiori, e si collocava come coordinatore di tutti i servizi periferici dello Stato. 
10
 Con questo importante editto venne istituito il sistema dell’elettività degli organi 
comunali, nonostante al sindaco non fosse stata ancora riconosciuta piena rappresentatività 
essendo egli ancora di nomina regia (cfr.: PETRACCHI, op cit.). 
 
 7
La legge Rattazzi 23 ottobre 1859 n. 3702, infatti, recepiva una serie 
di norme della precedente riforma, registrando un duplice mutamento 
negli equilibri istituzionali: da un lato, secondo il modello 
napoleonico, aumentarono i poteri decisionali degli organi comunali
11
 
(nonostante il sindaco restasse ancora di nomina governativa); 
dall’altro, si dilatarono maggiormente i poteri di controllo e di 
direzione dello Stato.  
In Italia la formazione dello Stato unitario, proclamato il 17 marzo 
1861, comportò una ulteriore contrazione dell’autonomia comunale ed 
una drastica affermazione del potere centrale su quello locale, dal 
momento che, temendo di alimentare forze centrifughe, 
l’organizzazione centralista del Piemonte fu estesa a tutto il nuovo 
Stato. 
Le disomogenee condizioni economiche e sociali, le differenti 
tradizioni linguistiche
12
 e culturali e le divisioni marcate tra le diverse 
realtà locali, imposero al nuovo Stato di diventare un efficace 
strumento di unificazione nazionale. 
Questo assetto centralistico fu, perciò, dettato prevalentemente da 
esigenze di carattere pratico
13
. 
In realtà, però, l’estensione dell’ordinamento napoleonico a tutto il 
territorio nazionale non si svolse senza contrasti e riserve, dal 
momento che non mancarono, nei vari ambienti politici, diverse 
proposte    favorevoli    ad     una         impostazione       autonomistica  
 
 
 
 
                                                           
11
 Il Comune è definito: ”corpo morale avente una propria amministrazione determinata 
dalla legge” (art. 10 l. 23 ottobre 1859 n.  3702). 
12
  L’Italia era un paese dove in ciascuno Stato si parlavano lingue e dialetti diversi: solo il 
2,5% della popolazione parlava italiano (cfr.: AA.VV. Il Comune. Ordinamento, contabilità 
e servizi, Edizioni Giuridiche Simone, 1998). 
13
 GIOVENCO, lc. cit., considerato che l’Italia al momento dell’unificazione aveva 
gravissimi problemi economico-sociali, riconosce che “il sistema introdotto agli inizi 
costituzionali sia stato efficace strumento soprattutto ai fini della coesione politico-
amministrativa e di progresso della vita nazionale”. Tale opinione è dunque tesa ad 
affermare l’indispensabilità dell’adozione del modello centralistico di amministrazione e 
dell’unificazione giuridico- amministrativa ai fini della costruzione dello Stato italiano.  
 8
dell’ordinamento statuale
14
. 
L’urgente compito dell’unificazione amministrativa del Regno, 
tuttavia, alla fine fece prevalere l’istanza accentratrice della Destra 
Storica, la quale, con l’on. Ricasoli, riuscì a fare approvare la prima 
legge comunale e provinciale dell’Italia, la legge 20 marzo 1865 n. 
2248, all. A, postasi come  legge di revisione della normativa di 
Rattazzi, nonché come punto di partenza per le successive innovazioni 
legislative relative all’ordinamento comunale
15
. 
Con questa riforma, che ha dato avvio a quella che è stata 
polemicamente definita la “piemontesizzazione” dello Stato, viene 
sostanzialmente confermata l’adozione, da parte del nuovo Stato, del 
sistema accentratore d’imitazione francese già recepito dagli Stati 
italiani preunitari durante il dominio napoleonico. 
L’ordinamento del 1865 prevedeva un’articolazione del territorio in 
Province, Circondari, Mandamenti e Comuni, ed era caratterizzato da 
una potente amministrazione centrale (che si avvaleva dell’istituto 
prefettizio nella Provincia), in cui il Comune godeva solo di una 
limitata capacità di auto-amministrazione. 
In questo quadro, il sindaco era ancora di nomina governativa
16
, e la 
partecipazione della maggior parte dei cittadini alla gestione della 
“cosa pubblica” era ancora scarsa, dal momento che l’elettorato era 
ancora delimitato sulla base di un sistema censitario. 
                                                           
14
 I progetti di legge di Farini e di Minghetti del 1861 contenevano principi contrari alla 
centralizzazione amministrativa alla francese: in essi si propugnava, infatti, un sistema 
amministrativo che mettesse in luce i poteri e gli interessi delle diverse realtà locali, 
dotandole di proprie possibilità di autogoverno e di autonomia. Il loro disegno, tuttavia, 
venne giudicato pericoloso per l’appena raggiunta unità politica del paese, dal momento che 
si temeva potessero rinascere le tensioni antiunitarie appena sconfitte. 
15
 E’ necessario specificare che nel presente capitolo l’analisi delle norme giuridiche citate 
farà riferimento in maniera specifica al Comune, pur trattandosi di norme che disciplinano 
anche la Provincia, quale ente locale. Il fine di questa specificità d’analisi è del tutto 
didattico, in linea con l’obiettivo del presente lavoro, consapevoli che, in realtà, la 
disciplina dei due enti viaggia di pari passo nel nostro ordinamento giuridico. 
16
 In base all’art. 102 della l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. A, il sindaco “esercita funzioni di 
capo dell’amministrazione comunale” e, per l’art. 103 della stessa legge, anche di 
“ufficiale di Governo”.