4
fisica alla quale sia possibile attribuire gli obblighi, e le relative responsabilità, 
connessi al possesso di dette qualifiche formali; operazione successiva, dal 
punto di vista logico, sarà poi quella di stabilire la rilevanza penale della 
delega (frutto di ineludibili esigenze di divisione e di specializzazione del 
lavoro) dell’adempimento di tali obblighi, da parte del titolare originario degli 
stessi, ad altri soggetti. 
 Si vedrà come la dottrina assuma su tali questioni posizioni 
riconducibili fondamentalmente a due grandi filoni interpretativi: da una parte, 
le teorie cd. formalistiche, in base ad esigenze di tutela della tassatività del 
precetto e a preoccupazioni di slittamento “verso il basso” della responsabilità 
(attraverso la costituzione di “capri espiatori”), pongono come presupposto 
della loro elaborazione la necessità di un “ancoraggio” alla qualifica formale, 
riconoscendo, quindi, una possibile rilevanza della delega di funzioni su di un 
piano meramente soggettivo; dall’altra, l’orientamento cd. funzionalistico, in 
considerazione del rischio di fondare una responsabilità di posizione in capo al 
datore di lavoro (o all’imprenditore) e della conseguente esigenza di attribuire 
prevalenza ai criteri di carattere sostanziale rispetto a quelli di carattere 
formale, attribuisce rilevanza oggettiva alla delega di funzioni, nella misura in 
cui questa trasferisca concretamente al soggetto delegato l’esercizio delle 
funzioni corrispondenti alla qualifica normativa esplicitamente indicata, anche 
se si tratta di soggetto formalmente sprovvisto di essa. 
 Entrambe le teorie presentano pregi e difetti che verranno esaminati, 
insieme alle elaborazioni giurisprudenziali in materia, nella sede specifica, 
potendo tuttavia fin d’ora anticipare come i recenti indirizzi interpretativi 
sembrino accordare preferenza all’orientamento cd. funzionalistico. 
 Rispetto a tali problematiche un’analisi della specifica disciplina della 
sicurezza del lavoro appare particolarmente opportuna: questa materia, infatti, 
rappresenta tradizionalmente il campo privilegiato di indagine all’interno del 
quale è stata elaborata la “teoria della delega”, nonché l’ambito in cui si sono 
registrati  i più significativi sviluppi normativi sul tema. 
 5
 La ragione di tale circostanza va ravvisata nell’assoluto valore dei beni 
che questa disciplina mira a salvaguardare; ciò ha condotto il legislatore, nel 
tentativo di apprestare una tutela più efficace possibile (quindi, 
necessariamente, finalizzata alla prevenzione), a procedere quasi 
sistematicamente all’introduzione di fattispecie contravvenzionali, di carattere 
omissivo, volte a sanzionare (in quanto presunta come pericolosa) la condotta 
inosservante dei precetti prevenzionali previsti dalla normativa speciale in 
materia di sicurezza del lavoro. 
 Questa scelta del legislatore, resa particolarmente significativa dalla 
contemporanea depenalizzazione di gran parte degli illeciti che costituivano il 
cd. diritto penale del lavoro, ha comportato una progressiva attrazione della 
normativa antinfortunistica nell’ambito del diritto penale. 
Ne è derivata una speciale attenzione, nella formulazione delle 
disposizioni che compongono tale normativa, alle suddette esigenze di 
“personalizzazione”, con una conseguente definizione in senso funzionale 
della figura del datore di lavoro, una particolare valorizzazione delle posizioni 
dei cd. quadri aziendali intermedi ed un riconoscimento, sia pure in negativo, 
della legittimità della delega; scelte che, d’altronde, appaiono perfettamente 
conformi ad una moderna concezione della prevenzione, che considera la 
sicurezza come un obiettivo il cui conseguimento implica uno sforzo corale di 
tutti i soggetti che, in qualsiasi modo e misura, vengano ad assumere un potere 
di conformazione nei confronti dello svolgimento dell’attività lavorativa. 
Particolarmente significativa apparirà, quindi, ai fini del presente 
lavoro, un’analisi del quadro normativo della sicurezza, sotto il profilo 
precettivo e sanzionatorio, ponendo particolare attenzione ai criteri e alle 
tendenze evolutive che hanno condotto alla situazione attuale, non trascurando 
un breve accenno ai progetti legislativi in corso di approvazione. 
 
 6
CAPITOLO I 
IL QUADRO NORMATIVO 
Sommario: 1. Premessa. – 2. La legislazione di derivazione codicistica e le 
disposizioni costituzionali. – 3. La legislazione speciale: dai decreti presidenziali 
degli anni Cinquanta alla legge di riforma sanitaria. – 4. La normativa comunitaria 
in materia di salute e sicurezza sul lavoro e la sua influenza sull’ordinamento 
italiano. – 5. La legislazione speciale: i decreti legislativi di recepimento delle 
direttive comunitarie. – 6. Conclusione: insufficienze e prospettive.  
 
 
1. Premessa. 
 
La materia della sicurezza e dell’igiene sul lavoro si occupa di tutelare i 
beni della vita, dell’integrità fisica e della salute dei lavoratori rispetto alle 
offese che a questi possano derivare dal verificarsi di infortuni sul lavoro o di 
malattie professionali
2
.  
 L’importanza e la stessa natura esistenziale dei beni tutelati, li rendono 
insofferenti rispetto ad una logica di mera riparazione successiva alla lesione e 
richiedono, rispetto alle situazioni di rischio connesse all’attività lavorativa, 
una protezione anticipata, che assuma, quindi, i caratteri della prevenzione.  
                                                 
2
 Queste categorie rappresentano diversi modi di produzione del medesimo risultato 
lesivo o letale: l’infortunio deriva da un’azione lesiva concentrata in un breve lasso 
di tempo, mentre la malattia professionale si pone come l’esito di un’azione lesiva 
che opera con gradualità e i cui effetti possono rivelarsi anche a notevole distanza di 
tempo. Inoltre, la giurisprudenza di legittimità, con riguardo all’ambito 
d’applicazione dell’art. 437 c.p., ha recentemente formulato il concetto di malattia-
infortunio (vedi, per una prima elaborazione, l’insegnamento di Cass. 14 settembre 
1990, in GUARINIELLO R., Sicurezza del lavoro e Corte di Cassazione, Milano, 1994, 
238). Come spiegato dalla Suprema Corte (Cass. 14 gennaio 1999, in Igiene Sic. 
Lav., 1999, 7, 433): “A differenza delle malattie professionali in senso stretto, che 
consistono in manifestazioni morbose contratte nell’esercizio e a causa di lavoro e 
che non sono prodotte da agenti esterni, la malattia-infortunio va intesa come 
sindrome morbosa insorta in esecuzione di lavoro e prodotta da agenti esterni di varia 
natura (elettrica, radioattiva, chimica ecc.), evitabile con determinati accorgimenti”. 
Cfr. PULITANÒ D., voce Igiene e sicurezza del lavoro (tutela penale), in Dig. Disc. 
Pen., VI, 1992, 104; GUARINIELLO R., Obblighi e responsabilità delle imprese nella 
giurisprudenza penale, in Riv. Giur. Lav. Prev. Soc., 2001, 4, 537 ss. 
 7
 Per quanto riguarda, specificamente, gli infortuni sul lavoro, alla loro 
produzione, il più delle volte, concorrono sia  fattori di carattere oggettivo, 
relativi al contesto materiale e ambientale in cui l’attività lavorativa si svolge 
(sicurezza e affidabilità intrinseca dei luoghi, delle macchine e degli impianti 
impiegati), sia fattori di carattere soggettivo, attinenti alle condizioni psico-
fisiche del lavoratore che incorre in un incidente (età, addestramento, 
esperienza, attenzione, consapevolezza del pericolo, stato di salute, etc.).  
 Ne consegue che un’azione prevenzionale che voglia essere efficace, 
deve intervenire in modo organico e coordinato su entrambi i fattori di rischio, 
predisponendo misure di protezione a livello tanto oggettivo quanto 
soggettivo
3
.  
 Inoltre, come sottolineato da Smuraglia
4
, le figure più note di 
prevenzione (quella ambientale, quella tecnologica e la protezione individuale) 
non sono che l’ultimo
5
 aspetto del fenomeno prevenzionale; infatti, secondo 
l’Autore, “la prima, e più elementare forma di prevenzione” – attuata in ogni 
azienda, attraverso l’esame analitico, nei singoli ambienti di lavoro, delle 
particolari condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa – consiste 
nell’individuazione concreta degli specifici fattori di pericolo da parte degli 
stessi soggetti interessati
6
.  
 A questa prima forma, poi, segue, in rapporto di stretta connessione, la 
seconda specie di prevenzione, cioè la raccolta e la pubblicità dei dati 
ottenuti
7
. 
 È chiaro quindi che, data la generalità e l’astrattezza che caratterizza la 
norma giuridica, “su questo piano, l’opera del legislatore non può che essere 
                                                 
3
 Cfr. CULOTTA A. – DI LECCE M. – COSTAGLIOLA G., Prevenzione e sicurezza nei 
luoghi di lavoro, V ed., Milano, 1998, 27 ss.   
4
 Cfr. SMURAGLIA C., La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale, Milano, 1974, 7. 
5
 Come precisato dall’Autore (vedi nota precedente), “Naturalmente si tratta di una 
successione puramente indicativa, poiché è naturale che le varie forme di 
prevenzione si collegano e si integrano a vicenda, collocandosi all’interno di un 
fenomeno unico, di un’unica battaglia contro lo stesso nemico”. 
6
 Cfr. SMURAGLIA C., Ibidem, 7. 
7
 Cfr. SMURAGLIA C., Ibidem, 7. 
 8
carente” e comunque non risolutiva, mentre “ben più penetrante appare il 
lavoro che si può svolgere attraverso la contrattazione collettiva, a vario 
livello, ma specialmente a livello aziendale”
8
.  
 Con questo non si vuole dire che l’intervento legislativo sia superfluo, 
ma semplicemente si vuole evidenziare la necessità che la normazione si 
affianchi, sostenendoli e potenziandoli, a quei meccanismi prevenzionistici 
dotati di maggiore effettività, in quanto calati all’interno della materia da 
regolare e, quindi, in grado di coglierne la variabilità e il continuo divenire. 
 Nel nostro Paese, la necessità di un intervento normativo in materia 
comincia a prospettarsi con la trasformazione del sistema produttivo da una 
struttura agricolo-artigianale ad una di tipo industriale. 
  In tale modello, lo svolgimento dell’attività lavorativa, concentrato in 
ambienti ristretti, avviene attraverso l’impiego di macchine e attrezzature 
complesse e la conseguente scomposizione del ciclo di lavoro in fasi distinte, 
affidate a gruppi di soggetti diversi.  
 Il singolo lavoratore subordinato, coinvolto solo in un piccolo segmento 
di tale ciclo, estraneo alla sua complessità e incapace di qualsiasi forma di 
controllo sugli elementi di pericolo che da esso derivano, non ha alcuna 
possibilità di salvaguardare la propria salute e sicurezza e rimane esposto alle 
scelte del datore di lavoro, il quale, detenendo i mezzi di produzione, accentra 
nelle sue mani il potere organizzativo dell’impresa. 
 I primi interventi legislativi in materia
9
, però, si inseriscono in una 
logica meramente risarcitoria ed assicurativa
10
 e rispondono, più che alle 
urgenze dei lavoratori, alle preoccupazioni, di parte datoriale, di porsi al riparo 
                                                 
8
 Cfr. SMURAGLIA C., Ibidem, 8. 
9
 Per una breve panoramica sulla prima normativa sulla sicurezza sul lavoro, vedi 
CULOTTA A. – DI LECCE M. – COSTAGLIOLA G., Ult. op. cit., 6 ss.  
10
 La legge 12 marzo 1898, n. 30, primo atto della storia della disciplina 
antinfortunistica italiana, introduce, infatti, l’assicurazione obbligatoria contro gli 
infortuni sul lavoro.  
 9
dalle conseguenze economiche derivanti dalla responsabilità civile per gli 
incidenti verificatesi in azienda.  
 Ci vorranno cinquant’anni – e le solenni affermazione del Costituente
11
 
– prima che la prevenzione si affermi, definitivamente, come l’unica via 
percorribile nella lotta contro gli infortuni sul lavoro e oltre sessant’anni 
affinché veda la luce il primo corpus organico di norme di carattere 
prevenzionale. 
  
2. La legislazione di derivazione codicistica e le disposizioni costituzionali. 
 
 La prima norma di carattere prevenzionale che incontriamo, 
percorrendo le tappe della disciplina in esame, è quella contenuta nell’art. 437 
del codice penale del 1930, che prevede il reato di rimozione od omissione 
dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, di cui ci occuperemo 
diffusamente in seguito
12
.  
 Il reato previsto da tale norma, rientrante tra quelli cd. di pericolo
13
 (il 
realizzarsi dell’evento è previsto dal secondo comma come aggravante), 
riconduce la condotta criminosa alla semplice messa in pericolo del bene 
oggetto di tutela, garantendo, così, una protezione anticipata rispetto all’evento 
lesivo.  
 Quindi, malgrado, molto probabilmente, il vero intento del legislatore 
del 1930 fosse quello di tutelare il bene della produzione nazionale
14
, 
l’introduzione di questa norma nell’ordinamento non può che giudicarsi 
                                                 
11
 Vedi Infra, par. 2 
12
 Vedi Infra, cap. II  
13
 Sui reati di pericolo vd. FIANDACA G., Note sui reati di pericolo, ne Il Tommaso 
Natale, 1977, 175 ss.; ANGIONI F., Il pericolo concreto come elemento della 
fattispecie penale, Milano, 1994; PARODI GIUSINO M., I reati di pericolo tra 
dogmatica e politica criminale, Milano, 1990; e, da ultimo, MARINUCCI G. – 
DOLCINI E., Corso di diritto penale, Milano, 2001.  
14
 Cfr. SMURAGLIA C., Sicurezza e igiene sul lavoro. Quadro normativo. Esperienze 
attuative e prospettive, in Riv. Giur. Lav. Prev. Soc., 2001, 4, 466. 
 10
positivamente, anche se, per la scarsità dei casi in cui ha trovato applicazione, 
il ruolo da questa svolto nella lotta contro gli infortuni sul lavoro è a dir poco 
esiguo.  
 Molto più significativa è la norma contenuta nell’art 2087 c.c.
15
, la 
quale dispone che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio 
dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro l’esperienza e la 
tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei 
prestatori di lavoro”.  
 Questa norma, che – come risulta dal testo dell’articolo – si caratterizza 
per l’ampiezza della previsione contenuta al suo interno, pone a carico 
dell’imprenditore un dovere generale di sicurezza
16
, tale da imporgli 
l’adozione di tutte le misure e tutti gli accorgimenti che, di volta in volta, “in 
relazione alle caratteristiche del sistema produttivo, dell’ambiente aziendale e 
della natura delle lavorazioni”
17
, risultino necessari, sulla base dell’esperienza 
e del livello della tecnica, per tutelare le condizioni di lavoro, al fine di 
salvaguardare i beni primari del lavoratore
18
. 
                                                 
15
 Per quanto riguarda la rilevanza penale dell’art. 2087 c.c. e il suo significato come 
norma che individua  il principale garante per la sicurezza, nonché il contenuto e i 
criteri di determinazione della garanzia dovuta, si rinvia a quanto si dirà più avanti 
nei capitoli III e IV. 
16
 Per alcune precisazioni sulla maggiore esattezza dell’espressione dovere rispetto a 
debito, obbligo, obbligazione di sicurezza, cfr. SMURAGLIA C., La sicurezza sul 
lavoro, op. cit., 26 ss.  
17
 Vedi SMURAGLIA C., Sicurezza e igiene sul lavoro, op. cit., 466.   
18
 Malgrado l’introduzione di questo articolo nel codice civile rispondesse, molto 
probabilmente, data l’epoca, ad intenti analoghi a quelli che avevano portato 
all’emanazione dell’art. 437 c.p. (vd. Supra), argomentando dallo stesso tenore 
letterale della norma e in considerazione “(dell’)elevatissimo grado di diligenza 
imposto dalla norma all’imprenditore”, VITALE C., Aspetti sistematici e profili di 
novità della sicurezza del lavoro, in Dir. Lav., 1996, I, 83-84, ritiene non 
condivisibile la tesi secondo la quale la disposizione in esame, dato il contesto 
storico e normativo della sua entrata in vigore, altro non sarebbe che “una direttiva 
introdotta dal legislatore per garantire la buona amministrazione dell’impresa in vista 
della realizzazione degli interessi dell’economia nazionale” (in questi termini, 
FRANCO M., L’obbligo di sicurezza del datore di lavoro nell’età corporativa e dopo, 
in Riv. It. Dir. Lav., 1993, I, 91 e ss.).  
 11
 Proprio con riferimento ai beni tutelati, è necessario a questo punto 
richiamare alcune norme costituzionali, alla luce delle quali l’art. 2087 c.c. ha 
acquistato appieno il suo significato prevenzionale.  
 Infatti, la tutela costituzionale del lavoro (art. 35 Cost. e, più in 
generale, artt. 1 e 4 Cost.) e della salute (art. 32 Cost.) e il riconoscimento del 
diritto di iniziativa economica come vincolato al rispetto della sicurezza, 
libertà e dignità umana (art. 41 Cost.), fanno sì che la questione della 
protezione fisica e morale del prestatore di lavoro assuma rilevanza generale, 
ponendosi, nei rapporti intersoggettivi, come limite di ordine pubblico 
all’autonomia privata, e, nei confronti dello Stato, tra gli obiettivi che la 
Repubblica e, nel suo complesso, la collettività, devono perseguire.  
 In particolare
19
, l’art. 32 Cost., affermando che “la Repubblica tutela la 
salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, 
richiede, per la sua tutela, un impegno comune, degli organi pubblici così 
come dei soggetti privati; l’art. 41 Cost., d’altra parte, intervenendo nel 
conflitto tra diritti della personalità umana ed esigenze del profitto
20
, sancisce 
                                                 
19
 Più in generale, si può richiamare anche l’art. 2 Cost., quanto al riconoscimento e 
alla garanzia, da parte della Repubblica, dei diritti inviolabili dell’uomo (quali  sono 
quelli alla vita, salute, dignità e libertà dei lavoratori), “sia come singolo sia nelle 
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (quale sicuramente si può 
considerare la comunità aziendale o di lavoro).      
20
 Il sistema capitalistico impone, infatti, di perseguire la via della massima 
produttività, anche a scapito della necessaria esigenza di tutela della persona umana. 
Ciò comporta che l’imprenditore, nell’organizzare l’impresa, eserciti il proprio 
potere sulla base di leggi di tipo razionale, orientate verso il fine dell’efficienza 
produttiva, con il conseguente indebolimento di quei valori che, rispetto a questo, si 
pongono come antagonistici. In quest’ottica, eventuali interventi dell’imprenditore a 
favore della sicurezza dei lavoratori, sarebbero comunque inaccettabili alla luce del 
quadro costituzionale, in quanto punterebbero a creare un ambiente di lavoro meno 
sfavorevole all’unico scopo di mettere il lavoratore in condizione di produrre di più e 
senza intoppi. Questo modo di agire, infatti, comporta, da una parte,  un 
impoverimento dei valori etici della persona del lavoratore subordinato, trattato alla 
stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, e dall’altra, un’esasperazione di altri e 
nuovi aspetti della nocività dell’ambiente e delle condizioni di lavoro, che finisce per 
creare nuove situazioni di pericolo (si veda, solo a titolo di esempio, il recente 
riconoscimento di nuovi rischi e di nuove malattie di tipo psicofisico, derivanti da 
situazioni di disagio dovute all’organizzazione del lavoro in azienda: mobbing, 
 12
la definitiva subordinazione del fattore economico-produttivo alle esigenze di 
salvaguardia della salute dei lavoratori
21
.  
 Con l’affermazione solenne di tali principi viene recepito formalmente 
e in tutta la sua pregnanza il concetto di prevenzione, già espresso dalla norma 
codicistica, il cui contenuto, di conseguenza viene ad assumere valore e rilievo 
costituzionale.  
 Tornando all’art. 2087 c.c., la disposizione in esso contenuta riveste 
un’importanza enorme dal punto di vista sistematico
22
, in quanto rappresenta 
                                                                                                                                          
stress, burn-out, etc.). Cfr.: SMURAGLIA C., La sicurezza del lavoro, op. cit., 8 e 9; 
VITALE C., Ibidem, 86; MENGONI L., I  poteri dell’imprenditore, in Diritto e valori, 
Bologna, 1985, 388 ss.; GUARINIELLO R., Obblighi e responsabilità delle imprese 
nella giurisprudenza penale, in Riv. Giur. Lav. Prev. Soc., 4, 2001        
21
 Cfr. NATULLO G., La “massima sicurezza tecnologica – Dall’art. 2087 c.c. alla 
sentenza della Corte cost. n. 312/1996, in Dir. Prat. Lav., 1997, 12, 815; vedi anche, 
citato dallo stesso Natullo, SMURAGLIA C., voce Salute, in Enc. Giur. Treccani, 1989, 
2, secondo il quale “le esigenze produttive non possono mai funzionare come limite 
al diritto alla salute, ma anzi ed al contrario è questo ultimo che deve potersi 
esplicare in tutta la sua compiutezza fino al sacrificio delle esigenze della 
produzione”. 
22
 A conferma di tale importanza, nella letteratura sono molte le pagine spese a suo 
riguardo. Solo a titolo di esempio: LORUSSO A., L’art. 2087 c.c. e la responsabilità 
per danni all’integrità psico-fisica del lavoratore, in Mass. Giur. Lav., 1996, 362, 
afferma che “l’art. 2087 c.c., costituisce, nel nostro ordinamento, una norma 
fondamentale, che si propone, in modo esclusivo, finalità di sicurezza” e che “il 
nostro sistema di prevenzione […] per merito degli ampi spazi di adattamento, di cui 
l’art. 2087 rappresenta la più chiara dimostrazione, è stato in grado, anche a distanza 
di tanti anni, di evitare una cristallizzazione della mutevole realtà del lavoro, che è 
stato così sempre possibile ricondurre, in ogni suo aspetto, nelle formali previsioni 
normative”; LOY G., Linee di tendenza della normativa italiana in materia di tutela 
della salute, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 14, 1994, 9 ss., la definisce “fulcro del 
sistema”, notando come essa fissi un “criterio di automatico adeguamento del 
sistema prevenzionale all’evoluzione tecnologica”; secondo GALANTINO L., Il 
contenuto dell’obbligo di sicurezza, in Galantino L. (a cura di), La sicurezza del 
lavoro – Commento ai d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 e 19 marzo 1996, n. 242, 
Milano, 1996, 2, “la formulazione della norma – particolarmente felice e del tutto 
attuale – è tale da farla considerare un vero e proprio precetto riassuntivo degli 
obblighi di facere scritti e non scritti, presenti e futuri del datore di lavoro vigenti in 
tema di sicurezza nei confronti dei singoli lavoratori e con riferimento alla loro 
specifica attività lavorativa”; infine, MONTUSCHI L., L’incerto cammino della 
sicurezza del lavoro fra esigenze di tutela, onerosità e disordine normativo, in Riv. 
Giur. Dir. Lav. Prev. Soc., 2001, 501 ss., la definisce “norma perfetta e aperta ai 
mutamenti economico-sociali” e evidenzia come la norma, che sembra essere stata 
 13
una vera e propria norma di chiusura dell’intero sistema prevenzionale, capace 
di garantire un continuo adattamento dell’ordinamento alle evoluzioni della 
scienza e della tecnica.  
 I doveri di diligenza che essa pone a carico del datore di lavoro, infatti, 
non si esauriscono in quelli tipizzati da specifiche disposizioni, ma si 
estendono all’adozione di ogni misura necessaria all’effettiva salvaguardia del 
bene tutelato. 
  Ma proprio l’eccessiva genericità del precetto, insieme all’assenza di 
sanzione penale per la sua violazione, hanno determinato il quasi completo 
fallimento del progetto prevenzionale che emerge dall’interpretazione 
“costituzionalmente orientata” dell’art. 2087 c.c. 
  Infatti, malgrado, con atteggiamento costante, la giurisprudenza abbia 
dato della norma una lettura sempre più allargata
23
, ricavandone un contenuto 
sempre maggiore del dovere di sicurezza
24
, i criteri da questa espressi (la 
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica) si sono mostrati incapaci di 
garantire quella tutela anticipata dei beni primari del lavoratore, che 
costituisce l’essenza stessa della prevenzione, ed hanno trovato applicazione 
                                                                                                                                          
scritta da un legislatore preveggente, non abbia mai perso la sua attualità, traendo 
dalla Costituzione nuova linfa e potenzialità espansive, trovando nello Statuto dei 
lavoratori occasione per il rilancio della tutela della personalità morale, fino a quel 
momento rimasta in secondo piano, e, infine, ponendosi come norma di chiusura del 
sistema prevenzionale, svolgendo anche nei confronti della più recente disciplina 
antinfortunistica una funzione di supporto e di integrazione dei contenuti.   
23
 La norma ha suscitato, e continua a suscitare, accesi dibattiti dottrinali, in relazione 
alle conseguenze che, in termini di responsabilità civile e penale del datore di lavoro, 
derivano da un’interpretazione giurisprudenziale che troppo spesso ne esaspera i 
connotati teleologici, quasi a ritenere che essa contenga un’obbligazione di risultato. 
Cfr., recentemente, Cass. 10 maggio 2000, n. 6018, in Not. Giur. Lav., 2000, 5, 583 
secondo la quale la norma imporrebbe all’imprenditore “(l’)obbligo assoluto di 
rispettare ogni cautela possibile e innominata diretta a evitare qualsiasi danno”; cfr. 
anche, precedentemente, Cass., 29 marzo 1995, n. 3740, in Riv. It. Dir. Lav., 1995, 
II, 85 ss., con nota di Franco M..  
24
 Dovere di sicurezza che secondo MONTUSCHI L., Ult. Op. Cit., 503,  ha una 
valenza onnicomprensiva, proteggendo “il lavoratore contro la nocività ambientale, 
contro gli atti e i comportamenti lesivi della dignità della persona e, più in generale, 
del diritto di cittadinanza”    
 14
esclusivamente ex post – cioè in sede di accertamento di responsabilità e di 
risarcimento del danno – come parametri di diligenza atti a valutare il 
comportamento del datore di lavoro in relazione ad un evento lesivo già 
verificatosi.  
 Paradossalmente, quindi, e in palese contraddizione con i principi 
solennemente affermati dalla Carta Costituzionale, l’azione risarcitoria, 
attivabile ex post, ha finito per costituire l’unica forma di reazione offerta dal 
diritto vivente di fronte al problema sempre più drammatico degli infortuni sul 
lavoro
25
.  
 Un primo motivo di questo fallimento deve ravvisarsi nella prospettiva 
esclusivamente individuale in cui si inserisce la norma codicistica; come già 
accennato, infatti, la dimensione più congeniale alla prevenzione, in termini di 
effettività, è quella collettivo-aziendale. 
 Inoltre, siccome la norma non è fornita di sanzione penale, per il 
lavoratore subordinato, singolarmente considerato, risulta difficile, data la 
condizione di debolezza che ne caratterizza la posizione,  far valere il diritto
26
 
ad un ambiente di lavoro sicuro, indipendentemente dal verificarsi del danno
27
. 
 Ma la ragione principale di tale insuccesso è insita in un consolidato 
atteggiamento politico-sociale, che ha portato ad un sostanziale ribaltamento 
                                                 
25
 Cfr. MONTUSCHI L., Ult. Op. Cit., 504.  
26
 Ammesso che si possa ragionare in termini di diritto soggettivo. La questione è 
interessante e presenta una molteplicità di sfumature, ma fuoriesce dall’ambito del 
presente lavoro. Ci si limita quindi a rimandare a MONTUSCHI L., Diritto alla salute e 
organizzazione del lavoro, Milano, 1986, 297.   
27
 Cfr. LOY G., Ibidem, 12, il quale fa notare come gli strumenti apprestati 
dall’ordinamento siano di scarsa utilità, come la possibilità di risolvere il contratto 
per giusta causa ex art. 2119 c.c., oppure difficilmente esperibili, come le procedure 
di esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare ex art. 1453 c.c., 1° c., art. 
2931 c.c. e artt. 612 ss. c.p.c.. Inoltre, l’Autore, richiamando TULLINI P., Clausole 
generali e rapporto di lavoro, Rimini, 1990, 361, considera che “tra gli strumenti di 
tutela, dato che l’obbligo del datore di lavoro ha carattere continuativo o periodico, 
essendo questi tenuto a realizzare le opere necessarie per la protezione della salute 
dei prestatori, non può escludersi, l’azione inibitoria che oltre ad eliminare gli effetti 
della violazione già attuata (può produrre l’effetto di) ordinare che tale lesione non 
sia ripetuta o continui in futuro”.   
 15
del bilanciamento di interessi costituzionalmente tutelati, contenuto nell’art. 
41 Cost. 
  Nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della 
Costituzione, in un contesto poco sensibile e attento ai diritti di libertà, si 
tendeva a considerare l’infortunio sul lavoro come un’inevitabile fatalità, un 
prezzo da pagare per lo sviluppo economico e l’incremento dell’occupazione.  
 Ma anche successivamente, la debolezza del movimento sindacale dei 
lavoratori, che si mostrava prevalentemente interessato ai profili indennitari, la 
scarsa cultura della prevenzione e il persistere di ideologie economico-
aziendalistiche, riluttanti a qualsiasi ingerenza nell’organizzazione 
dell’impresa (rimessa esclusivamente alla volontà dell’imprenditore), hanno 
fatto sì che la tutela della salute rappresentasse un problema del singolo 
lavoratore, la cui soluzione, quindi, si orientava inevitabilmente verso il 
risarcimento economico del diritto leso
28
. 
 La successiva decretazione degli anni Cinquanta interviene in questa 
situazione, tentando di colmare le insufficienze del sistema, senza riuscire, 
però, a porsi al di fuori di quella logica da cui le stesse insufficienze traevano 
origine.  
 
                                                 
28
 Cfr. MONTUSCHI L., Ult. Op. Cit., 504