7   
INTRODUZIONE 
 
Con la fine della Seconda guerra mondiale, le relazioni internazionali 
vengono condizionate dalla polarizzazione del sistema in due blocchi 
contrapposti. L’appartenenza dell’Italia al blocco occidentale euro-atlantico 
e la sua posizione geografica di confine con il mondo sovietico ad est, e di 
proiezione nel Mediterraneo a sud, hanno offerto al nostro paese la 
possibilità di svolgere un ruolo strategico, che tutti i governi repubblicani 
succedutisi a Palazzo Chigi hanno provato ad interpretare. 
Questa tesi si propone di analizzare la politica estera dell’Italia nel 
Mediterraneo, ampliandone l’orizzonte verso il Medio Oriente, a partire 
dagli anni Cinquanta: mettendo in luce le debolezze strutturali, i punti di 
forza, le ambizioni comuni, la continuità e le differenze delle azioni italiane. 
Il mio obiettivo è mostrare e dimostrare come la direttrice mediterranea sia 
risultata fondamentale per l’Italia al fine di ritagliarsi un margine di 
autonomia dalle strettoie imposte dalle logiche della Guerra Fredda, per far 
valere il proprio interesse nazionale cercando di riconquistare un ruolo e un 
certo grado di prestigio sul palcoscenico internazionale. Obiettivi che 
comunque non hanno mai messo in discussione l’alleanza euro-atlantica, in 
particolare con gli Stati Uniti, nei confronti dei quali l’Italia ha tentato 
costantemente di conquistarsi un proprio spazio di manovra, trovandovi allo 
stesso tempo rifugio nelle situazioni di crisi. Il Mediterraneo e il Medio 
Oriente hanno rappresentato il luogo ideale dove concentrare questi sforzi e 
la Libia il paese che per storia coloniale, prossimità geografica, interessi 
economici, politici e strategici, piø di tutti ha evidenziato le caratteristiche 
ed i tratti comuni della politica estera italiana nel Dopoguerra.  
La permanenza di Gheddafi al potere per 42 anni e il contemporaneo 
susseguirsi di innumerevoli governi sull’altra sponda del Mediterraneo 
rendono ancora piø evidenti i limiti, ma anche la continuità dell’azione 
italiana. Da una parte la mancanza di strategia e di volontà nel risolvere il 
contenzioso relativo al passato coloniale italiano in Libia, con le richieste di 
condanna e di risarcimento avanzate da Gheddafi (e quelle relative ai beni 
espropriati alla comunità italiana espulsa dalla Libia nel 1970, ancora 
irrisolte), che si sono trascinate fino alla firma del Trattato di Bengasi del 
2008, condizionando pesantemente le relazioni tra i due paesi. Dall’altra, la 
prevalenza dell’interesse economico che ha portato l’Italia a diventare il 
principale partner commerciale della Libia e quest’ultima ad essere il primo 
fornitore di petrolio e il terzo di gas naturale dell’Italia. L’aspetto energetico 
è senza dubbio quello che ha caratterizzato e orientato le politiche italiane 
nei confronti dell’ex colonia e degli altri paesi mediterranei e mediorientali, 
fin da quando Enrico Mattei rivoluzionò il sistema delle concessioni 
petrolifere a metà degli anni Cinquanta. Il trattamento di favore riservato 
all’Eni in Libia ha probabilmente contribuito alla ridefinizione dei rapporti 
di forza nella regione. Sul suolo libico, infatti, le potenze occidentali hanno 
continuato a giocare quella partita per il ristabilimento delle gerarchie 
(finalizzata soprattutto al controllo delle risorse), iniziata sul campo 
mediterraneo e mediorientale dopo il crollo del sistema bipolare che ha 
messo in crisi l’equilibrio internazionale.  
L’Italia ha cercato di essere della partita: partecipando, a partire dagli anni 
Novanta, a diverse missioni internazionali (ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, 
Libano, Libia) e svolgendo un presunto ruolo di mediatore nel reinserimento
8   
della Libia nella Comunità internazionale. Lo stesso aveva tentato di fare 
anche in precedenza, ad esempio quando Moro e Fanfani si spesero nella 
crisi arabo-israeliana per far guadagnare all’Italia un ruolo di primo piano 
come interlocutore dei paesi arabi in Medio Oriente. La ricerca di accrescere 
la propria posizione in termini di rango (e per far ciò assumendo un ruolo 
talvolta sproporzionato rispetto alla propria forza) ha contraddistinto la 
politica estera della Repubblica, che troppo spesso si è dovuta arrendere di 
fronte a divisioni interne e crisi di governo che ne hanno impedito un’azione 
coerente.  
Le relazioni Italia-Libia esprimono la perfetta sintesi del tentativo di 
conciliazione tra l’anima occidentale e quella mediterranea dell’Italia. 
L’intreccio tra diplomazia e affari ha rappresentato una costante della 
politica italiana, che alla fine si è però sempre dovuta adeguare alle scelte 
dei suoi alleati. Moro, Andreotti, Craxi, Prodi e Berlusconi hanno teso la 
mano a Gheddafi nonostante le sue bizzarrie, minimizzandone le sparate 
anti-imperialiste e anti-italiane sia all’interno che al di fuori dei confini 
nazionali, e cercando di mitigare l’aperta ostilità tra il Colonnello e gli 
americani. Malgrado il continuo alternarsi di momenti di tensione e nuove 
aperture non scalfiscano l’interscambio commerciale tra i due paesi, sempre 
piø interdipendenti sul piano economico e finanziario, su quello politico 
l’Italia deve tener conto del clima internazionale: nell’85 è costretta a 
sospendere la fornitura di armi alla Libia, nel’92 ad aderire alle sanzioni 
Onu imposte da Usa e Gran Bretagna, e nel 2011 a schierarsi con la Nato 
nell’intervento militare che condurrà alla destituzione e alla morte di 
Gheddafi. 
La realpolitik che ha contraddistinto i rapporti tra le nazioni nell’ultimo 
mezzo secolo ha prima fatto di Gheddafi un mostro finanziatore dei 
terroristi, poi un amico con cui fare affari sotto la tenda, infine un dittatore 
da abbattere perchØ nemico della democrazia. Il Colonnello è stato utile nel 
contenimento del comunismo durante la Guerra Fredda e per arginare il 
fondamentalismo islamico negli ultimi trent’anni; mentre egli utilizzava il 
petrolio (le cui esportazioni verso i paesi europei non furono intaccate dalle 
sanzioni) come arma di ricatto contro le potenze occidentali e per ergersi a 
paladino prima del mondo arabo, poi di quello africano. L’Italia è stata parte 
integrante di questo meccanismo, traendone un vantaggio politico-
economico in virtø del rapporto privilegiato con la Libia, ma subendolo nel 
momento in cui Usa, Francia e Gran Bretagna hanno deciso di ridefinire i 
rapporti di forza nel paese: scalzando Gheddafi, approfittando del consenso 
attribuito alla “primavera araba” dall’opinione pubblica mondiale. La 
politica incentrata sul “realismo” nel corso dell’ultimo decennio non ha 
risparmiato nemmeno la materia migratoria, campo che è andato assumendo 
un’assoluta centralità nelle relazioni politico-diplomatiche tra Italia e Libia 
ed è stato oggetto di critiche e condanne per le ricadute negative in termini 
di violazioni dei diritti umani e dei migranti.  
Infine, la posizione defilata assunta dall’Italia durante la rivolta libica del 
2011, con la mancata assunzione di un ruolo guida nella gestione della crisi 
(sebbene il suo rapporto con la Libia non solo l’avrebbe consentito, ma 
anche richiesto), ha fatto riemergere antiche paure di emarginazione, che si 
scontrano con il ricorrente sogno di riconoscimento di quel rango di media 
potenza che, forse, è destinato a rimanere tale.
9   
CAPITOLO 1 
LA POLITICA ESTERA DELL’ITALIA REPUBBLICANA:  
IL MEDITERRANEO E IL MEDIO ORIENTE 
 
1.1 La linea atlantica ed europeista di De Gasperi e la teoria del “Terzo 
cerchio” 
La politica estera dell’Italia nel secondo dopoguerra va inquadrata nel 
particolare contesto internazionale che per quasi mezzo secolo ha visto il 
mondo diviso in due blocchi orbitanti attorno alle due superpotenze, Stati 
Uniti e Unione Sovietica, uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale. 
Sul versante interno, invece, è da sottolineare la persistente crisi politica e 
istituzionale che ha rappresentato una costante storica dell’Italia 
repubblicana, dove si sono succeduti ben 61 governi in 16 legislature. Un 
dato che ha contribuito ad arrecare alla politica estera del paese una crisi di 
credibilità, aggravata dal fatto che quest’ultima è stata spesso subordinata e 
strumentalizzata dai partiti per ragioni di interesse sul piano nazionale. 
I due cardini della politica estera italiana dopo la Seconda guerra mondiale 
si incarnano nell’atlantismo e nell’europeismo. Da subito i governi 
repubblicani hanno mantenuto un sostanziale rapporto dialettico tra il 
rafforzamento costante dell’integrazione europea, la solidarietà multilaterale 
nell’Alleanza Atlantica e i rapporti multilaterali internazionali in genere
1
.  
Alla ricerca del consesso multilaterale quale sede per la risoluzione delle 
questioni internazionali si è al contempo accompagnata la tessitura di 
rapporti bilaterali con paesi considerati prioritari per l’interesse strategico, 
economico e per la sicurezza nazionale.  
¨ in quest’ottica che si inserisce la teoria del “Terzo cerchio”, come l’ha 
definita il professor De Leonardis, della politica estera italiana: quello 
mediterraneo o “terzomondista”
2
. I versanti mediterraneo e mediorientale, in 
particolare la sponda sud del Mediterraneo, hanno giocato un ruolo storico 
di interdizione tra le grandi potenze occidentali, e per l’Italia hanno 
rappresentato la possibilità di esercitare un’azione autonoma, in specifici 
ambiti e in alcuni momenti, al di fuori delle rigide logiche determinate dal 
bipolarismo. Se da un lato l’Italia usciva dalla guerra come nazione sconfitta 
e le sue velleità di rimanere seduta al tavolo delle grandi potenze venivano 
ridimensionate dal Trattato di pace di Parigi e dall’ostilità della Gran 
Bretagna, dall’altro la sua posizione geopolitica gli affidava il ruolo di 
baluardo contro l’espansione comunista da est e di proiezione nel 
Mediterraneo verso sud. Su questo duplice aspetto fecero leva i governi 
democristiani che fin dagli anni ’50 iniziarono a rivendicare un ruolo di 
prestigio ed un riconoscimento internazionale per il paese. Già nell’ottobre 
del ’51, infatti, il Presidente del Consiglio De Gasperi parlava della funzione 
di protagonista dell’Italia in seno al mondo arabo-islamico
3
 e, pochi anni 
dopo, il Presidente della Repubblica Gronchi “sognava che l’Italia entrasse 
in un direttorio delle grandi potenze, esercitasse un’azione mediatrice nel 
                                                 
1
 IAI/ISPI, ALIBONI R., “La politica estera del governo Berlusconi”, L’Italia e la politica internazionale, Bologna, 
2003. 
2
 DE LEONARDIS M., “L’Italia: «Alleato privilegiato» degli Stati Uniti nel Mediterraneo?”, in De Leonardis Massimo 
(a cura di) Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo dopoguerra, Bologna, 2003. 
3
 Cfr. FERRARIS L.V., Manuale della politica estera italiana (1947-1993), Roma-Bari, 1996, p. 65.
10   
Vicino Oriente, acquistasse prestigio, ottenesse riconoscimenti”, come 
scriveva il suo Consigliere diplomatico Luciolli
4
.  
L’idea che il nostro paese potesse diventare un “mediatore” o “costruttore di 
ponti” tra l’Europa e i paesi della sponda sud del Mediterraneo non era 
un’esclusiva della Democrazia Cristiana (DC), soprattutto nella sua corrente 
di sinistra, ma trovava d’accordo molte forze politiche, in particolare 
l’opposizione comunista. Forze che si combattevano all’interno dei confini 
nazionali, convergevano invece sul campo della politica mediterranea “sotto 
le forme dell’universalismo cristiano nel mondo cattolico, o della solidarietà 
umanitaria nelle forze laiche o del collegamento internazionalista con i 
movimenti di liberazione del terzo mondo nello schieramento di sinistra”
5
.  
 
1.2 L’Italia e il Mediterraneo nel contesto internazionale 
Gli anni ’50 registrano una serie di avvenimenti in campo internazionale che 
permettono all’Italia di ritagliarsi uno spazio nel novero delle grandi 
potenze. Sul fronte esterno, la morte di Stalin con i seguenti primi accenni di 
distensione, l’inizio della decolonizzazione e la crisi di Suez mutano il 
tradizionale equilibrio nello scacchiere internazionale. Sul fronte interno, si 
assiste alla chiusura del capitolo del Dopoguerra con la risoluzione dello 
spinoso problema di Trieste
6
 e l’ingresso dell’Italia nell’ONU (1955).  
In particolar modo la questione triestina fu l’ultimo residuo della Seconda 
guerra mondiale che ancora impediva di delineare un ordine preciso in 
Europa e il suo prolungarsi ha creato notevoli attriti tra l’Italia e gli alleati 
occidentali. La difficoltà anglo-americana nel chiuderla è da attribuire da un 
lato all’allontanamento di Tito dalla casa madre sovietica che consentiva 
all’Occidente di guardare alla Jugoslavia come paese-cuscinetto tra Est e 
Ovest; dall’altro all’ostilità di Londra che cercava di relegare l’Italia in un 
sottosistema Mediterraneo, frenandone le aspirazioni di ricostruire una 
politica estera di prestigio. In quel periodo gli Stati Uniti puntavano ancora 
sulla Gran Bretagna come nazione in grado di garantire stabilità e sicurezza 
nell’area mediterranea e mediorientale, anche se favorirono l’ingresso 
dell’Italia nella NATO nel 1949, in funzione strategica come sbarramento a 
protezione del Mediterraneo occidentale, sia dal versante marittimo (verso 
la penisola balcanica) che terrestre (verso l’Europa danubiana).  
D’altra parte, già nel 1947 l’URSS iniziò ad esercitare pressioni su Iran, 
Grecia e Turchia, che dovette cedere al trasferimento di navi portaerei e 
sottomarini sovietici sul proprio territorio
7
; per contenere l’influenza 
destabilizzante russa, Stati Uniti e Gran Bretagna si fecero promotori del 
Patto turco-iracheno firmato a Baghdad nel 1955, a cui aderirono 
successivamente anche Iran e Pakistan. Con il passare degli anni, il tentativo 
                                                 
4
 LUCIOLLI M., “Diciotto mesi al Quirinale con il presidente Giovanni Gronchi”, in E. Serra (a cura di), Professione: 
diplomatico, Milano, 1988, op. cit., p. 117. 
5
 GARRUCCIO L. (pseudonimo di Ludovico Incisa di Camerana), “Le scelte di fondo e il retroterra culturale”, in 
Politica internazionale, a. X, n. 2, 1982, op. cit., p. 10. 
6
 Il Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954 sancisce l’assegnazione dell’amministrazione del Territorio Libero di 
Trieste tra l’Italia e la Jugoslavia di Tito, dopo che per nove anni era stato diviso in due zone gestite dagli Alleati anglo-
americani (Zona A passata all’Italia) e dagli jugoslavi (Zona B). Bisognerà attendere il Trattato di Osimo del 1975 per 
la conferma del confine. 
7
 LURAGHI R., “L’Italia nel fronte sud della Nato”, in Il Mediterraneo nella politica estera italiana del secondo 
dopoguerra, Bologna, 2003.
11   
inglese di portare ordine e stabilità nella regione con la cosiddetta “pax 
britannica” andava scontrandosi con una serie di problemi che ne 
decretarono il fallimento. La Lega Araba organizzata dalla Gran Bretagna 
all’indomani della guerra finì ben presto nelle mani di Nasser che divenne il 
leader del nazionalismo pan-arabo in chiave anti-imperialista. Nasser, 
raggiunto il potere nel 1952 con la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi che 
rovesciò la Corona, diviene leader assoluto dell’Egitto nel ’54, e già l’anno 
seguente tenta la prima sperimentazione di Unione Araba tra Egitto, Siria, 
Arabia Saudita e Yemen. Il pericoloso fermento nell’area, seguito alla crisi 
iraniana e al primo shock petrolifero del’51 (provocato dal contrasto del 
Ministro degli Esteri iraniano Mossadeck nei confronti dell’Anglo-Iranian 
Oil Company) costrinse gli Usa a un ripensamento della propria politica nel 
Mediterraneo orientale e nel Golfo, spingendoli ad un intervento diretto 
nelle faccende arabe e islamiche.  
Come prima mossa, gli americani installarono basi militari in Libia e in 
Arabia Saudita, appoggiarono negoziati tramite l’Onu e puntarono 
sull’assistenza finanziaria ai paesi di neo-indipendenza. Sono anni dove si 
gettano le basi per il processo di decolonizzazione che culminerà nei primi 
anni Sessanta e dove vengono alla luce gli immensi giacimenti petroliferi 
nei paesi arabi. 
In questo periodo emergono sempre piø marcati gli antagonismi e le 
diversità strategiche tra Usa e Regno Unito che diverranno incolmabili con 
la crisi di Suez del 1956.  
 
1.3 La crisi di Suez e la nuova politica mediterranea 
La decisione di Nasser di finanziare la costruzione della diga di Assuan con 
la nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez provocò 
l’intervento militare di Francia, Inghilterra e Israele che in un primo 
momento occuparono l’area, per poi essere dissuasi e costretti al ritiro dalle 
persuasioni sia degli Usa che dell’Urss, per la prima volta unite per timore 
di un allargamento del conflitto. L’esito della vicenda, oltre a costituire una 
indubitabile vittoria per Nasser, sempre piø leader panarabo ed esempio di 
resistenza contro l’imperialismo occidentale (e che fu il modello e 
l’ispiratore del primo giovane Gheddafi), rappresentò il tramonto della 
supremazia europea in Medio Oriente. L’antica diplomazia di potenza e di 
forza anglo-francese che per secoli gli garantì l’egemonia e il ruolo di 
grandi potenze indiscusse sul palcoscenico mondiale, subì quel colpo 
mortale che portò gli Stati Uniti a recitare un ruolo da protagonista 
nell’area: da quel momento il Golfo Persico diventò un interesse vitale per 
gli Usa
8
, che si trovarono anche a dover gestire in prima persona gli inizi 
delle rivoluzioni e dei colpi di stato militari nelle ex colonie europee. 
L’Italia prende le distanze dall’iniziativa franco-anglo-israeliana del ’56 e 
partecipa logisticamente alle Forze d’urgenza delle Nazioni Unite nel Sinai 
(UNEF 1 - First United Nations Emergency Force); due anni dopo sarà 
presente anche nel gruppo di osservatori Onu in Libano (UNOGIL - United 
Nations Observation Group In Lebanon). L’adozione dell’opzione 
multilaterale e la scelta di schierarsi contro la soluzione militare 
consentirono all’Italia di guadagnare crediti e simpatie da parte del mondo 
                                                 
8
 Cfr. PIACENTINI V., “La politica estera italiana, i paesi arabi e il mondo musulmano”, in Il Mediterraneo nella 
politica estera italiana del secondo dopoguerra, Bologna, 2003.
12   
arabo e di consolidare l’alleanza con gli Stati Uniti: «[…] Mai prima, alla 
fine della Seconda guerra mondiale – scrive Di Nolfo – l’intesa italo-
americana
9
 era stata piø completa sul piano diplomatico». E continua 
sottolineando l’importanza della «convergenza di interessi italo-americani 
nel tenere aperta un’opzione costruttiva rispetto al mondo arabo» che 
permette all’Italia di giocarsi le sue carte per ritagliarsi un ruolo nella 
regione, venendo «meno il problema dell’ambivalenza tra le sue ambizioni 
mediterranee e la coerenza con gli impegni continentali o atlantici»
10
. 
Se, infatti, negli anni del centrismo monocolore di De Gasperi (tra il 1947 e 
la metà degli anni ’50) le priorità della politica estera italiana si rivolsero 
quasi esclusivamente verso la dimensione euro-atlantica, per tutelate 
l’interesse nazionale di stabilizzazione e sicurezza garantito 
dall’integrazione politica ed economica con la nascente Comunità europea 
da un lato, e dalla centralità che le questioni europee assurgevano per gli 
Stati Uniti dall’altro; con l’uscita di scena del grande statista e l’incalzare 
degli eventi internazionali la situazione iniziò a mutare. Fatto salvo 
l’ancoraggio al blocco occidentale, dalla metà degli anni ’50 agli inizi degli 
anni ’60 la discussione all’interno del mondo politico e culturale italiano 
vide emergere la volontà di avviare una politica estera di maggiore respiro e 
con piø ampi margini di autonomia, che si concretizzò nell’”opzione 
mediterranea”. Già l’Italia pre-unitaria, grazie all’attivismo diplomatico del 
Conte di Cavour per conto del Regno di Sardegna durante il conflitto di 
Crimea, aveva manifestato interesse per l’Oriente medio e asiatico, gettando 
un ponte per la costruzione di quei legami culturali che furono ripresi negli 
anni Cinquanta con l’avvio di una serie di iniziative: creazione di organismi 
per favorire i contatti con i paesi arabi (Accademia del Mediterraneo, Centro 
per le relazioni culturali italo-arabe, Centro per la cooperazione 
mediterranea, Associazione per il progresso e l’indipendenza dei popoli dei 
territori coloniali); missioni storico-archeologiche; centri culturali e borse di 
studio. La naturale collocazione geopolitica della Penisola e la sua rinuncia 
ad ogni pretesa coloniale, con la firma del Trattato di pace di Parigi (10 
febbraio 1947)
11
, assicuravano all’Italia il gradimento delle popolazioni 
arabe rispetto a una piccola/media potenza che, chiusi i conti con il passato 
coloniale e parzialmente sganciata dalle rigide contrapposizioni tra i 
blocchi, potesse fornirgli buona tecnologia ed eccellente know how senza 
alti prezzi politici e, allo stesso tempo, contribuire alla ricerca delle radici 
culturali e all’affermazione di una identità nazionale proprie. 
In questo clima, torna in auge la vocazione mediterranea dell’Italia che 
vuole sfruttare la debolezza internazionale di Francia e Inghilterra innescata 
dalla crisi di Suez per riappropriarsi di quello status di media potenza che gli 
è stato sottratto dalla sconfitta nella Seconda guerra mondiale. La politica 
mediterranea, per un verso, animava le ambizioni di quanti sognavano un 
                                                 
9
 Sulle questioni fondamentali, in quegli anni l’Italia rimase alleato agli Stati Uniti. Secondo Di Nolfo, tra il 1956 e il 
1962, l’Italia divenne il piø vicino collaboratore della politica mediterranea degli Usa. DI NOLFO E., “Italia e Stati 
Uniti: un’alleanza diseguale”, in «Storia delle relazioni Internazionali», VI (1990), n. 1, op. cit., p. 27. 
10
 DI NOLFO E., “La «politica di potenza» e le formule della politica di potenza. Il caso italiano (1952-1956)”, 
in DI NOLFO E., RAINERO R. H., VIGEZZI B. (a cura di) L’Italia e la politica di potenza in Europa (1950-1960), 
Milano, 1992, p. 721. 
11
 Nel primo comma dell’articolo 23, Il documento precisava che l’Italia rinunciava «a ogni diritto e titolo sui 
possedimenti territoriali italiani in Africa, e cioè la Libia, l’Eritrea e la Somalia italiana». Le decisioni successive 
sancirono, a parte l’affidamento all’Italia della tutela decennale sulla Somalia decisa nel 1949, lo smantellamento 
dell’apparato coloniale italiano.
13   
ritorno della grande Italia in termini nazionali, ma, per un altro verso, 
fungeva da impulso per quanti, soprattutto nel mondo socialista e nei partiti 
laici minori, ma anche nella sinistra della DC, accarezzavano progetti 
terzaforzisti
12
. Questo anelito di rendere l’Italia meno dipendente da rapporti 
di sudditanza nei confronti di soggetti esterni trova espressione nel 
cosiddetto “Neoatlantismo”, termine coniato da Giuseppe Pella
13
 nel 1957, e 
applicazione di una rinnovata politica estera marcata da una maggiore 
autonomia nel Mediterraneo e in Medio Oriente. 
 
1.4 Il Neo-atlantismo 
Il Neoatlantismo fu un fenomeno nel quale si mescolavano un «pacifismo 
atlantico» e un «nazionalismo mediterraneo» e che divenne una sorta di 
punto di coagulo di iniziative eterogenee le quali avevano in comune «la 
ricerca, sovente velleitaria, di un’azione originale nella condotta della 
politica estera». Fu inoltre uno strumento utilizzato da «una parte 
consistente del mondo politico ed economico italiano»
14
. Ne furono i 
principali interpreti Giovanni Gronchi, Enrico Mattei e Giorgio La Pira, che 
rappresentavano tre strategie, diplomatica, economica e culturale al servizio 
di una stessa politica
15
. 
Gronchi, Presidente della Repubblica dal 1955 al 1962, nella prima parte del 
suo settennato al Quirinale, fece diverse discusse incursioni nel campo della 
politica estera, tra le quali è rimasto celebre, per le polemiche che comportò, 
il tentativo di inviare nel 1957 una lettera, poi bloccata dal Ministro degli 
Affari Esteri Gaetano Martino, all’allora presidente americano Dwight D. 
Eisenhower, lettera con la quale auspicava un nuovo partenariato italo-
statunitense per il Medio Oriente
16
. Mentre il democristiano Gronchi, infatti, 
durante la crisi di Suez assunse una posizione filo-araba e conciliante verso 
l’Egitto con l’obiettivo di avvicinarsi agli Usa, considerati il partner naturale 
dell’Alleanza, il liberale Martino era allineato alle tesi americane ma senza 
voler «incrinare l’alleanza con Francia e Gran Bretagna»
17
, come emerse 
durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a cui l’Italia partecipava 
per la prima volta. Anzi, il Ministro degli Esteri compì un grande sforzo 
                                                 
12
 Osservano in proposito Mammarella e Cacace: «Sullo scenario italiano gli effetti del nuovo clima internazionale si 
manifestano in maniera particolarmente acuta e significativa. La posizione di chi – come, ad esempio, il ministro 
Martino e una parte consistente del gruppo dirigente democristiano – rimane convinto che la politica estera nazionale 
debba essere rigorosamente ancorata ai due principi fondamentali dell’atlantismo e dell’europeismo entra in 
rotta di collisione con un altro indirizzo, destinato a consolidarsi, che cerca margini di autonomia tra le strettoie della 
politica atlantica attraverso iniziative sovente originali e improvvisate; una linea che si intreccia sul versante interno con 
i primi timidi tentativi di “apertura a sinistra” attraverso il dialogo tra i cattolici e i socialisti nenniani. Una linea che si 
rafforza con il superamento della fase di emergenza della ricostruzione postbellica e grazie all’accelerazione dello 
sviluppo economico del paese» (MAMMARELLA G., CACACE P., La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario 
ai giorni nostri, Roma-Bari, 2010, op. cit., p. 203).  
13
 Pella è stato deputato all’Assemblea Costituente dal 1946 al 1948, deputato dal 1948 al 1968 e senatore dal 1968 al 
1976. Inoltre fu Presidente del Consiglio dei ministri nel periodo dal 17 agosto 1953 al 18 gennaio 1954 e piø volte 
ministro. 
14
 MAMMARELLA G., CACACE P., op. cit., 206-207. 
15
 ANSALDO G., “Il colloquio mediterraneo” nelle sue giuste proporzioni, in «Esteri», 15/10/1958, op. cit., pp.9-11. 
16
 BEDESCHI MAGRINI A., Spunti revisionistici nella politica estera di Giovanni Gronchi Presidente della 
Repubblica, in DI NOLFO, RAINERO, VIGEZZI (a cura di). La lettera di Gronchi ad Eisenhower trattenuta dal 
Ministro degli Esteri italiano è pubblicata da WOLLEMBORG L. J., Stelle, strisce e tricolore. Trent’anni di vicende 
politiche fra Roma e Washington, Milano, 1983, pp. 583-586. 
17
 Cfr. ACS, Verbali del Consiglio dei Ministri, sub data; L’Italia alle Nazioni Unite. Dicembre 1955-Marzo 1957, a 
cura dell’Ufficio Studi dell’ISPI, Milano, 1957, Cap. II.
14   
diplomatico per ricucire i rapporti tra i tre alleati occidentali, ottenendo un 
successo che in seguito gli venne riconosciuto sia dagli inglesi che dai 
francesi. 
Tra i rappresentanti delle forze laiche, il Vice presidente del Consiglio 
Giuseppe Saragat
18
 (PSDI – Partito Social Democratico Italiano),  e il 
repubblicano Giovanni Spadolini
19
 erano preoccupati di non rompere la 
solidarietà con Parigi e Londra. Anche molti esponenti della DC, tra cui il 
Presidente del Consiglio (1955/1957 e 1959/1960) Antonio Segni
20
, Taviani 
e Rumor (appartenenti alla principale corrente democristiana “Iniziativa 
Democratica”) erano contrari a incrinare il consenso europeo e 
denunciarono il comportamento di Nasser. Del tutto diverso fu 
l’atteggiamento del leader della corrente e del partito Amintore Fanfani. 
Egli era favorevole all’apertura agli arabi e ad instaurare un rapporto 
privilegiato con gli Usa per trarre benefici nella gerarchia atlantica a scapito 
di Gran Bretagna e Francia. Presidente del Consiglio per diversi mandati tra 
gli anni ’50 e la prima metà degli anni ’60 (e per altri due negli anni 
Ottanta), Fanfani auspicava una conciliazione tra l’anima occidentale e 
quella mediterranea dell’Italia per una piena parificazione con i suoi alleati. 
Per tale motivo nutriva verso gli Stati Uniti «il massimo di fedeltà con il 
massimo di indipendenza»
21
. In realtà, «il “terzomondismo” italiano 
(almeno quello della politica estera e commerciale) − secondo Ilari − non ha 
mai avuto connotazioni anti-americane, ma semmai anti-britanniche e anti-
francesi»
22
, proprio per approfittare del declino delle due ex potenze 
coloniali. 
  
1.5 Penetrazione dell’ENI in Nord Africa e Medio Oriente  
Queste “aspirazioni mediterranee” trassero ulteriore alimento dagli 
indiscutibili successi economici registrati da alcune imprese italiane. A 
svolgere un ruolo fondamentale nell’area fu senza dubbio l’ENI (Ente 
Nazionale Idrocarburi), costituita nel 1953 da Enrico Mattei, il quale venne 
inizialmente incaricato di liquidare le attività dell’Agip. Invece scelse di 
disattendere questa indicazione, per conseguire un obiettivo che riteneva 
fondamentale: garantire al Paese un’impresa energetica nazionale
23
. Il suo 
attivismo in campo internazionale fu sostenuto dal Presidente Gronchi e 
ancor di piø dal Presidente del Consiglio Segni e dal suo successore Fanfani 
(che deteneva anche la carica di Ministro degli Esteri). Mentre le alte 
cariche istituzionali vedevano nel Presidente dell’Eni la figura in grado di 
restituire all’Italia un peso in politica estera e l’assicurazione 
dell’approvvigionamento energetico tramite politiche economiche autonome 
e sganciate dall’ingerenza dei grandi paesi occidentali, che appoggiavano i 
“cartelli” costituiti dalle proprie compagnie petrolifere, queste ultime mal 
sopportavano l’atteggiamento spregiudicato e la concorrenza dell’Eni che 
                                                 
18
 Saragat, Presidente della Repubblica dal 1964 al 1971, fu favorevole alla prima coalizione di centro-sinistra che andò 
al governo nel 1963. 
19
 Spadolini è stato piø volte ministro e, tra il 28 giugno 1981 e il 1º dicembre 1982, il primo Presidente del Consiglio 
dei Ministri non democristiano nella storia dell’Italia repubblicana. 
20
 Segni fu Presidente della Repubblica dal 1962 al 1964, quando si dovette dimettere causa malattia. 
21
 ROMANO S., Guida alla politica estera italiana. Da Badoglio a Berlusconi, Milano, 2004. 
22
 ILARI V., Guerra civile, Roma, 2001, op. cit., pp. 106-107. 
23
 Dalla storia di Mattei raccontata sul sito dell’Eni: www.eni.com/it_IT/azienda/storia/enrico-mattei/enrico-
mattei.shtml.
15   
andava scardinando il loro monopolio sul petrolio. Grazie alla libertà 
d’azione accordata a Mattei, che lo svincolava dal controllo governativo 
(fatto che a piø riprese ha suscitato reazioni e critiche dei partner alleati, 
specie gli americani, ai piø alti livelli), dalla fine degli anni ’50 l’Eni 
concluse importanti accordi economico-commerciali con Iran, Marocco, 
Libia, Tunisia, Egitto, Algeria e perfino con l’Unione Sovietica
24
. Si trattava 
di accordi che, prevedendo la cessione del 75% dei profitti al Paese dove si 
effettuavano le ricerche petrolifere, si rivelarono assai favorevoli per questi 
Stati, dal momento che si offriva loro la possibilità di svincolarsi dalla 
morsa delle principali compagnie multinazionali occidentali
25
, la cui attività 
era sempre piø spesso vista come uno sfruttamento. Il primo accordo del 
genere fu siglato il 14 marzo 1957 tra Eni e Nioc (National Iranian Oil 
Company)
26
. In seguito fu creata la Società Italo-Marocchina (26 luglio 
1958), e l’11 ottobre 1960 fu firmato l’accordo tra Eni e Urss per la 
fornitura di petrolio russo a prezzi vantaggiosi in cambio di tubi saldati 
(prodotti a Taranto) per la costruzione di oleodotti nel paese sovietico. Il 
lavoro di Enrico Mattei creò notevole fastidio alle compagnie multinazionali 
petrolifere anglo-americane, le quali intravedevano il pericolo di una 
destabilizzazione dell’approvvigionamento petrolifero dal Medio Oriente e, 
soprattutto, il rischio di indebolimento della propria posizione di cartello. Il 
lavoro di Enrico Mattei e dell’Eni iniziò a diventare una minaccia per 
l’ordine mondiale uscito vincitore dalla Seconda guerra mondiale e quasi 
totalmente in mano agli interessi americani. Dallo stesso governo di 
Washington furono avanzate molte pressioni al governo italiano per evitare 
l’accordo Eni-Iran. L’accordo fu soltanto una delle sfide lanciate da Mattei 
alle Sette Sorelle. Mattei morì il 27 ottobre 1962 in un incidente aereo, per 
molti versi oscuro. 
 
1.6 La politica di stabilizzazione degli anni Sessanta 
A tutto ciò si aggiungevano le suggestioni religiose e culturali di Giorgio La 
Pira, fervente cattolico e Sindaco di Firenze (1951/1958 e 1961/1965), 
promotore dei “Colloqui mediterranei”, cui si deve il ripensamento del 
Mediterraneo come spazio di confronto tra le principali religioni 
monoteiste
27
. La Pira, come Martino e i diplomatici meno legati alle 
esperienze del passato, vedevano con favore l’indipendenza e lo sviluppo 
dei paesi coloniali al fine di propiziare la pace e la stabilità nell’area e al 
contempo promuovere la crescita politica ed economica dell’Italia. Così 
cercarono di stabilire rapporti proficui e paritari con i PVS (Paesi in Via di 
Sviluppo), puntando a sottrarli alla sfera di influenza comunista e avviando 
                                                 
24
 Su Mattei Cfr. MAUGERI, L’arma del petrolio. Questione petrolifera globale, guerra fredda e politica interna nella 
vicenda di Enrico Mattei, Firenze, 1994. Si veda anche il volume di BAGNATO, Petrolio e politica. Mattei in 
Marocco, Firenze, 2004. 
25
 La nuova spinta nazionalista spinse i governi produttori alla rivendicazione dei diritti sullo sfruttamento degli 
immensi giacimenti di petrolio. La disparità esistente iniziò a generare attriti tra i governi sauditi e le compagnie 
occidentali, finchØ nel 1950 si trovò l’accordo sulla base della regola del “fifty fifty”, grazie a cui i paesi produttori 
beneficiavano del 50% dei profitti in cambio del rilascio delle concessioni di estrazione alle compagnie straniere. 
26
 L’8 settembre 1957 le due società fecero nascere la Sirip (Società Irano-Italienne des PØtroles), società al 50%, la 
quale avrebbe riconosciuto il 50% delle royalties allo Stato iraniano ed il restante 50% diviso equamente tra l’Eni e il 
Nioc. Di fatto, essendo la Nioc un’azienda di Stato, lo Stato iraniano beneficiava del 75% dell’accordo. 
27
 CIAVATTINI F. (a cura di), “L’Europa e il Mediterraneo nella visione di Giorgio La Pira”, Atti dell’incontro 
internazionale del 10 e 11 maggio 2002, Arezzo, 2002.
16   
una cooperazione politica, economica e culturale che si esplicò nel Piano 
Pella del 1957. Il programma prevedeva di fornire assistenza e sviluppo ai 
paesi mediorientali tramite i capitali dovuti agli stati europei dagli Stati 
Uniti. In questo modo l’Europa avrebbe rafforzato i legami con il mondo 
arabo e l’Italia sarebbe riuscita ad avviare il piano, tanto caro a Mattei, di 
unire la valorizzazione delle risorse energetiche del Medio Oriente 
all’industrializzazione dell’Italia meridionale. La bocciatura americana del 
programma evidenziò con chiarezza che alcune esigenze politico-
economiche fondamentali del nostro paese, come l’apertura e l’attivismo nei 
confronti dei paesi arabi e la volontà di muoversi autonomamente nel campo 
delle concessioni petrolifere, entravano in profondo contrasto con gli 
interessi del suo principale alleato. 
Tuttavia, non si fecero attendere altre iniziative politiche e diplomatiche. 
Nel 1960, per esempio, Segni e Fanfani si recarono per la prima volta in 
Marocco in visita ufficiale. Fu un evento di rilievo per i risultati concreti che 
ne derivarono (come l’Accordo sulla pesca nel Canale di Sicilia), ma anche 
per l’avvio ufficiale, da parte italiana, di una “politica della comprensione” 
verso i Paesi di nuova indipendenza. Politica che permise non solo di far 
guadagnare spazi operativi all’Italia, ma anche di favorire l’incontro tra 
democristiani e socialisti che proprio sul terreno internazionale, con un 
approccio simile al processo di decolonizzazione, trovarono quell’accordo 
che gli consentì di formare il primo governo organico di centrosinistra della 
storia repubblicana
28
. 
 
1.7 La stagione del Centro-sinistra: il conflitto arabo-israeliano 
Dopo due anni di trattative serrate tra il PSI di Pietro Nenni e la DC di 
Amintore Fanfani, nell’autunno del 1960 quest’ultimo formò un governo 
con l’astensione dei socialisti. Nel febbraio del ’62, ebbe inizio la stagione 
del Centro-sinistra quando un nuovo governo Fanfani, con la partecipazione 
di DC, PRI e PSDI, ebbe l’appoggio parlamentare dei socialisti, i quali 
entrarono effettivamente al governo il 5 dicembre del 1963, con il governo 
presieduto da Aldo Moro. Iniziava allora la quarta legislatura e la stagione 
piø difficile per i governi di Centro-sinistra. Alla base di un evidente 
rallentamento della spinta riformatrice, acuita dall’interrompersi del boom 
economico che aveva visto la grande crescita dal paese dal 1958 al 1963, nei 
cinque anni successivi vi fu lo scontro fra la DC e il PSI sulle questioni 
economiche e politiche. In particolare la politica estera, dove la convergenza 
di vedute sembrava essere maggiore, fu teatro di dissidi e conflitti. 
Inizialmente il Centro-sinistra, fortemente osteggiato dalla destra politica e 
imprenditoriale, dalle gerarchie clericali e dagli alleati americani, venne 
percepito come un momento di svolta anche per la collocazione 
internazionale del Paese. Fedele alla scelta euro-atlantica, l’Italia dei primi 
anni Sessanta sembrò aspirare a un ruolo piø attivo sullo scacchiere 
internazionale, immaginandosi come ponte sia tra Est e Ovest sia tra Nord e 
Sud del mondo. Proprio lungo questa seconda direttrice si collocò la politica 
mediterranea e mediorientale che il Presidente del Consiglio Moro e il 
Ministro degli Esteri Fanfani (che nel ’67 si recò a Mosca con l’intento di 
avviare contatti per arrivare a una conferenza sulla sicurezza europea da 
                                                 
28
 PERFETTI F., “Mediterraneo e Medio Oriente nella politica estera italiana”, La Comunità Internazionale, Rivista 
trimestrale, Vol. LXVI, secondo trimestre 2011 n.2, pp.185-202, Editoriale scientifica srl.