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INTRODUZIONE 
 
L’idea che sottende a questo scritto è contribuire alla denuncia di un ritardo nella 
comprensione pastorale del linguaggio musicale come pragmatica epistemologica 
fondamentale per l’efficacia sacramentale del momento celebrativo, nel tessuto delle 
dinamiche dialogiche tra l’uomo e Dio che il rito dischiude. Tra i linguaggi estetici, sin 
dall’antichità quello musicale è forse quello ritenuto come il più connaturale al 
comunicarsi del divino, per l’intrinseca qualità liminale delle sue dinamiche e dei rapporti 
che lo costituiscono come linguaggio dell’eccedenza e, per questo, come forma espressiva 
privilegiata per aprire l’accesso a ciò che trascende l’essere umano. Tuttavia, nelle nostre 
comunità come nelle commissioni di musica sacra, si discute ancora troppo su quali canti 
fare, più che su quali dinamiche una certa musica mette in campo nella celebrazione 
liturgica. Il disorientamento nasce dalla difficoltà di individuare uno statuto definitivo per 
l’arte musicale del rito, che rispetti gli equilibri fra tradizione e adattamento, contenuto 
teologico e cultura, oggettività della rivelazione e soggettività della percezione 
(dell’oggetto della rivelazione), mediazione e immediatezza nel sentimento del sacro.  
La vicenda storica che ci precede e che trova nel Concilio Vaticano II il nodo 
fondamentale a cui deve guardare ogni riflessione autentica sulla musica nella liturgia, è 
vasta e disgregata nei toni e nelle scelte. A partire dall’alto medioevo ad almeno tutto 
l’Ottocento, la Chiesa ha trascurato, a livello teorico e dandolo per forse per scontato o 
presupposto, il tema dell’incontro con le culture, con i popoli, dell’annuncio di una fede 
che da sempre nasce e si diffonde solo come “inculturata”, incarnata nelle vicende del 
mondo. La nascita della romanitas christiana, di una cristianità come cifra globale della 
società occidentale, ha contribuito a creare l’illusione di un unico modello (di fede, di 
annuncio, di linguaggio) che trova nella tradizione il sigillo di un’auctoritas dogmatica e 
indiscutibile, a sancire quale sia non solo la vera fede, ma anche il vero linguaggio della 
fede, la vera arte, la vera musica, la vera devotio, sostituendo alla coscienza personale una 
figura univoca, chiara e certa, del vero sentire cristiano. Il pensare le forme della fede 
cristiana come un unico modello è un’illusione fallimentare che non può condurre ad altro 
che una visione ideologica e cristallizzata dell’esperienza religiosa. La fede è una 
relazione viva e dinamica già genealogicamente, essendo originariamente e sempre 
implicata la libertà umana nell’articolazione con l’interpellarci della verità. Se la verità si  
è fatta carne, allora anche la fede e i suoi linguaggi devono non solo necessariamente
27 
 
inculturarsi, ma farsi carne, essere essi stessi corpo dell’esperienza generativa efficace 
della fede che nasce dall’incontro con Dio, soprattutto e in maniera privilegiata e 
insostituibile nel momento dell’azione rituale. Questo grande guadagno del Concilio 
Vaticano II ha creato e continua a creare grandi difficoltà e perplessità nel mondo 
musicale. L’immagine che si ha della musica per la liturgia prima del Novecento è una 
sorta di chiaro repertorio ricchissimo quanto monolitico e statuario, costituito dal canto 
gregoriano, dalla polifonia, dalla musica per organo e qualche escursione indulgente al 
canto popolare che solletica la devozione delle masse. La porta aperta dal Concilio 
Vaticano II ad un mondo ormai non più solo “romano” nelle forme e nell’ispirazione 
(tant’è vero che ad oggi tre quarti del cristianesimo mondiale trovano casa al di fuori dei 
confini europei), incide fortemente sulla necessità di rivedere le forme dell’annuncio, 
soprattutto rituali, della fede, e dunque i linguaggi e le coordinate di una espressione del 
rapporto col divino quanto mai ricca e variegata, quanto ricca è la tavolozza dei colori 
dell’esperienza umana.  
Così dagli anni ‘70 nel contesto ordinario delle nostre celebrazioni si può trovare di tutto 
nello stesso tempo, dal brano classico alla canzoncina pop, dal canto gregoriano a cappella 
alla musica con accompagnamento elettronico, all’assenza del musicale, avvertito come 
accessorio. Se la varietà delle scelte è opportuna e giustificata dalla necessità di venire 
incontro alle esigenze di un’assemblea liturgica sempre  differente (talvolta disgregata in 
specifici gruppi e fasce di età di fanciulli, di giovani, di anziani, di famiglie, di scout...), 
e dunque dal compito della regia celebrativa di tenere presente la concretezza del popolo 
di Dio, occorre tuttavia ricercare (e una volta trovate salvaguardare) quelle che sono le 
conditiones sine qua non di una autentica efficacia (espressiva e quindi sacramentale) 
rituale. Non si può bypassare il linguaggio musicale. Il rito custodisce la propria efficacia 
nelle dinamiche del suo ritmo celebrativo. La fede non si gioca altrove rispetto al suo 
momento celebrativo, ma anche e soprattutto in esso, in quanto momento che appartiene 
alla vita e che ad essa inerisce come momento qualitativamente significativo per la sua 
capacità di dare senso al vivere ordinario. Se così è, le dinamiche celebrative devono 
rispecchiare la verità e l’autenticità del celebrato nelle forme con cui si celebra. La 
preghiera non può essere “lode a Dio” senza lode, non si possono elevare “inni e cantici”
1
 
 
1
Col 3,16: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni 
sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali».
28 
 
senza la loro componente musicale (cosa che peraltro capita ogni volta che si recita l’inno 
del Gloria in una celebrazione festiva
2
).   
La presente ricerca si propone di mostrare come la musica sia parte integrante del rito al 
punto tale da essere identificata con esso attraverso l’esperienza del ritmo (esperienza 
connaturale sia alla musica che al rito). Essa non è quindi un elemento secondario della 
celebrazione che si possa tralasciare, ma la sua presenza imprescindibile nel rito è legata 
alla sua efficacia teologale, per la sua capacità di incidere, con le sue dinamiche, nel 
profondo del sentimento originario del sacro, rendendo il rito gioioso e desiderabile, vitale 
ed efficace. L’ambito del nostro studio è la musica del rito e per il rito, per indagare quale 
musica sia quella realmente liturgica. 
La musica è testo, ma nel testo non si può esaurire, perché nella sua fisiologica dinamica 
ritmica originaria la musica è innanzitutto vita. E questa potenza della musica è nota 
all’uomo da sempre, sin dall’inizio della cultura, quando in un suono, un grido o un 
movimento musicale, i miti più antichi indicavano la dinamica originaria del primo vagito 
del mondo stesso. Alle origini del mondo e dunque alle origini della possibilità di una 
esperienza del sacro, troviamo una archetipica esperienza sonora che risuona nelle nostre 
esperienze rituali. L’unica mediazione possibile al sacro è rituale. Se la musica è essa 
stessa rito, in un determinato contesto essa è custode già in sé di una intrinseca qualità 
religiosa.  La chiesa recepisce questa qualità religiosa del musicale, nel riconoscere che 
«il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria e integrante della liturgia solenne» 
(Sacrosanctum Concilium 112). Ma qual è la percezione del musicale nella nostra 
esperienza liturgica postconciliare? Alla prova pratica di chi scrive, che svolge il ruolo di 
direttore di coro in una parrocchia e membro da diversi anni di una commissione di 
musica sacra diocesana, pare che il linguaggio musicale nelle celebrazioni sia trascurato 
come accessorio, secondario, un di più ad sollemnitatem che merita maggiore o minore 
cura in base al grado di solennità  della  celebrazione secondo la percezione del popolo, 
ancor prima che secondo il calendario liturgico. Occorre, dunque, riconoscere al musicale 
per la liturgia il suo giusto profilo e statuto performativo, e riconoscere in questo orizzonte 
le qualità imprescindibili della sua efficacia, prima fra tutte, la qualità ritmica. È tale 
qualità, infatti, quella costitutiva anche del dispositivo rituale, che vive di sequenze e 
strutture il cui ritmo apre le brecce simboliche in cui il trascendente si affaccia a 
raggiungere il credente.  
 
2
 Il che equivarrebbe a recitare l’inno nazionale prima di un grande evento sportivo, che sarebbe però 
impensabile. Piuttosto, stonato o gridato, accennato o stentato: o cantato, o nulla. Giustamente.
29 
 
Altrettanto centrale e strutturalmente legata al ritmo, è la phoné¸ il carattere fondamentale 
che è  la voce in quanto in grado di portare la Scrittura al livello sensoriale dell’esperienza 
percettiva e permetterle di essere Parola viva. La voce è lo strumento con cui la Scrittura 
viene proclamata, esce dal libro per entrare nell’esperienza dell’uomo come corpo che 
vibra e risuona e si fa suono, timbro, colore, intonazione, cantillazione, canto, musica, 
panorama sonoro di una celebrazione in cui si intrecciano tutti i linguaggi estetici 
dell’esperienza religiosa, come sinestesia non semantizzante, ma performativa. 
Non ci occuperemo, dunque, di ogni tipo di musica, ma di quella che trova nel rito il suo 
contesto adeguato, con attenzione essenziale alle qualità ritmiche e fonetiche, ovvero a 
ciò che costituisce il corpo musicale dell’esperienza religiosa cristiana. 
Innanzitutto, si tratterà di precisare la musica nel contesto performativo del rito (cap. 1). 
Dopo aver delineato storicamente il percorso che ha condotto alla situazione attuale di 
disorientamento e accesa dialettica tra le differenti posizioni musicologiche nel campo 
della musica liturgica, cercheremo di fissare il guadagno consegnatoci dal Concilio 
Vaticano II (par.1), come momento di svolta per l’attuale riflessione sulla musica 
liturgica. Il grande guadagno è la centralità attribuita all’azione, all’aspetto pragmatico 
della rivelazione, che si traduce con la necessaria considerazione dell’intimo legame  tra 
il darsi di Dio e i linguaggi estetici, che allora non solo strumenti di traduzione (Ausdruck) 
del trascendente, ma essi stessi luoghi teologici della fede in atto. Per la nostra riflessione, 
questo significa cogliere l’intima connessione tra rito e musica come una nuova 
prospettiva per la rilettura del musicale liturgico.  Successivamente, per definire 
l’orizzonte della nostra ricerca, passeremo a tratteggiare alcune linee per una essenziale 
fenomenologia del rito in riferimento alla musica (par. 2.). Sarà importante un excursus 
su alcune dimensioni costitutive che si trovano all’origine dell’esperienza musicale. Il 
punto di partenza sarà il ritmo come struttura e corpo del musicale e che del musicale 
costituisce l’ancoraggio percettivo all’esperienza del mondo e del trascendente. Su questo 
stesso registro, per la sua analogia costitutiva, è la phoné, che in quanto “carne della 
musica” rappresenta l’ancoraggio a una dimensione che potremmo definire coscienziale 
e fisiologica insieme, proprio per l’intreccio intimo che la phonè ha con la profondità 
dell’essere umano. Con il  canto, il corpo nella phoné si fa veicolo espressivo di contenuto 
che non perde la forma, di significati che vivono del proprio spazio performativo, di una 
parola che non si vanifica nel concetto, ma che è celebrazione viva del Senso che la 
anima. Ritmo, phoné e dunque anche il canto, vivono nel contesto liturgico in cui 
accadono, strutturato anche dal silenzio che li accoglie e costituisce, e dello spazio sonoro,
30 
 
che si fa cifra dello stesso spazio abitativo del dimorare umano. Non mancherà, poi, la 
considerazione di una delle forme espressive musicali che hanno maggiore potenza 
simbolica per la liturgia, mostrandone le ragioni, che risiedono nel loro legame analogico 
con il corpo dell’azione rituale: la danza. Tali riflessioni saranno anche l’occasione per il 
riscatto della musica strumentale nel rito, per la capacità che gli strumenti hanno di essere 
un prolungamento del corpo di chi suona e che suona esso stesso nella risonanza con la 
musica eseguita. 
Il Concilio Vaticano II ci consegna come punto di non ritorno l’intima connessione tra 
rito e musica. Allora proprio questo legame andrà indagato, cercando di indicare alcune 
caratteristiche della musica che mostrano l’innegabile analogia con la dinamica rituale, 
per poi delineare una breve fenomenologia del tratto musicale sub specie ludi, 
essenzializzando il tratto musicale. Potremo così entrare in quelle che sono le condizioni 
per una musica che sia essa stessa percepita come rito in atto. Per le profonde affinità tra 
la musica e il gioco, la fenomenologia musicale può trovare una sua sintetica 
essenzializzazione sub specie ludi. Il gioco custodisce infatti l’efficace capacità di istituire 
a livello pre-riflessivo e pragmatico le condizioni per una verità che si incontra 
performativamente e che fonda processi evolutivi significativi. 
Successivamente (cap. 2.) entreremo nel vivo degli scenari aperti dalla musica rituale per 
il suo decisivo valore simbolico. Il simbolo evoca la questione linguistica. Quella del 
rapporto tra musica e linguaggio (par. 1.) è una questione delicata, perché legata alla 
problematica della semanticità della musica. Come porre la questione del referente del 
linguaggio musicale se esso è innanzitutto pragmatica, ante-predicativo, quasi-
trascendentale? Se la musica è rito, vive delle stesse dinamiche rituali, che hanno 
anzitutto valore performativo prima che linguistico. Questa stessa questione riguarda 
direttamente il tema musicale. La questione a lungo dibattuta è se la musica sia testo e 
quale sia il rapporto tra musica e parola. La musica ha una profonda capacità simbolica 
(par. 2.). L’autotelismo che la caratterizza porta in sé un legame con il proprio referente 
ineffabile. La capacità estatica della musica, riconosciuta sin dai tempi antichi, è  
esattamente quel punto di apertura e uscita, di svuotamento e incontro con il referente 
altro, che fa del linguaggio ritmico sonoro un oggetto di studio così coinvolgente.  
La musica come rito ha alcune condizioni imprescindibili (par. 3.). Innanzitutto, essa è 
un tipo di “comunicazione” non comunicativa, che non comunica cioè un significato, ma 
che è significativa in sé. Coinvolgendo strutturalmente il corpo, simbolo per eccellenza, 
interpella i ritmi vitali, respiro, battito cardiaco, e li risignifica e reinterpreta come
31 
 
possibilità liminale di accesso all’esperienza originaria del sacro, inscritta geneticamente 
nell’uomo. Il rapporto teorico tra musica e sacro vive dell’articolazione pratica tra musica, 
rito e liturgia cristiana e ci invita ad indagarne le condizioni attraverso la riflessione di 
alcuni autori (par. 4) che più si sono occupati di questo tema (Sequeri, Hameline, Girardi). 
Come abbiamo già sottolineato, l’azione rituale può essere considerata a buon diritto una 
sorta di comunicazione, in quanto luogo teo-logico, spazio del dialogo con il divino. 
Tuttavia, il tipo di comunicazione di cui vive l’azione rituale, dal momento che chiama 
in causa il sacro, per rispettarne lo statuto non può essere tradotta in parole e concetti. La 
dinamica di rivelazione si gioca sempre all’interno dello spazio personale di chi partecipa 
al rito, in maniera mai anticipabile. La dia-logica del rito non è la logica dell’utile e del 
calcolo, ma lo spazio aperto (lichtung la radura di heidegerriana memoria) in cui può farsi 
strada la luce dell’inatteso. Proprio questa capacità, che il musicale custodisce, di 
condurre l’uomo a una sorta di “svuotamento” contenutistico che lascia spazio 
all’emozione, permette l’apertura a una dimensione liminale, e fa sì che la musica possa 
essere una modalità dell’accadere dell’esperienza originaria del sacro. È  qui che diventa 
possibile parlare dell’efficacia sacramentale della musica per il rito (cap. 3.). 
Con questi guadagni potremo chiederci allora: quale musica per quale competenza 
liturgica? Se la liturgia in musica è risonanza col divino (par. 1.), occorre chiedersi: può 
esistere una liturgia senza musica? (par. 2.) La musica interviene a livello di ancoraggio 
percettivo a livello emotivo e coscienziale, fino a farci trovare commossi, toccanti nel 
profondo nel succedere di una risonanza del sub-lime che ac-corda con il divino in 
un’esperienza totalizzante. Ma quale ruolo ha la musica nell’efficacia sacramentale della 
liturgia? (par.3.). Nel panorama delle tante problematiche pastorali (par.4.) che parroci e 
direttori di scholae cantorum vivono nella loro attività, come declinare il rapporto tra 
liturgia, musica e cultura? Come rispettare la sana traditio incontrando la legittima 
richiesta di innovazione e inculturazione? Può esistere un genere musicale liturgico in cui 
tutta la Chiesa possa riconoscersi? I repertori in uso sono pensati nell’orizzonte della 
pertinenza rituale nel rispetto della pluralità delle identità ecclesiali e delle figure di 
assemblea liturgica, o sono forse un fallimento anticipato rispetto alla potenza di un rito 
che, imbrigliata in intellettualismi musicologici, soffoca senza vigore? La situazione della 
formazione dei futuri responsabili delle comunità non splende di gran luce in Italia. Allora 
proprio dalla formazione occorrerà ripartire per approfondire quei necessari orientamenti 
che pure il concilio ci ha offerto.
32 
 
Ripartire dall’approccio pragmatico al linguaggio musicale significa operare un 
passaggio “dal testo alla performance”, ovvero ricollocare nel suo contesto originario 
l’oggetto stesso della scienza liturgica nell’azione rituale, che è evento che accade in uno 
spazio e un tempo, in un mondo fenomenico, in un con-testo vitale in cui una comunità 
vive percezioni di un sacro che su quella particolare scena si affaccia finanche ad 
incarnarsi in un corpo del rito che vince la crudeltà di un razionalismo che intellettualizza 
il religioso fino a perderlo completamente. La Parola resa parole (testo), diventa 
rappresentazione, immagine-di-mondo, in cui domina il logos e si perde il mondo-della-
vita
3
. Il divino non esiste più, «Dio è morto», perso da qualche parte di irraggiungibile o 
reinventato dall’uomo come significato intellettualistico autoreferenziale. 
Il passaggio dal testo alla performance significa però cambiare lo stesso approccio al 
linguaggio musicale, non solo come parte accessoria e mezzo di solennità cerimoniale di 
questa o quella celebrazione, ma come elemento integrante implicato nel processo di 
rivelazione dell’evento sacro che nel rito accade. Significa, nel nostro caso, approcciare 
la musica non come sottofondo fonosferico di qualcosa che accade anche senza la musica, 
ma come pragmatica, parte con-costitutiva del comunicarsi del sacro nell’esperienza 
rituale, essa stessa per sua natura pragmatica, attraverso dinamiche fondamentali come 
quelle ritmiche e fonetiche. Il tema diventa allora, per la liturgia della Parola come nella 
liturgia in genere, come si domanda Tagliaferri: «Quale phoné, quale ritmo ci riconsegna 
al Mistero?»
4
. Se attraverso ritmo dell’esistenza (cosmica, personale e collettiva) e 
attraverso la voce il rito è così embricato con il mondo e il corpo da non solo aver a che 
fare con le prassi umane, ma essere esso stesso una pragmatica, allora la musica in quanto 
linguaggio implicato nel rito va anch’essa compresa come pragmatica. 
Questo significa una vera e propria rivoluzione nella riflessione sulla “musica sacra” nella 
liturgia, rivoluzione attualmente in cammino, dove non ancora arrivata, dove già in atto. 
O si inizia realmente a considerare la musica liturgica come pragmatica della fede o 
continueremo impotenti ad assistere agli scontri spesso aspri, acerbi e duri, tra musicologi 
e teologi liturgisti, sulla scia di fantomatici e in qualche modo dogmatici criteri estetici 
della musica sacra che allontanano il musicale dall’essere atto di fede e lo trasformano in 
mero scontro intellettualistico tra repertori. Dovremmo avere il coraggio di smettere di 
chiederci “quali canti facciamo per quella celebrazione?” (critica musicologica testuale) 
 
3
 Cfr. J. HABERMAS J., Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, Edizioni Laterza, Bari, 
2015 (Sagittari, 194), p. 5-38. 
4
 Cfr. R. TAGLIAFERRI, Liturgia eco della parola scritturistica. L’evento rivelativo come suono in Liturgia 
e parola sacra. Rito e mito (a cura di A. N. TERRIN), Edizioni Messaggero, Padova, 2018, p. 147.
33 
 
e chiederci invece “quale musicale per quale fede?” (approccio vitale-pragmatico 
rituale). Non più chiederci quale musica rappresenta la (nostra) idea di fede, ma in quale 
modo il musicale (e quale musicale) realizza efficacemente il nostro essere credenti. È 
questo il lavoro pastorale che, solo, può fare incontrare la musica come luogo della fede, 
nella sua efficacia teologale. Ogni riduzione intellettualistica la rende necessariamente 
prigioniera del conflitto delle interpretazioni che relega l’esperienza religiosa a un 
monopolio razionalistico di qualche cieca élite (di alcuni musicologi). Mentre questo 
accade, il popolo di Dio resta tale cantando autonomamente la propria fede, al di fuori di 
sterili dispute linguistiche, nel suo vivere l’esperienza di un Verbo (Parola viva, suono, 
voce) che si è fatto corpo e, proprio per questo, nel corpo incontra la vita dell’uomo, 
quella vera e non quella “diventata favola”
5
 delle sue rappresentazioni, anche musicali.
 
5
 Il riferimento è all’opera di F. NIETZSCHE, Il Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano, 1983
15
, (Piccola 
Biblioteca, 154).
34 
 
CAPITOLO 1 –LA MUSICA NELLA PERFORMANCE RITUALE 
 
Il Concilio Vaticano II ha aperto una nuova stagione per la liturgia, in cui la validità 
sacramentale e la conseguente solennità cerimoniale come cifre interpretative del 
momento celebrativo
1
 lasciano il passo a una comprensione teologica della liturgia che, 
in quanto tale (in quanto teologia), non può più esaurirsi nel suo momento giuridico, 
dogmatico e rubricistico, ma è interpellata sin dal principio dalla propria originaria 
vocazione pastorale
2
. Nel contesto storico teologico che preparò il Concilio nacque la 
teologia liturgica, orizzonte entro il quale si muove il presente lavoro. Essa si sviluppò a 
partire da una domanda che si presenta come una svolta nel pensiero moderno (non solo 
teologico): è la questione liturgica, segno di una nuova «comprensione del rapporto con 
Cristo e con la chiesa, in cui il celebrare rituale è ricollocato in un ambito significativo e 
costitutivo non solo per l’atto di fede in Cristo Signore, ma per la stessa rivelazione di 
Gesù come Signore»
3
. Questa nuova comprensione del mistero di Cristo per ritus et 
preces, richiesta dalla Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium sulla sacra 
liturgia
4
, individua la ritualità come modo specifico del culto cristiano di mediare la 
salvezza
5
 ridando centralità all’azione simbolico rituale come luogo della fede. Il rito non 
è più solo qualcosa di accessorio, di cerimoniale, di esterno al darsi della grazia che è 
l’incontro con Gesù Signore, ma luogo teologico per eccellenza di questo evento, 
 
1
 Erano i frutti della dogmatizzazione dei sacramenti a cui aveva condotto la strada imboccata in particolare 
dal Concilio di Trento. Cfr. R. TAGLIAFERRI, Il travaglio del cristianesimo. Romanitas christiana, 
Cittadella Editrice, Assisi, 2012, p 193. 
2
 Arnold Angenendt, in un capitolo sul Concilio Vaticano II, scrive: «La spinta storica verso una riforma 
[della liturgia, ndr] venne rafforzata da nuove concezioni pastorali. Il fatto che i vescovi francesi nel 1943 
abbiano chiamato il loro istituto liturgico Centre de Pastorale Liturgique esprimeva un esplicito 
orientamento nuovo: la liturgia come centro della pastorale; non solo ogni pastorale doveva condurre alla 
liturgia, ma anche in senso inverso la pastorale doveva attingere dalla liturgia la sua forza e la sua forma» 
(A. ANGENENDT, Liturgia e storia. Lo sviluppo organico in questione, Cittadella Editrice, Assisi, 2005, p. 
209-210).  
3
 A. GRILLO, Introduzione alla teologia liturgica. Approccio teorico alla liturgia e ai sacramenti cristiani, 
Edizioni Messaggero, Padova, 2011
2
 (Caro Salutis Cardo, Sussidi, 9), p. 78. Vanno qui almeno citati i 
principali grandi nomi che hanno dato corpo al Movimento Liturgico del XIX e XX secolo, e la cui storia 
è ben rintracciabile nel testo del prof. Grillo: Odo Casel, Antonio Rosmini, Festugière, Gueranger, Louis 
Beauduin, Romano Guardini, Salvatore Marsili, Cipriano Vagaggini. 
4
 CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Const. Sacrosanctum Concilium, 4/12/1963 in AAS 56(1964), 
97 ss.,(d’ora in poi SC) n. 48: «ne christifideles huic fidei mysterio tamquam extranei vel muti spectatores 
intersint, sed per ritus et preces id bene intellegentes, sacram actionem conscie, pie et actuose participent» 
(il corsivo è nostro). 
5
 R. TAGLIAFERRI, La violazione del mondo. Ricerche di epistemologia liturgica, C.L.V. – Edizioni 
Liturgiche, Roma, 1996, p. 15: «Globalmente il Vaticano II ha superato in modo decisivo una visione 
prettamente rubricistica della liturgia e ne ha approfondito la valenza teologica declinandola con le istanze 
pastorali, segnalando a più riprese che il modo specifico del culto cristiano di mediare la salvezza è la 
ritualità».
35 
 
destinatario e custode della genealogia della fede
6
. Pensare la liturgia come atto teologico, 
ovvero l’azione rituale come luogo della rivelazione
7
, significa porre attenzione teologica 
ai linguaggi estetici del rito in quanto corpo della dinamica di rivelazione e fede attivata 
nel momento celebrativo. Tra i linguaggi dell’estetica nella performance rituale, la musica 
come arte del suono ha un posto di rilievo
8
 per la sua originaria indole pragmatica
9
. Per 
darne ragione, è necessario innanzitutto delineare le linee essenziali del dibattito sulla 
musica per la liturgia dal Concilio Vaticano II a oggi, per cogliere la poliedricità e la 
frammentazione di un orizzonte di riflessione complesso. Precisato il contesto, andremo 
ad individuare alcuni aspetti fenomenologici della musica nel rito, come fondo 
pragmatico per il ricco tessuto simbolico del linguaggio musicale e cogliere alcuni 
guadagni iniziali
10
. 
 
1. Alcune linee storiche sul problema del rapporto tra musica e rito 
 
Per istruire la questione e cogliere la complessità del contesto in cui ci si muove quando 
si varca la soglia del dibattito su musica e liturgia, è utile un sintetico riesame della 
riflessione liturgico-musicale che ha condotto alla redazione del capitolo De musica sacra 
 
6
 Il rito è il luogo privilegiato che custodisce «le condizioni essenziali che originariamente danno luogo a 
quella fede che ancor oggi viene confessata come cristiana» (P. SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio di 
Teologia Fondamentale, Queriniana, Brescia, 1996, p. 159). «Il rito cristiano custodisce formalmente la 
trascendenza di Dio» (P. SEQUERI, Il Dio affidabile, p.768). 
7
 Cfr. A. GRILLO, Introduzione alla teologia liturgica, op. cit., p.84-85: «Se la cristologia è condizione della 
liturgia sul piano della riforma, sul piano della iniziazione è la liturgia a diventare condizione della 
cristologia [...]» E ancora: «Nella letteratura non è impossibile trovare oggi affermazioni come le seguenti: 
“C’è una priorità della liturgia rispetto alla cristologia- non è la cristologia a fondare la liturgia, ma 
viceversa: un Gesù non celebrato non potrebbe essere pensato come Cristo” (G. CANOBBIO,  I fondamenti 
cristologici della liturgia, «Liturgia» 31/1997, p. 834)». 
8
 «L’alleanza dei linguaggi artistici è il patto che sorregge il rito, e il suono è l’espressione che più di 
qualunque altra cosa dà forza a quell’alleanza» (G. BONACCORSO, L’estetica del rito. Sentire Dio nell’arte, 
San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2013, p. 205). 
9
 É proprio «l’esteriorità pragmatica della liturgia» che «salvaguarda il momento religioso e si segnala come 
una dimensione strategica per l’azione pastorale della chiesa in un mondo assetato di spiritualità» ( R. 
TAGLIAFERRI, La «magia» del rito. Saggi sulla questione rituale e liturgica, Edizioni Messaggero, Padova, 
2006, p. 379).  
10
 Quando si parla di musica liturgica è opportuna una nota terminologica. I modi con cui essa è stata e 
viene chiamata sono infatti molti, ma gli orizzonti e le immagini aperte da una definizione piuttosto che 
un’altra sono indubbiamente differenti, con differenti gradi di pertinenza rispetto al contesto di indagine, 
che è quello liturgico. Si è parlato di musica di/della chiesa (delimitazione storiografica), musica religiosa 
(rischio di indeterminatezza del contesto e del referente), musica ‘sacra’ (rischio di indefinitezza 
dell’aggettivazione e di sacralizzazione dell’estetico). Nel nostro scritto ci indirizzeremo verso l’utilizzo 
dei sintagmi musica nel rito  o musica rituale, ad indicare la dimensione musicale all’interno dell’azione 
rituale non già definita nella sola direzione del cristianesimo cattolico occidentale, e più spesso musica 
liturgica ad indicare la dimensione musicale della celebrazione cristiano-cattolica intesa come musica per 
la liturgia e nella liturgia, senza riferimento a un repertorio pre-determinato, ma con attenzione al contesto 
dell’azione rituale e della sua efficacia.
36 
 
della costituzione Sacrosanctum Concilium, e seguirne gli sviluppi negli anni che dal 
Concilio giungono sino all’oggi. 
La storia dei secoli che precedono il Concilio Vaticano II in materia musicale ci mostra 
scelte ecclesiastiche volte più a salvaguardare il proprio patrimonio teologico con 
un’autorità dogmatica che non è stata in grado di mediare tra l’autonomia dei percorsi 
creativi della disciplina musicale e la tutela delle dinamiche linguistiche adeguate 
all’espressione del sensus fidei.  
In Occidente, il sintagma “musica sacra” ad indicare la musica ecclesiastica, ovvero il 
repertorio dei brani a servizio delle celebrazioni liturgiche in chiesa, compare la prima 
volta nel primo tomo dell’opera di Michael Praetorius Syntagma Musicum del 1614, 
pubblicato nel 1615
11
. É una fonte importante, perché la musica sacra viene indicata in 
modo chiaro come repertorio ecclesiastico distinto da quello profano e destinato ad altri 
usi rispetto a quelli del rito cristiano
12
. Inizia a farsi strada una percezione della musica 
d’uso rituale più definita, che sente come musica di chiesa più pertinente quella vocale, 
con testi tratti dalla Scrittura, dalla Liturgia o dai Padri, destinati a precisi momenti rituali, 
caratterizzata «dalla presenza di alcuni tratti formali e di particolari stilemi compositivi 
(come dei richiami all’antica modalità, delle sezioni polifoniche, di un contrappunto 
osservato...). Questi elementi [...] erano sentiti come normali [...] entro il contesto delle 
celebrazioni religiose
13
». Tuttavia, la storia della musica quando parla di musica sacra si 
riferisce soprattutto ad una sorta di sacralità della musica intrinseca, custodita dalla 
propria formalità estetica o dal suo essere espressione di un genio compositivo di 
romantica ispirazione. Il sentimento del bello diventa custode unico di un’immediatezza 
del sacro che supera la necessità della domanda tecnica sul linguaggio. In particolare, 
nell’Ottocento, «la distanza tra la chiarezza semantica della parola e l’indeterminatezza 
della musica viene sottolineata ed esaltata dai filosofi e dai pensatori romantici»
14
, che si 
riferiscono alla musica come a un “linguaggio che dipinge sentimenti umani in forma 
sovrumana perché parla un linguaggio che noi non conosciamo” (Wackenroder), che 
descrive pensieri “troppo indefiniti per essere espressi in parole” (Mendelssohn)
15
.  Tale 
 
11
 Syntagmatis Musici Tomus Primus, De Musica Sacra vel Ecclesiastica, Johannes Richter, Wittenberg, 
1615. Cfr. F. RAINOLDI, op. cit., p. 447. 
12
 La riflessione su una certa sacralità della musica, intesa come capacità eminentemente etica di aprire al 
trascendente, così come su un suo uso sacro nei riti (cristiani e prima pagani), non era certo assente. Ne 
sono testimonianza autorevole testi come il libro III della Repubblica di Platone il De Musica di Plutarco, 
il De Musica di Agostino di Ippona, il De institutione musica di Severino Boezio, il Compendium Musicae 
di Cartesio, solo per citarne alcuni. Su questi temi torneremo in seguito. 
13
 F. RAINOLDI, Sul panorama sonoro della liturgia, op. cit. p. 448. 
14
 E. FUBINI, Estetica della musica, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 119. 
15
Ibidem.
37 
 
considerazione della musica rendeva inconcepibile porre limiti o freni, indicazioni 
precise, alla libertà romantica del genio ‘ispirato’ del compositore. La liturgia divenne 
nell’Ottocento casa e contenitore della musica che veniva dalla cultura del tempo, ospite 
di linguaggi che la Chiesa si troverà presto a disconoscere come custodi del sacro 
cristiano, e a sanzionare invece come derive di un musicale che, lungi dall’essere a 
servizio della celebrazione, la saturava, distogliendo dal motivo di preghiera delle 
cerimonie religiose. Non erano mancati alcuni tentativi di riforma
16
. Tuttavia la situazione 
musicale della liturgia rimase desolante, tanto da suscitare i commenti scandalizzati di 
grandi musicisti
17
. La concezione romantica di una sacralità intrinseca della musica come 
espressione del Bello si fece veicolo di una sempre più generalizzata e diffusa ambiguità 
di fondo nel dibattito sulla musica “di chiesa”
18
. 
Come arrivare a una soluzione ultima e chiara che risponda alla pluralità delle esperienze 
percettive di un’assemblea variegata, nel momento celebrativo? Questa domanda 
 
16
 Tra i più significativi è da ricordare già il Sinodo di Pistoia convocato da Leopoldo II il 26 gennaio 1786. 
Fu uno dei più significativi tentativi di riforma liturgica nel periodo post-tridentino, con molte istanze 
successivamente raccolte dal Vaticano II: partecipazione attiva dei fedeli, altare unico, significato ecclesiale 
della preghiera cultuale, lingua volgare per la comprensione del popolo, riforma del breviario e del messale, 
manuale per il popolo per seguire la messa, con salmi e inni con testi comprensibili e cantabili con dignità 
dai fedeli. La lontananza di molti uomini della Curia Romana dalla comprensione di un movimento 
liturgico, e la paura di toccare la liturgia come pericolo di intaccare il dogma, portò alla condanna del sinodo 
con la bolla Auctorem Fidei di Pio VI del 28 ottobre 1794. Cfr. E. CATTANEO, Il culto cristiano in 
Occidente. Note storiche, C.L.V. – Edizioni Liturgiche, Roma, 2003 (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. 
Subsidia, 13, a cura di A. PISTOIA e A.M. TRIACCA), p. 435-451. Non può non essere ricordata in questa 
sede l’enciclica Annus Qui di Benedetto XIV, scritta poco prima in vista del giubileo del 1750 e resa 
pubblica il 19 febbraio 1749, che offrì quelli che rimasero anche successivamente i criteri più chiari, nel 
contesto di un richiamo all’ordine contro gli abusi nel panorama sonoro delle celebrazioni di chiesa. Questa 
enciclica, «la migliore sull’argomento di tutta la storia della chiesa» (V. SANSON, La musica nella liturgia. 
Note storiche e proposte operative. Edizioni Messaggero, Padova, 2002, p. 185), un vero «codice giuridico 
della musica sacra» (F. RAINOLDI, Traditio Canendi. Appunti per una storia dei riti cristiani cantati, C.L.V. 
– Edizioni Liturgiche, Roma, 2000 (Bibliotheca Ephemerides Liturgicae. Subsidia, 106, a cura di A. Pistoia 
e A.M. Triacca), p. 769), aveva come obiettivo quello di rispondere ai vari abusi che si perpetuavano nelle 
chiese, secondo il criterio della ‘convenienza’. Secondo Rainoldi, «il criterio della ‘convenienza’ fa da filo 
conduttore ed è applicato ai vari ambiti della realtà ecclesiastica: il luogo: la musica che si fa in chiesa deve 
denotare per sua natura la sede in cui si svolge, ben diversa dal teatro; i riti: abbisognano di un canto non 
profano, non mondano, cioè non teatrale; non i parla esplicitamente né di “sacro”, né di canto liturgico; il 
testo: deve essere comprensibile in sé e non prestarsi, come in teatro, al prevalente godimento degli artifici 
musicali e delle belle voci». Cfr. F. RAINOLDI, Traditio Canendi. Op. cit., p. 770. 
17
 Charles Gounod, ad esempio, così parlava della musica liturgica da lui ascoltata nel suo soggiorno 
romano tra il 1840 e il 1842: «Fuori dalla Cappella Sistina e dell’altra dei Canonici di San Pietro, la musica 
ecclesiastica era esecrabile. Non si può immaginare un insieme simile di sconvenienze, di cui faceva pompa 
in tali luoghi in onore di Dio. Tutti gli orpelli della musica profana passavano sui cavalletti di quelle 
mascherate religiose». Cfr. V. SANSON, La musica nella liturgia, op. cit., p. 187. 
18
 Come scrive Virginio Sanson, «evidentemente non era sufficiente protestare e proibire; il difficile era 
ripensare la funzione e le caratteristiche stilistiche dell’arte musicale nell’ideale di una sua feconda simbiosi 
con il rito cristiano»
 
(cfr. V. SANSON, La musica nella liturgia, op. cit., p. 188). Tant’è vero che si dovrà 
attendere il 1860, con il III concilio provinciale di Colonia, per trovare per la prima volta in un documento 
ecclesiastico il termine musica sacra quasi in senso tecnico ad indicare un repertorio pensato come 
teoricamente delineato, Cfr. F. RAINOLDI, Sul panorama sonoro della liturgia, op. cit. p. 449.