4 
Premessa 
 
 
Credo che le domande non siano mai sbagliate;  
le risposte potrebbero esserlo. 
Ma credo anche che astenersi dal fare domande  
sia la risposta peggiore di tutte. 
 
Bauman, Z.  
La solitudine del cittadino globale, 1999. 
 
 
 
 
Questo lavoro, conclusione del percorso sviluppato durante gli ultimi anni di 
formazione universitaria, vuole essere una riflessione su ciò che riguarda il mondo della 
comunicazione interculturale in relazione ai contesti di cura:  servizi sociali, educativi e 
sanitari. 
Il presente elaborato si sviluppa a partire dalla seguente riflessione: molti progetti e 
servizi sono oggi costretti a confrontarsi con la diversità; non senza difficoltà vengono 
promosse politiche di inclusione che hanno come cornice di riferimento quella 
dell’approccio interculturale. Spesso però tali interventi non portano con sé i risultati 
sperati. Perché? Che cosa è necessario fare? Qual è l’elemento che manca e che 
porterebbe ad un reale ed efficace cambiamento? 
Considerare diverso l’utente proveniente da un sistema culturale differente dal nostro 
può essere il primo passo, ma essere consapevoli che la differenza è presente anche e 
soprattutto tra le figure professionali con cui collaboriamo in rete all’interno di 
determinato servizio – sia esso sanitario, educativo o sociale -  può essere il passo 
successivo, per una gestione davvero efficiente dello stesso. 
La scelta di analizzare tale tematica è scaturita da una serie di motivazioni fra cui, in 
primo luogo, la volontà di approfondire un interesse personale nei confronti della 
diversità, delle identità, dell’incontro con l’altro e dell’esperienza formativa che nasce 
da tale contatto.  
Entrare in relazione con l’altro significa avere l’occasione di sviluppare una maggiore 
consapevolezza della propria identità, che si traduce in un arricchimento personale.
5 
Durante gli anni di formazione in ambito pedagogico, nella precedente tesi a carattere 
sociolinguistico, ho avuto la possibilità di approfondire il tema della differenza tra 
culture mainstream e culture minoritarie, riguardante nello specifico la pianificazione 
linguistica svolta in Catalogna negli ultimi 500 anni.
1
 
Successivamente, l’esperienza vissuta in questi primi anni di lavoro a contatto non solo 
con un’utenza composta da famiglie di origine straniera, ma anche in un continua 
collaborazione con professionisti dell’ambito del sociale, mi ha permesso di 
interfacciarmi più volte con stili, modalità e visioni spesso lontane dalla mia. 
Dal lavoro di ricerca che mi ha visto coinvolta in questi mesi, inerente 
l’approfondimento della condizione delle donne di origine marocchina che vivono nei 
territori montani della bergamasca, è nata l’idea di sviluppare una riflessione, 
riguardante non solo l’incontro che nasce dalla relazione nei servizi con gli utenti 
stranieri, ma anche e soprattutto fra i vari operatori che quotidianamente s’interfacciano 
nel lavoro di cura di tali utenti. 
Prima ancora della difficoltà di comunicare con utenti provenienti da differenti sistemi 
culturali, quali sono le difficoltà di comunicazione fra operatori che si occupano di tali 
utenti?  
Il presente lavoro si propone quindi di affrontare e descrivere alcune delle questioni a 
mio parere più interessanti nella relazione d’aiuto che trasversalmente riguarda tutti gli 
operatori coinvolti, ossia la comunicazione tra differenti sistemi culturali di riferimento, 
siano essi di tipo etnico, di genere o professionali. La competenza interculturale, intesa 
come la capacità di comprendere e rinforzare le diverse identità culturali coinvolte in 
una precisa situazione, diviene indispensabile non solo nel lavoro con gli utenti che con 
differente modalità vengono accolti nei vari servizi, ma soprattutto, con gli operatori 
con cui si è strettamente in rapporto. 
 
 
 
 
 
                                                
1
  La Catalogna è una comunità autonoma spagnola in cui convivono due lingue, il castigliano – 
comunemente definito spagnolo – ed il catalano: due sistemi linguistici e culturali il cui utilizzo è nei 
secoli andato mescolandosi, pur rimanendo ancor oggi ben definito.
6 
Introduzione 
 
 
To survive the Borderlands  
you must live sin fronteras 
be a crossroads. 
 
G. E. Anzaldúa,  
Borderlands/La Frontera: The New Mestiza, 1987 
 
 
 È più facile capire le cose quando  
si è sulla linea di confine.  
 
P. Hoeg,  
I quasi adatti, 1997 
 
 
 
La presenza negli ultimi anni di cittadini di origine straniera, apportando una 
diversificazione culturale, sociale e demografica, ha stimolato una rilettura della società, 
provocando una graduale trasformazione in ambito normativo, istituzionale, formativo 
ed organizzativo: questo processo ha interessato anche l’ambito dei servizi alla persona 
- siano essi sociali, educativi e sanitari – proponendo una serie di percorsi per cercare di 
adeguare le risposte ad una domanda in continuo mutamento.  
Tali percorsi, come spesso accade nella prassi, sono mossi da un bisogno alle volte 
emergenziale, come ad esempio quello dell’assistenza sanitaria, oppure più quotidiano, 
come quello della presenza a scuola di nuovi cittadini, spesso precedono i lenti percorsi 
del diritto, dando luogo ad originali esperienze in diverse regioni ad opera soprattutto 
dell’associazionismo e del volontariato. 
L’affermazione del diritto alla cittadinanza, così come a quello all’istruzione e alla 
salute, come patrimonio irrinunciabile della persona, sia essa migrante o autoctona, a 
prescindere dal suo status giuridico, ha successivamente potuto sancire ciò che la prassi 
aveva già fatto emergere: una volta creati e sanciti gli strumenti giuridici, il passaggio 
successivo, più impegnativo e difficile, risiede nella creazione di nuovi strumenti 
culturali che diano luogo ad una profonda e necessaria trasformazione della società, in 
grado di edificare un ambiente umano e vivibile.
7 
Sempre più spesso ci si accorge, infatti, che operatori sociali, sanitari e personale 
educativo si trovano, a diversi livelli - dirigenziali, amministrativi e operativi - a dover 
affrontare problemi di comunicazione apparentemente insormontabili, senza essere 
dotati di adeguati strumenti culturali. Ancor più spesso, tali problemi sembrano essere 
superabili attraverso traduzioni in lingua: ci si affida così alla carta stampata, la quale 
spesso non viene nemmeno presa in considerazione da utenti o possibili tali. 
Sembra davvero questa la vera emergenza: riuscire a comunicare. Non solo con chi 
possiede una lingua madre
2
 differente o ha origini diverse, ma con chi ha un retroterra 
valoriale, una serie di esperienze, una formazione differente: il collega assistente sociale 
che lavora nell’area territoriale con cui si ha che fare ogni giorno; il preside della scuola 
con cui ci si deve interfacciare per risolvere una certa questione per un progetto 
extrascuola; l’ostetrica che lavora con la famiglia seguita nel servizio di assistenza 
domiciliare; il referente d’area con cui lavoriamo a stretto contatto ma cui difficilmente 
riusciamo a comunicare veramente o, ancora, l’assessore del comune in cui operiamo,  
rispetto al quale sembra di vivere in un universo parallelo. 
Esattamente venti anni fa la sociologa Tognetti Bordogna e la neuropsichiatra 
Terranova Cecchini, in un saggio pubblicato in collaborazione con la Provincia di 
Milano
3
, avevano elencato le raccomandazioni utili alla crescita delle competenze 
multiculturali degli operatori, definendo tali competenze come pressanti e decisive: 
l’inserimento nel curriculum dei corsi di studi per operatori sociali, sanitari, psicologi ed 
educativi la tematica della comunicazione interculturale. Una seconda raccomandazione 
riguardava la necessità di maggiori scambi tra gli studiosi di vari ambiti e provenienti da 
vari contesti al fine di rendere più efficace il lavoro di analisi e ricerca scientifica, a cui 
si aggiungeva la necessità di studi più intensi e in profondità sull’utenza straniera nei 
servizi, con una maggior articolazione relativa alle etnie, al genere, alla fascia d’età. 
Infine, auspicavano un pronto impegno nella programmazione della formazione alla 
multiculturalità da parte delle istituzioni, utile alla valorizzazione delle culture e al 
                                                
2
 La lingua madre, altrimenti definita come prima lingua, lingua materna, madrelingua o L1, è ognuna 
delle lingue naturali (lingue standard o dialetti) che vengono apprese da un individuo in età infantile per 
mezzo del processo spontaneo di acquisizione linguistica, in maniera indipendente dall’eventuale 
istruzione.  
3
 Terranova Cecchini R. Tognetti Bordogna M. (1992),  Migrare. Guida per gli operatori dei servizi 
sociali, sanitari, culturali e d’accoglienza. Franco Angeli, pp.105-114.
8 
miglioramento dei servizi stessi. Avanzavano inoltre una serie di ipotesi riguardanti la 
necessità di inserire operatori dei vari gruppi etnici nei servizi, affinché  
“il ruolo di mediazione culturale e linguistica possa essere svolto nel migliore dei modi 
dall’interno […] non sottovalutando tale immissione, perché potrebbe portare ad una 
deresponsabilizzazione del personale autoctono
4
”. 
Orientando l’utenza straniera sull’uso e sulla conoscenza dei diversi servizi, 
proponevano di accogliere quest’ultima, in quanto utenza particolare: non perché 
portatrice di bisogni particolari - casa, lavoro, famiglia vengono considerati bisogni 
universali – ma perché portatrice di un modello culturale di riferimento “altro”, da cui 
può dipendere l’insorgere del bisogno ed il conseguente uso o non uso dei servizi
5
.  
La diversità culturale è quindi definita come l’elemento che determina la specificità 
dell’utente straniero, intesa come l’insieme di svantaggi di vario tipo, fra cui la 
precarietà a livello giuridico, economico e linguistico: differenze che necessitano di 
essere prese in considerazione affinché l’uguaglianza non rimanga solo un mito, ma 
vada a concretizzarsi nel diritto. 
Nel corso degli ultimi anni molte sono le variazioni che sono avvenute nel panorama 
legislativo, poi tradottesi in metodologie operative all’interno dei servizi: eppure ancora 
molte sono le questioni irrisolte, continuando a trattare tali questioni come emergenze e 
parlando di tolleranza invece che di rispetto. 
Quale struttura dinamica deve assumere ogni comunicazione all’interno di 
organizzazioni socio-assitenziali e sanitarie, capaci di accogliere le richieste di una 
società complessa? 
Questo, in breve, il senso dell’elaborato che segue: nato da un progetto di ricerca 
riguardante la condizione delle donne di origine straniera residenti nelle valli Imagna e 
Brembana, si pone come fine una riflessione sui processi di comunicazione che 
avvengono quotidianamente all’interno di vari ambiti, quale quello dei servizi sociali, 
sanitari - ospedali e consultori – ed i vari centri educativi - nidi, servizi integrativi, 
centri di aggregazione giovanile. Luoghi in cui nasce l’incontro non solo fra ciò che 
normalmente definiamo diverso - il paziente ecuadoregno o l’utente marocchina - ma 
dove nasce l’incontro e spesso lo scontro tra chi appartiene ad una cultura professionale 
                                                
4
 Spruit I. P. (1990), “Lo stato di salute dei lavoratori immigrati: percezione dei problemi” in Quaderni 
di Sanità Pubblica, n. 65, pp. 29-38. 
5
 Sachs L. (1990), “L’assistenza sanitaria al di là dei confini culturali” in Quaderni di Sanità Pubblica, 
n. 65, pp. 40-50.
9 
diversa: attori istituzionali, tecnici che lavorano nel terzo settore, addetti ai lavori di 
altre organizzazione con cui si collabora.  
All’interno del primo capitolo l’attenzione verrà posta sul concetto di multiculturalismo 
e sulle azioni che storicamente le istituzioni hanno sviluppato al fine di tutelare le 
minoranze presenti nella società. In seguito si tratterà il possibile sviluppo di tali azioni, 
che più autori definiscono essere come il diversity management, ossia la gestione delle 
differenze, e le possibili ricadute positive che possono aversi all’interno delle 
organizzazioni socio-sanitarie ed educative. 
Il secondo capitolo verrà utilizzato per definire quale approccio di metodo si è scelto di 
utilizzare, all’interno del macrocosmo della comunicazione interculturale, ossia il 
MDSI: il modello dinamico di sviluppo interculturale di Milton J. Bennett, il cui 
carattere innovativo risiede nell’apprendere, attraverso specifici percorsi che fanno 
esperire la differenza, le competenze necessarie per cambiare la propria prospettiva, al 
fine di gestire  comunicazioni efficaci
6
. 
Il terzo capitolo è dedicato alla presentazione dei supporti metodologici utilizzati 
durante l’indagine a carattere socio-antropologico effettuata durante il 2010 ed il 2011, 
riguardante la condizione delle neomamme di origine marocchina residenti nel territorio 
montano della provincia di Bergamo.   
Nel quarto capitolo vengono riportati i risultati della ricerca, inerenti il punto di vista 
delle donne intervistate e quello degli operatori coinvolti nei progetti sulla maternità ad 
essa correlati. 
In ultima analisi, nel quinto capitolo vengono analizzate proposte di cambiamento 
inerenti la prosecuzione del progetto e la gestione dei servizi ad esso correlato, 
utilizzando come supporto teorico il modello dinamico di sensibilità interculturale 
proposto da Bennett. 
 
                                                
6
 Bennett, M. J. (1993) Towards ethnorelativism: A developmental model of intercultural sensitivity. in 
R. M. Paige, Education for the intercultural experience. Yarmouth, ME, Intercultural Press, pp. 21–71 e 
Bennett, M. J. (2004) Becoming interculturally competent. In J.S. Wurzel (Ed.) Toward 
multiculturalism: A reader in multicultural education. Newton, MA, Intercultural Resource Corporation.
Capitolo I 
   
Confrontarsi con la diversità 
 
 
 
 
 
Uno dei principali cambiamenti in atto nella società globalizzata è una vera e propria 
mutazione delle dinamiche comunicative dovuta ad una crescente complessità, ad una 
maggiore differenziazione e all’interdipendenza presente. Qualsiasi semplificazione che 
ignori le possibili alterità
1
 dell’altro – ossia le premesse implicite che possono essere 
date per scontate – porta ad una crisi nelle dinamiche di accoglienza e reciproca 
convivenza.   
Tale situazione diviene ancor più di rilievo quando si tratta di organizzazioni che a 
diversi livelli si occupano di offrire servizi alla persona, nei quali la relazione è 
l’elemento centrale: sia essa una relazione di aiuto, di promozione, di assistenza o 
terapeutica, la relazione tra operatori e utenza, nonché fra gli stessi operatori, impegnati 
nei vari livelli professionali, può divenire uno dei nodi problematici, specialmente se 
l’interazione avviene seguendo codici di comportamento e linguistici differenti.  
“[…] L’operatore sociale deve essere in grado di entrare nel mondo dell’altro. Deve 
contestualizzare l’utente, ma anche gli altri operatori con cui si trova a dialogare, deve 
riuscire a comprendere altri punti di vista, modi di essere, indipendentemente dalle 
diversità linguistiche, culturali e religiose
2
. 
Ma come? Già nel 1972 nel cosiddetto Rapporto Faure, documento redatto dall’Unesco 
inerente le competenze da sviluppare durante il corso della vita di ogni individuo – 
                                                
1
 Per una semplice questione di forma, volendo diminuire continue ripetizioni, lungo tutto l’elaborato si 
è scelto di utilizzare entrambi i sostantivi che definiscono l’alterità: diversità e differenza. Appare però 
opportuno evidenziare l’interessante differenza semantica che contraddistingue i due termini: il primo, 
diversità, derivando dal termine latino dis-vertere (Zanichelli, 2009), cioè volgere in opposta direzione, 
richiama l'idea di dissomiglianza, di discostamento da una norma, da ciò che è più comune, diffuso, 
condiviso e che, nella sua accezione più negativa, può richiedere talora interventi compensatori. Il 
secondo, differenza, derivando da dis-ferre (Zanichelli, 2009), che significa "portare oltre, in varie 
direzioni", invece, apre più possibilità, senza che uno dei due soggetti della comparazione sia più corretto 
o più giusto dell’altro. 
2
 Terranova Cecchini R., Tognetti Bordogna M. (1992), Op. cit., p. 107.
11 
comunemente denominate lifelong learning skills
3
 – si evidenziava come, una delle 
strategie da adottare nel nuovo millennio, fosse quella di  
“[…] promuovere in tutti i modi e per ogni fascia d’età la comunicazione tra individui 
appartenenti a culture diverse, al fine di ridurre le difficoltà che i governi incontrano 
nell’adeguare i sistemi educativi, le pratiche professionali degli operatori, le reti sociali 
alla co-presenza di mondi culturali differenti.”
4
  
Tale obiettivo però appare sempre più difficile da raggiungere. Sia che si tratti della 
relazione che si instaura tra l’ostetrica di un consultorio ed una paziente o l’educatore di 
un’assistenza domiciliare impegnato a seguire un minore o, altri ancora, gli attuali 
modelli d’’intervento  utilizzati in ambito socio-sanitario ed educativo appaiono 
fortemente burocratizzati.   
Appuntamenti dilazionati nel tempo, procedure rigide e tecnologizzate spesso non 
adatte all’utenza e modalità comunicative ancorate allo standard professionale del 
contesto lavorativo in cui si è inseriti rendono difficile basare la relazione fra operatori e 
utenti, e fra gli stessi operatori, attorno ad una comunicazione efficace. Il risultato 
spesso si traduce in servizi inutilizzati, interventi a vuoto e relazioni professionali che 
peggiorano. Inoltre, benché il fenomeno migratorio in Italia possa essere datato a partire 
dalla metà degli anni ’70, periodo in cui nel nostro paese per la prima volta il numero di 
emigranti venne superato dal numero di immigrati
5
, ancor oggi appare che i vari servizi 
non siano ancora abituati a confrontarsi con una nuova utenza e che gli strumenti 
necessari siano ancora in fase di costruzione.  
                                                
3
 Lifelong learning, definito altrimenti come formazione permanente, è una modalità educativa che 
consiste nel promuovere l’apprendimento anche oltre il consueto periodo di formazione scolastica e/o 
accademica, durante tutto il corso di vita di una persona. Il concetto si basa sulla convinzione che 
l’acquisizione di conoscenze, competenze e abilità avvenga anche attraverso momenti di educazione non 
istituzionale, ma anche in contesti non formali, quali ad esempio corsi di formazione continua offerti dalla 
organizzazioni, con l’obiettivo di migliorare il benessere personale e lavorativo degli individui. 
Apprendere ad entrare in relazione con la diversità rientra a tutti gli effetti in tale approccio. 
4
 Faure, E. (1972) Learning to be. UNESCO, Parigi. 
5
 Dopo un passato di oltre 120 anni come paese di emigrazione, nel 1974 il saldo migratorio relativo al 
numero di cittadini stranieri in entrata supera quello degli italiani in uscita verso altri paesi. 
L'immigrazione verso l'Italia è principalmente da considerarsi come causa di politiche restrittive adottate 
da altri paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Belgio, Olanda ecc.) che fino ad allora avevano assorbito i 
maggiori flussi migratori; meno importanti risultano invece essere gli specifici pull factors, i fattori 
d'attrazione: ancor oggi molti migranti considerano l'Italia più come paese di transito che di soggiorno 
definitivo. Inoltre, sino alla prima metà degli anni '80 il fenomeno rimane piuttosto contenuto, come è 
testimoniato dall'assenza di una legislazione specifica per regolarlo che arriva, in modo molto parziale, 
solo nel 1986 e in modo più complesso nel 1990, con la cosiddetta Legge Martelli. Bisognerà aspettare 
la L.40/1998 – Legge Turco-Napolitano - per avere la prima legge organica sull'immigrazione, seguita da 
numerosi altri decreti, sino all’attuale modifica L. 189/2002 – Legge Bossi-Fini, confluite entrambe nel 
D.Lgs. 286/1998 - Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme 
sulla condizione dello straniero, con le modifiche apportate dal D.L. 895/2011.
12 
A ciò si aggiunge la difficoltà a lavorare con la complessità, intendendo con tale termine 
la visione articolata della dimensione in cui siamo strettamente connessi, e quindi la 
difficoltà a riconoscere che la differenza esiste, non solo nell’interazione con l’utenza, 
ma anche e soprattutto con le persone con cui lavoriamo a stretto contatto, gli operatori 
e le operatrici che prestano a diverso livello servizio nei vari contesti professionali. 
Anche prescindendo dall’apporto dei nuovi cittadini di origine straniera, sotto la spinta 
della modernizzazione, le nostre società sono divenute segmentate, multiculturali per la 
coesistenza della cultura modernizzata - in un certo qual modo definibile standard  - e 
di culture di gruppo – definite subculture - legate alla regionalità, all’ecosistema, alla 
storia del gruppo familiare, del gruppo comunitario o della classe sociale
6
. Appare 
indispensabile quindi, da parte dei servizi che a livello sanitario, sociale ed educativo si 
interfaccino fra loro e con gli utenti, una profonda riflessione sul diversity come 
ulteriore apertura verso il miglioramento. 
Il passaggio verso un cambiamento in questo senso non è immediato, né di semplice 
sviluppo: al contrario, accettare la complessità può rendere la pratica e la tecnica 
professionale meno certa, meno sicura e meno prevedibile. Appare però innegabile che 
prendere maggiore consapevolezza della propria identità e della propria cultura, non può 
che essere il primo passo nell’incontro con l’altro, verso il consolidamento di nuove 
certezze. Lo psichiatra francese Pélicier parlando della pratica transculturale, la definì 
come una situazione con carattere di forte mobilità, in grado di scuotere tutte le 
articolazioni di un sapere sino al punto di rottura e di rendere meno forti le certezze. La 
possibilità di smuovere tali certezze forse può essere la modalità per superare le 
difficoltà che in ambito professionale gli operatori dei servizi incontrano nella 
quotidianità
7
. 
L’approccio transculturale di fatto, secondo Devereux, pioniere dell’etnopsichiatria, non 
richiede una piena conoscenza della cultura della persona con cui si necessita entrare in 
relazione
8
. Allo stesso tempo tale approccio non si limita a prendere in considerazione 
gli elementi più esteriori di un sistema culturale, siano essi la danza, il cibo o 
l’abbigliamento, i quali, come si vedrà più avanti, posso essere definiti come gli aspetti 
                                                
6
 Terranova Cecchini R., Tognetti Bordogna M. (1992) Op. cit., pp. 16-17. 
7
 Pelicier Y. (1981) “Introduction aux psychothérapies transculturelle”, in Cultures et psychotérapies,  
Guilhot (cur.), Esf, Parigi, pp.15-20. 
8
 Bruni C. (2007) Ascoltare altrimenti. Franco Angeli, Milano, pp. 17-41.
13 
oggettivi di una cultura, la cui conoscenza non trasmette le competenze necessarie per 
entrare in relazione con l’altro. L’apprendimento reale avviene solo quando, 
concentrandosi sugli aspetti soggettivi incardinati in una cultura, ossia schemi di 
credenze, valori e percezioni appresi e tramandati, si diviene consapevoli che il modo di 
guardare la realtà, è solo una dei molti modi in cui è possibile costruirla
9
: sviluppare 
questo tipo di sensibilità, partendo da una reale conoscenza degli aspetti soggettivi che 
compongono la propria cultura, potrebbe rendere capaci gli operatori dei servizi alla 
persona di cogliere segnali e significati mai presi in considerazione sino ad allora, utili 
per rendere efficace la comunicazione non solo con gli utenti, ma all’interno della 
medesima struttura organizzativa.  
 
2. Ripensare l’idea di straniero 
Scrive Kristeva nel libro Stranieri a sé stessi: 
“[…] lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio che rovina 
la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l’intesa e la simpatia. Riconoscendolo in 
noi ci risparmiamo di detestarlo in lui. Sintomo che rende appunto il “noi” problematico, 
forse impossibile, lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e 
finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità…”
10
 
Con il termine multiculturalità s’intende un dato di fatto: l’esistenza in un determinato 
territorio di molteplici culture. Con il termine interculturale s’intende invece un progetto 
di interazione tra le parti: un approccio che non mira però all’integrazione delle 
diversità, poiché rendere integro ciò che è costitutivamente diverso, equivale a 
cancellare, nella memoria, la diversità
11
.  
Un passaggio successivo lo si ha nel concetto di diversity, nel quale, secondo  Ida 
Castiglioni, l’elemento caratterizzante risiede nella riconsiderazione dei contenuti che 
stanno alla base della comunicazione interculturale. Nello specifico, nell’importanza 
dell’utilizzo di una comunicazione efficace come variabile delle relazioni
12
:  relazioni 
                                                
9
 Castiglioni I. (2005), La comunicazione interculturale: pratiche e competenze. Carocci, Roma, pp. 9-
13. 
10
 Kristeva J. (1990) Stranieri a noi stessi. Feltrinelli, Milano. 
11
 Bosi A. (2004) Il gioco delle appartenenze. La contrattazione sociale nell’educazione interculturale. 
Unicopli, Milano. 
12
 Castiglioni I. (2004), “Dal multiculturalismo al diversity” in Passaggi - Rivista Italiana di Scienze 
Transculturali, 7/I/2004, Carocci Editore e Fondazione Cecchini Pace, p. 33.
14 
che di fatto costituiscono il patrimonio e la principale area d’interesse delle 
organizzazioni che si occupano di gestire i servizi socio-assistenziali e sanitari.   
La strutturazione di un percorso di gestione delle diversità non può prescindere da 
un’attenta considerazione in chiave sociologica, antropologica e psicologica, senza 
sottovalutare una chiave di lettura conoscitiva più generale sul fenomeno migratorio. La 
partecipazione a gruppi di lavoro multidisciplinari, così come avviene quotidianamente 
all’interno dei vari servizi, può essere favorita da una possibile circolarità delle 
conoscenze attraverso l’analisi multidimensionale, considerando così fattori di carattere 
sociale, culturale e storico.  
Questo in sintesi è stata la chiave di lettura utilizzata all’interno della ricerca socio-
antropologica svolta nei precedenti mesi, intitolata “Dialoghi: neomamme e culture a 
confronto”, nata in seguito ad un precedente progetto finanziato con la L.R. 53/2000, 
“Nascere in Valle Imagna e in Val Brembana”
 13
. 
Il progetto Nascere, nato con l’intento di attivare “ pacchetti comprendenti tutti gli 
strumenti necessari per una buona accoglienza, cura e crescita del neonato”
14
, 
proponeva la seguente tipologia d’interventi:  
pacchetti materiali - pacchetto viaggio (carrozzina, passeggino, seggiolino auto); 
- pacchetto casa (lettino, fasciatoio); 
- pacchetto pannolini; 
- pacchetto latte; 
- buono asilo nido. 
 
pacchetti assistenza - pacchetto inserimento lavorativo; 
- assistenza ostetrica; 
- assistenza psicologica; 
- assistenza educativa; 
- assistenza puericultrice. 
 
I destinatari degli interventi erano cittadini italiani o stranieri con regolare permesso di 
soggiorno residenti in uno dei due ambiti territoriali con un figlio con età compresa fra 0 
e 12 mesi. L’attivazione dei pacchetti, sia in caso di richiesta effettuata presso i servizi 
                                                
13
 Il progetto - finanziato dall’Asl attraverso la Legge Regionale 23 per azioni a sostegno della maternità - 
ha avuto avvio nel mese di febbraio 2009, con durata triennale, con l’obiettivo di coinvolgere un alto 
numero di attori provenienti dalla cooperazione sociale del territorio (Cooperativa Il Varco, Cooperativa 
In Cammino e Cooperativa L.I.N.U.S.), dal Consultorio Familiare di Villa d’Almè e dai Servizi Sociali 
degli Ambiti della valle Brembana (38 comuni) e della valle Imagna (21 comuni), nell’offerta di supporto 
alle donne residenti nelle due valli, attraverso la distribuzione mirata di pacchetti materiali e di supporto 
alla genitorialità attraverso l’intervento di psicologhe, ostetriche e puericultrici. 
14
 Come viene riportato nella presentazione del progetto sul sito dell’Azienda Speciale Consortile Valle 
Imagna e Villa d’Almè, Settore Servizi alla Persona.
15 
sociali dei singoli comuni, sia direttamente presso i consultori, veniva effettuata 
attraverso la valutazione dell’intera equipe del progetto.
15
 
Nel corso del progetto Nascere i vari operatori coinvolti si erano imbattuti negli 
inevitabili problemi di comunicazione che caratterizzano, specialmente nel nostro paese, 
ogni contatto con persone di madrelingua diversa: a tali problemi si era cercato di 
sopperire traducendo nelle maggiori lingue europee parlate anche nei paesi di origine 
(inglese per quanto riguarda l’Asia e l’Europa dell’Est e francese per quanto riguarda 
l’Africa del Nord) gli opuscoli informativi sul progetto che venivano rilasciati dagli 
assistenti sociali o dalle ostetriche degli ospedali. Purtroppo anche quel tentativo si era 
rivelato inutile. 
Nonostante Nascere fosse in grado di offrire un certo numero di servizi alla persona per 
ogni donna nei primi mesi dopo il parto
16
, come l’assistenza di un’ostetrica, di una 
puericultrice o di una psicologa, e avesse un fondo specifico destinato al sostegno delle 
madri lavoratrici o che desiderassero cercare un lavoro dopo il parto, le donne 
immigrate, in particolare quelle di origine marocchina, continuavano - e continuano 
tuttora - a richiedere solamente sostegni di tipo materiale, mentre pochissime si 
dimostravano interessate  ai servizi dell’ostetrica (nessuna ha mai fatto richiesta di altri 
interventi specialistici). 
Il punto non stava quindi nella semplice traduzione del materiale informativo ma nella 
ricerca di un nuovo modo, completamente diverso, di raggiungere queste donne e le loro 
famiglie per comprenderne necessità, aspettative, e ragioni della chiusura di fronte alle 
offerte di cui avevano già avuto notizia. 
Queste sono state le premesse per il lavoro di ricerca socio-antropologico sviluppato tra 
settembre 2010 e marzo 2011
17
, con l’intento di andare oltre il “semplice” problema di 
comunicazione interlinguistica, attraverso l’incontro diretto con tutte le donne e le 
                                                
15
 Nello specifico, per aderire ai pacchetti materiali è previsto che l’ISEE del nucleo familiare non superi i 
12.000 euro annui. 
16
 Nel report di rendicontazione tecnica elaborato al termine del primo anno si segnala che “il progetto ha 
raggiunto 137 nuclei familiari, residenti nelle due valli, fra i quali, come maggiori fruitori dei 
pacchetti di beni materiali del Progetto Nascere si evidenziano i nuclei familiari provenienti dal 
Marocco (33%) in condizioni sociali di completo isolamento, senza reti a cui far riferimento e in 
condizioni economiche di povertà estrema, seguiti in base alla cittadinanza da famiglie italiane (26%), 
rumene (5%), tunisine (4%), ivoriane e senegalesi (entrambi 2%). 
17
 Il lavoro di raccolta ed interpretazione dei dati è stato svolto dalla scrivente, da Amina Tailouti, di 
origine marocchina, specializzanda in Cooperazione Interculturale allo Sviluppo (Università di Trieste) e 
Carolina Tomio, specializzanda in Antropologia Culturale, Etnologia ed Etnolinguistica (Università Cà 
Foscari di Venezia), sotto la supervisione della Prof.ssa Ilaria Micheli, docente di etnolinguistica e ricerca 
socio-culturale presso le due università citate.
16 
famiglie di origine marocchina – questo il campione selezionato  - già incontrate dai 
servizi, al fine di conoscere maggiormente visioni del mondo che differiscono da quella 
degli operatori e se possibile, riconoscere quali siano i reali bisogni di questi nuovi 
utenti dei servizi.  
Poiché l’identità di un gruppo, e in fondo di ogni singola persona, è data 
dall’interazione di diversi fattori volatili, in movimento e più o meno circoscrivibili, per 
comprendere un individuo e la sua storia personale, il suo modo di vedere le cose, 
insieme alla lingua, si deve tener conto della sua cultura d’origine, del suo modo di 
conoscere il mondo e del suo modo di vivere i suoi stati interiori
18
. 
Nello studiare le differenze, riprendendo alcuni studi di sociolinguistica, è possibile 
utilizzare due concetti introdotti da Hall
19
:  l’approccio emico e l’approccio etico. Tali 
termini sono stati coniati in analogia con fonemica, ossia lo studio dei suoni utilizzati in 
uno specifico linguaggio, e con fonetica, che studia le generalizzazioni scientifiche di 
una lingua
20
. L’approccio emico studia il comportamento all’interno di un sistema 
culturale specifico, usando criteri di analisi e categorie esplicative proprie di quella 
cultura; l’approccio etico esamina più culture, comparandole secondo criteri e categorie 
interpretative universali
21
. 
Entrambi gli approcci sono quindi di fondamentale importanza per riuscire a 
comprendere le relazioni interpersonali che avvengono nel primo caso all’interno di una 
specifica cultura e, nel secondo, fra più sistemi culturali.  
Una  ricerca interculturale come quella che si è cercato di sviluppare, in quanto studio 
delle interazioni fra persone di culture differenti, può essere d’aiuto nei casi in cui ci si 
ponga come scopo, come in questo caso, l’analisi delle difficoltà che possono nascere 
all’interno di tali interazioni, siano esse fra diverse culture di genere, professionali o 
etniche.  
Poiché durante la ricerca, fin dai primi passi, si è evidenziato una mancanza di 
comunicazione proprio fra gli operatori coinvolti nel suddetto progetto Nascere, 
difficoltà molto spesso presente all’interno delle organizzazioni che gestiscono servizi 
                                                
18
 Micheli I., cur. (2011) Neomamme e culture a confronto. Edizioni Linus, Bergamo. 
19
 Hall E.T. (1975) Beyond Culture. Doubleday, New York. 
20
 Pike K.L. (1967) Language in Relation to a Unified Theory of the Structure of Human Behaviour. 
The Hague, Mouton. 
21
 Berry J.W. (1989), “Imposed Etics-Emics-Derived Etics: The Operationalization of a Compelling 
Idea”, in International Journal of Psychology, 24, pp. 721-735.
17 
alla persona, nelle seguenti pagine si cercherà di evidenziare quali cambiamenti siano 
possibili nell’ambito della gestione delle organizzazioni stesse, partendo dagli studi di 
matrice sociologica ed economica che sono stati sviluppati nel corso dell’ultimo secolo 
e che oggi sono collocati sotto il nome di diversity management. 
 
3. Le motivazioni del diversity management 
Le forme organizzative vengono influenzate dagli studi di matrice sociologica, 
antropologica e psicologica, i quali a loro volta si modificano in base a cambiamenti che 
avvengono nelle organizzazioni. La conseguenza di tali cambiamenti ricade sulle 
politiche di gestione del principale capitale posseduto dalle organizzazioni, ossia quello 
umano. 
La maggior parte delle azioni di ricerca e di riflessione sembrano essere ancora 
focalizzate sul fenomeno riguardante le donne in azienda e quello inerente i lavoratori di 
origine straniera, accennando solo marginalmente all’interpretazione della gestione 
della diversità intesa come piena accoglienza non solo delle differenze etniche o di 
genere, ma anche delle altre componenti che costituiscono le culture
22
.  
L’attuale panorama riguardante la situazione socio-economica in Italia rende ancor più 
evidente la necessità di far fronte a tali differenze: l’aumento del fenomeno della 
frammentazione del lavoro giovanile ed una conseguente svalutazione delle competenze 
apprese nel percorso di studi; un costante invecchiamento della popolazione, 
contemporaneamente alla crescita dell’incapacità di gestire la forza lavoro più matura, 
cui si contrappongono gruppi dirigenziali ed imprenditoriali sempre più rappresentati da 
figure over 50. Nel frattempo, permangono forti differenze retributive determinate dal 
genere e, nel complesso, si assiste ad un aumento delle tensioni sociali
23
: sembra 
dunque che il tema della gestione della diversità debba ancora assumente una piena 
rilevanza nelle competenze di chi gestisce risorse umane. Una situazione che si auspica 
possa cambiare anche a fronte delle sempre più pressante esigenza di rivedere logiche 
                                                
22
 Grecchi A., cur. (2002) Diversity management. Valorizzare le differenze: nuovi modelli di pari 
opportunità. Provincia di Milano, Franco Angeli.  
23
 Il recente decreto legge n. 138/2011, cosiddetto “Manovra bis di ferragosto”, riguardante le 
disposizioni sancite al fine di stabilizzare l’attuale situazione finanziaria e contenere la spesa pubblica 
dello stato italiano, fra i vari cambiamenti, prevede l’innalzamento dell’età pensionabile, l’aumento del 
ticket sanitario a carico dei cittadini, il taglio delle agevolazioni fiscali per figli a carico, spese 
d’istruzione, redditi da lavoro dipendente per il terzo settore. Infine, dispone minori obblighi per i datori 
di lavori in materia di assunzioni e licenziamenti nei confronti del personale dipendente: un corollario di 
disposizioni che possono produrre ulteriore tensioni a livello sociale.