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corpo, gli sguardi, il tono della voce, ecc., acquistano nuova enfasi altre informazioni, quali 
ad esempio il nickname. Studieremo poi i meccanismi che consentono la gestione del 
proprio self e della propria faccia (ad esempio, mediante la costruzione di una home page 
personale). Ma ci spingeremo oltre, ponendo l’attenzione sul diffondersi di pratiche che 
possiamo definire di sperimentazione sociale, riferendoci in particolare a quella classe di 
fenomeni etichettabili come l’“apparire diversi da ciò che si è”; nella quale entrano di diritto 
la pratica del cambiare sesso online (definito “gender swapping”) e le rappresentazioni in 
“mala fede” (parleremo dei “fake” e dei “troll”). Goffman, a tal proposito, parla di 
modificazioni della propria facciata. Un discorso a parte meritano le identità multiple. 
Ritorneremo, infine, sul ruolo controverso del corpo nella Rete. 
Nel secondo capitolo la prospettiva cambierà. Inizieremo a parlare di interazione, anche 
se unicamente al livello dei contatti (Goffman definisce un contatto come “una qualsiasi 
occasione nella quale un individuo entra in presenza della risposta di un altro”). 
Studieremo il modo in cui le persone “dialogano” online (soprattutto tramite le email e nelle 
chat), e vedremo anche come i contatti siano possibili mediante le home page. Studieremo, 
infine, come questi nuovi tipi di interazione abbiano delle ripercussioni sia a livello sociale 
(richiedendo delle regole, codificate nella “netiquette”) che a livello linguistico (lo stile di 
scrittura si adegua alle caratteristiche della Rete, anche grazie all’introduzione di espedienti 
quali la scrittura veloce, gli acronimi e gli smiley). 
Nel terzo capitolo analizzeremo l’unità definita incontri. Vedremo come le persone si 
ritrovano in gruppo nelle mailing list, nei forum di discussione, nelle chat e nei MUD. Non 
si parlerà solo di incontri casuali, ma anche di vere e proprie comunità virtuali (come 
descritto da Rheingold). Porremo l’attenzione non solo sulle relazioni sociali codificate, ma 
anche sui comportamenti anomali (come vedremo nel caso dello “spoof”, dello “spam”, del 
“lurk” e del “lag”) e addirittura sugli insulti (pratica comune nel ciberspazio, come 
esemplificato dal fenomeno del “flaming”). 
Nel quarto capitolo affronteremo l’unità goffmaniana che più si confà alla metafora 
drammaturgica: le performance da palco. Come già accennato, nel libro “La vita 
quotidiana come rappresentazione” Goffman utilizza la prospettiva della rappresentazione 
teatrale come schema di riferimento utile nell’analisi di ogni sistema sociale. Il teatro 
diviene quindi una metafora dell’interazione. Vedremo come le performance si possano 
realizzare anche solo mediante l’utilizzo della scrittura, ponendo particolare attenzione alle 
 11
performance umoristiche. Ma, al di là della valenza metaforica della drammaturgia, 
vedremo come nel ciberspazio è possibile allestire dei veri e propri spettacoli teatrali, dove 
alcuni utenti recitano dei copioni e altri recitano la parte del pubblico (particolarmente utile 
risulterà l’esempio degli “Hamnet Player”, una compagnia teatrale che da anni allestisce 
delle rappresentazioni online dissacranti delle opere di Shakespeare). All’interno del 
capitolo svilupperemo un parallelo alquanto curioso, quello tra la microsociologia di 
Goffman e la filosofia politica di Hannah Arendt, in un paragrafo che avrà come filo 
conduttore la domanda: “La Rete è lo spazio per l’azione politica?”. 
L’ultimo capitolo, il quinto, si occuperà dell’unità sociale più ampia: le occasioni 
celebrative. Partendo dall’analisi dell’opera goffmaniana, nel tentativo di scovarne i legami 
con la tradizione durkheimiana, vedremo come il ciberspazio si rivela un terreno fertile per 
lo sviluppo delle celebrazioni e di veri e propri rituali collettivi (anche di quelli religiosi, 
come vedremo analizzando le chiese elettroniche). Rifacendoci poi dalla definizione dei riti 
di passaggio proposta da Van Gennep, vedremo come questi si presentano online: parleremo 
della morte (ed in particolare dei siti commemorativi) e del matrimonio. Relativamente a 
quest’ultimo, l’analisi del “cyberwedding” di Andrew e Lisa risulterà particolarmente 
approfondita, visto che l’evento (trascritto integralmente in appendice) verrà sezionato ed 
analizzato mediante due dei più importanti strumenti messi a disposizione da Goffman: 
l’analisi dei “frame” e quella del “turn-talking”. 
 13
INTRODUZIONE 
 
1. La microsociologia di Goffman 
 
Negli ultimi anni si è assistito ad un costante aumento dell’interesse nei confronti della 
microsociologia. L’analisi degli aspetti di routine dell’interazione faccia a faccia, di 
brandelli di conversazioni, di specifiche definizioni della situazione, di classificazione di 
senso comune, si sta affermando come un terreno di fertile ricerca da parte dei sociologi. 
Eppure l’etichetta “microsociologia” comprende oggetti e prospettive di analisi disparate e 
distanti tra loro. 
Un primo approccio alla microsociologia si situa all’interno di un’ampia critica alla 
modernità. Gli studiosi di questa corrente sostengono che il processo di modernizzazione e 
di razionalizzazione ha prodotto una profonda frattura tra il mondo dell’esperienza 
quotidiana e la struttura sociale globale. Il sistema sociale è diventato sempre più 
differenziato e complesso e il suo funzionamento risulta ormai opaco e scarsamente 
intelligibile per i singoli attori. In questa prospettiva, il rapporto tra dimensione “micro” e 
dimensione “macro” si rivela simile alla celebre opposizione tra “Gemeinschaft” e 
“Gesellschaft”. Da una parte - quella “micro” -  le relazioni sociali familiari, dirette e 
diffuse; dall’altra - quella “macro” - quelle tipizzate, burocratizzate e anonime. Da una parte 
il mondo del quotidiano (ove la comunicazione è piena e trasparente), nel quale esisterebbe 
una completa comprensione reciproca del senso dell’azione e gli individui agirebbero in 
modo libero e spontaneo; dall’altra il mondo alienato delle grandi organizzazioni, delle 
megastrutture, della razionalità strumentale o sistemica. 
Un’altra via alla microsociologia si fonda sulla contrapposizione tra attore e sistema (e 
non, come la precedente, tra le relazioni sociali comunitarie e quelle societarie). Questo 
approccio informa due dei più noti orientamenti microsociologici contemporanei, la teoria 
dello scambio e l’interazionismo simbolico. Nonostante le fondamentali differenze tra i due 
approcci (il primo postula un attore che segue i canoni della razionalità strumentale, il 
secondo si basa sulla componente interpretativa e cognitiva dell’individuo), ambedue sono 
accomunabili dall’opposizione al determinismo degli approcci strutturali ed enfatizzano 
l’autonomia dei soggetti, la loro intenzionalità e libertà di scelta e quindi la contingenza 
dell’agire. Inoltre entrambi sono caratterizzati da una forte tendenza nominalistica che li 
 14
conduce a considerare qualsiasi entità sovraindividuale come una indebita reificazione. 
Infine ambedue considerano l’ordine sociale come un effetto della composizione delle 
azioni dei singoli individui. Nell’ambito di questa prospettiva lo studio dell’interazione 
faccia a faccia è quantomeno controverso. Da un lato è considerato l’unica realtà sociale 
empiricamente esistente; dall’altro, invece, l’interazione non viene studiata come qualcosa 
di rilevante per sé, ma per ciò che può rivelare circa i principi individualistici che guidano 
l’azione (dall’esterno).  
Erving Goffman si discosta nettamente da questa prospettiva di contrapposizione tra 
attore e sistema, dimostrando come non tutte le direzioni di ricerca della microsociologia si 
ispirino ai postulati della teoria dell’azione. Goffman nacque in Canada nel 1922; studiò 
all’Università di Toronto e di Chicago, condusse ricerche empiriche a Shetland Isle e in esse 
indirizzò i suoi interessi verso i problemi dell’interazione. Insegnò presso la sede di 
Berckley dell’Università della California e successivamente si trasferì all’Università della 
Pennsylvania. Morì nel 1983. 
Le principali tradizioni teoriche che hanno influenzato l’opera di Goffman sono due: la 
scuola di Chicago e la tradizione durkheimiana.  
La scuola di Chicago. E’ l’università dove ha ricevuto il suo addestramento 
professionale tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta. In quel periodo, 
il dipartimento di sociologia di Chicago costituiva una sorta di contraltare ai due centri 
universitari della East Coast, Harvard e Columbia, dove si andava elaborando la sociologia 
funzionalistica. Per un verso vi si manteneva ancora viva la tradizione dei suoi padri 
fondatori, i sociologi urbani degli anni venti Park, Burgess e Wirth; per un altro, la 
psicologia sociale di Mead veniva elaborata empiricamente da un gruppo di sociologi ed 
etnografi del lavoro, riuniti attorno a Hughes. Questi filoni di ricerca sono ben presenti 
nell’opera di Goffman. Sebbene egli non si sia mai occupato di sociologia urbana, è sempre 
conscio della dimensione ecologica del comportamento sociale. Da Hughes, invece, 
Goffman ha mutuato non tanto la sua ispirazione meadiana quanto la sua strategia di ricerca, 
che consisteva nello scegliere un tema comune all’uomo, al lavoro, e nell’esaminare i 
meccanismi sociali costruiti attorno ad esso nelle più varie professioni ed occupazioni, 
indipendentemente dal prestigio di cui godevano o dalla caratteristiche morali che venivano 
loro attribuite. Ne consegue un maliziosa confusione tra alto e basso della scala sociale, una 
ironica negazione delle gerarchie e delle classificazioni socialmente legittimate e una critica 
 15
sociale. In Goffman questo approccio diviene un metodo generalizzato di guardare alla 
realtà sociale. Isolando un modello o un termine dal contesto in cui è abitualmente 
impiegato e applicandolo ad un altro, esso rende problematiche le nostre categorie culturali 
e fa apparire l’oggetto esaminato in una luce nuova e inattesa. 
La tradizione durkheimiana. Se l’influenza della scuola di Chicago aiuta a capire lo 
stile del lavoro sociologico di Goffman, ciò non vale altrettanto per la sua sostanza. Essa è 
scarsamente indebitata all’interazionismo simbolico e si ricollega ad una corrente teorica 
diversa, la tradizione durkheimiana, mediata dall’antropologia sociale britannica. 
L’intuizione fondamentale di Goffman è consistita nell’elaborare a livello microsociologico 
due affermazioni di Durkheim: la prima è che la divinità è il prodotto dei rituali collettivi; la 
seconda è che, nella società moderna, l’oggetto della vita religiosa è rappresentato dal “culto 
dell’individuo”, dal riconoscimento del suo specifico self. Tutta l’opera goffmaniana 
rappresenta un tentativo di individuare i rituali che nella società contemporanea affermano 
la sacralità dell’individuo, di indagare la natura cerimoniale dell’identità, di esaminare i 
meccanismi mediante i quali questo equilibrio rituale viene ristabilito quando è stato 
turbato. Goffman non si riferisce più ai grandi rituali pubblici, ai quali pensava Durkheim, 
ma prende in considerazione quei piccoli riti apparentemente banali che costellano 
l’interazione faccia a faccia nella vita quotidiana, quei gesti che talvolta vengono considerati 
insignificanti, ma che di fatto risultano i più significativi. Goffman affronta questo tema nei 
suoi due primi saggi importanti, “Face-Work” del 1955 e “The Nature of Deference and 
Deanor” del 1956. La sua prospettiva di analisi differisce nettamente da quella 
dell’interazionismo simbolico. Goffman non afferma semplicemente, come fanno gli 
interazionisti, che l’identità è fortemente influenzata dai rapporti sociali con gli “altri 
significativi”. Sostiene qualcosa di molto più radicale: il self è creato mediante il rituale, 
virtualmente dal niente. I rituali dell’interazione non delineano un’arena in cui identità pre-
esistenti giostrano tra loro cercando di definire se stesse e la situazione, ma sono piuttosto 
gli strumenti con cui queste identità sono costruite localmente. In breve, l’identità non è 
qualcosa di stabile e duraturo nel tempo, ma un effetto strutturale prodotto e riprodotto 
discontinuamente nei vari balletti rituali della vita quotidiana. La logica conseguenza di 
questa posizione teorica è la sua marcata componente antipsicologica. Se in Durkheim 
prima viene la società e poi l’individuo, se il self non è inerente alla persona ma emerge da 
una situazione sociale, è inutile cercarlo all’interno della persona stessa. Ne “La vita 
 16
quotidiana come rappresentazione”, l’attore è visto come entità psico-biologica che agisce 
dietro il personaggio. Ma negli ultimi due lavori di Goffman, “Frame Analysis” e “Forms of 
Talk”, il rapporto tra soggetto e senso proprio a tutte le sociologie di impianto 
individualistico è radicalmente capovolto: non sono gli stati interni dell’individuo che 
determinano il senso della sua azione, ma sono piuttosto i frame metacomunicativi che 
circondano le attività che permettono di inferire un senso della soggettività degli individui 
che vi sono coinvolti. 
Nella società contemporanea, afferma Goffman, il self è il codice indispensabile per 
conferire significato a tutte le attività sociali e per fornire una base per organizzarle. Ma, in 
realtà, siamo obbligati ad esibire un self non perché davvero l’abbiamo, ma perché la società 
ci obbliga a comportarci come se l’avessimo. E ce ne offre anche la possibilità. Il contrasto 
tra ribalta e retroscena, ruolo e distanza dal ruolo, frame e contenuto del frame dà infatti 
l’impressione che dietro a tutte le immagini di se stesso che l’individuo presenta vi sia 
un’identità ultima e definitiva che organizza e gestisce tutte le altre. Ma si tratta di 
un’impressione illusoria. Dietro questa immagine multistratificata dell’individuo non vi è 
niente. Questo non significa che l’individuo non abbia una sua identità biografica stabile nel 
tempo e rinforzata dai processi di identificazione e standardizzazione dello stato moderno e 
delle altre organizzazioni complesse; significa però che l’individuo può essere considerato 
un complesso di cose abbastanza diverse, tenute insieme in parte a causa delle nostre 
credenze culturali relative all’identità. Goffman, inoltre, si chiede: se il self è il prodotto dei 
rituali dell’interazione, in che modo viene preparato il materiale liturgico che verrà 
impiegato nella cerimonia e quali sono le tecniche collaborative degli attori necessarie 
perché queste scene rituali filino spedite e senza intoppo? Da buon analista del teatro, 
Goffman sa che non tutto nelle rappresentazioni è finzione, e che proprio per generare 
allusioni convincenti sono necessari supporti reali (come un palcoscenico). Da questo punto 
di vista drammaturgico, l’analisi degli scopi degli attori diviene eticamente neutra: come 
attori, siamo tutti “trafficanti di moralità”. Il suo modello drammaturgico non contiene un 
modello psicologico della coscienza dell’attore, non afferma che questo è il modo in cui il 
soggetto interpreta il mondo. Esso è un quadro di riferimento euristico che acquista 
maggiore potere illustrativo proprio quando esiste una differenza tra la prospettiva 
dell’analista e quella dell’attore, che permette al primo di distaccarsi dall’atteggiamento 
“naturale” del secondo e gli consente di tematizzarlo. Quindi è certamente incongruente con 
 17
l’approccio goffmaniano attribuire costantemente agli individui un atteggiamento 
calcolatore e circospetto nei riguardi del self che presentano e di coloro a cui viene 
presentato: questi sono attributi tecnico-funzionali di una rappresentazione efficace, non 
caratteristiche psicologiche degli attori. Come tutti i teorici dell’ordine, Goffman ne 
“L’interazione strategica” percepisce acutamente l’esistenza di elementi conflittuali nella 
vita sociale e prevede la possibilità che l’interazione divenga una sequenza di mosse 
strategiche. Eppure anche in questo saggio la prospettiva non è utilitaristica ma si rifà 
ancora a quella durkheimiana. 
Dopo aver visto tutte queste assonanze tra l’apparato concettuale goffmaniano e quello 
durkheimiano, occorre rilevarne le differenze. In Durkheim vi è sempre una forte attenzione 
dedicata al complesso di valori che regge l’intera società, al fluire di questi valori dal centro 
istituzionale agli individui, all’importanza dei processi di socializzazione primaria e 
secondaria. In Goffman questa enfasi è attenuata: il peso morale della cultura è ridotto ad un 
“prurito” che genera solo un vago senso di fastidio, poca importanza è attribuita all’analisi 
dei valori e della loro interiorizzazione; gli attori sembrano adeguarsi ad una moralità 
esterna più per necessità funzionali che per intima convinzione, il sacro è precariamente 
risuscitato solo negli interstizi della vita istituzionale ufficiale. Giglioli1 afferma: “Si tratta 
durkheimismo rattrappito sul quotidiano, ridotto ai minimi termini, un durkheimismo più 
metodologico che sostanziale”. 
 
2. La vita quotidiana come rappresentazione 
 
Nel 1956 Goffman dà alle stampe il libro “The presentation of self in Everyday Life”, 
tradotto in italiano con il titolo “La vita quotidiana come rappresentazione”. In tale opera, 
l’autore sostiene il punto di vista della drammaturgia, secondo cui la vita sociale può essere 
intesa nei termini della rappresentazione teatrale. L’idea non è certo nuova, già 
Shakespeare2 aveva fatto dire ad un suo personaggio: “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli 
uomini e le donne non sono che attori. Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa 
persona nella vita rappresenta diverse parti”. E’ quindi necessario cercare di comprendere 
in che cosa consiste l’originalità di Goffman. Egli procede ad un’attenta, meticolosa analisi 
                                                 
1
 Giglioli P. P., introduzione all’edizione italiana di Goffman E., La vita quotidiana come rappresentazione, 1969. 
Bologna: Il Mulino, pag. XXI. 
2
 Shakespeare W. , Teatro , 1956. Firenze: Sansoni, pag. 699. 
 18
dei rapporti diretti e mette in luce come il nostro agire insieme con gli altri non sia solo 
strumentale, diretto al raggiungimento di determinati fini, ma sia anche condizionato da 
come si vuole apparire agli altri. Goffman muove dal presupposto che quando un individuo 
è in presenza di altri abbia molte ragioni per cercare di controllare le impressioni che essi 
ricevono dalla situazione. Egli, inoltre, sostiene che il suo studio riguarda alcune tra le 
tecniche più comunemente adoperate al fine di mantenere tali impressioni e alcune 
evenienze che si verificano di frequente nell’impiego di queste tecniche.  
Goffman fornisce la definizione di rappresentazione, intesa come quell’attività di un 
individuo che si svolge durante un periodo caratterizzato da una sua continua presenza 
dinanzi a un particolare gruppo di osservatori e tale da avere una certa influenza su di essi. Il 
fatto che  alcune rappresentazioni siano “in buona fede” e altre “in mala fede”, a seconda 
della fiducia che chi agisce ripone nell’impressione della realtà che egli tenta di sollecitare 
in quanti gli sono intorno, non mette affatto in dubbio la necessità delle rappresentazioni in 
entrambi i casi. Un professionista, per svolgere la sua attività, ha bisogno di una messa in 
scena di comportamenti esteriori per influenzare gli altri, indipendentemente dalla sua 
“buona fede”. La facciata, o faccia, è invece definita come l’equipaggiamento espressivo di 
tipo standardizzato che l’individuo impiega intenzionalmente o involontariamente durante la 
propria rappresentazione. Poiché la faccia è comunque necessaria (sia nel caso di “buona” 
che di “mala fede”), Goffman arriva a sostenere che una rappresentazione onesta, sincera e 
seria è meno strettamente connessa con il mondo della realtà di quanto non si potrebbe 
credere a prima vista. 
Come abbiamo visto, l’azione è generalmente studiata dalla sociologia in rapporto ai fini, 
cioè strumentalmente. Goffman non mette in dubbio la legittimità di questo punto di vista, 
ma tende ad integrarlo con la concezione secondo cui l’azione può essere studiata anche dal 
punto di vista delle impressioni che chi agisce vuole suscitare negli altri. Al punto che 
l’attività orientata verso compiti strumentali tende a essere convertita in attività orientata 
verso la comunicazione. Anche l’azione strumentale, in quanto interazione, deve adattarsi ai 
criteri della comunicazione intesa secondo i principi della drammaturgia. 
Goffman sostiene che nella vita quotidiana dinanzi al singolo non vi sono solo altri 
singoli, ma vi è piuttosto una serie di raggruppamenti che possono anch’essi essere 
utilmente spiegati attraverso la metafora teatrale. Così, in un albergo, coloro che vi lavorano 
assumono atteggiamenti del tutto diversi a seconda che si trovino tra colleghi in cucina (il 
 19
retroscena), o in presenza del pubblico dei clienti (la ribalta). L’istituzione comporta 
un’équipe di persone che condividono certi spazi fisici, hanno regole di condotta proprie e 
una propria definizione della situazione che tendono a presentare al pubblico degli estranei. 
Vi è netta distinzione tra questi ultimi e coloro che fanno parte dell’istituzione. 
 
3. La vita nel ciberspazio come vita quotidiana 
 
La vita nel ciberspazio può essere vista come vita quotidiana in termini goffmaniani. Le 
attività che si svolgono in Internet e nelle reti telematiche sono ormai divenute parte delle 
attività quotidiane di milioni di “navigatori” sparsi per tutto il mondo. In tutte queste attività 
possiamo ritrovare i concetti chiave descritti nelle opere di Goffman: 
Compresenza – Interazione faccia a faccia. Quotidianamente ci impegniamo in rituali 
che ci consentono di entrare in relazione con gli altri ed in rituali che ci consentono di 
congedarci dagli altri. Così come avviene nel ciberspazio, quando contattiamo un altro 
utente della Rete via email, accediamo alla sua home page, o ci congediamo da una 
discussione che sta avvenendo in un canale dell’IRC. 
Coinvolgimento – Interazione focalizzata. Un’importante implicazione degli studi 
goffmaniani riguarda il fatto che esiste una grande differenza tra un gruppo di persone 
contemporaneamente compresenti in un luogo fisico (come una stazione ferroviaria o il 
vagone di una metropolitana, spazi definiti da Augé 3 “non luoghi”) ed un gruppo di persone 
impegnate nell’interazione con altre (ad esempio al tavolo di un pub). Parte di quello che 
facciamo quando interagiamo con gli altri è prestare il nostro tempo e la nostra attenzione 
agli altri. Anche nel ciberspazio vi possono essere occasioni in cui ci troviamo alla 
compresenza di altri utenti senza che avvenga un’effettiva interazione significativa, come 
nel caso in cui più utenti si connettono allo stesso sito Web senza che avvenga alcun 
contatto fra loro. Spesso, invece, ci si ritrova in ambienti virtuali con lo scopo preciso di 
entrare in contatto con altre persone (i contatti online sono esaminati nel secondo capitolo, 
mentre gli incontri con più persone o con altri membri di una “comunità virtuale”, nel senso 
dato da Rheingold, sono descritti nel terzo capitolo). 
Presentazione del sé. Un’idea chiave del lavoro di Goffman è che il nostro self non è 
dato, ma si realizza interpretando un ruolo, come nelle performance teatrali. La grande 
                                                 
3
 Augé M., I nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, 1993. Milano: Elèutera. 
 20
differenza tra il teatro e la vita di tutti i giorni risiede nel fatto che interpretiamo un parte 
alla presenza di persone che fanno lo stesso nei nostri confronti. Quando ci colleghiamo alla 
Rete interpretiamo una parte, tanto che possiamo creare il nostro self completamente da 
zero. Goffman parla di controllo delle impressioni, che avviene soprattutto con la 
mediazione del proprio corpo (attraverso i “nonverbal cues”). Ovviamente il corpo non è 
presente online, dove una persona si presenta e si gestisce principalmente mediante il testo 
scritto. Possiamo agire allo stesso tempo sulla ribalta (quello che mostriamo agli altri) e nel 
retroscena (dietro all’interazione). La ribalta, in termini di ciberspazio, è in un certo senso lo 
schermo del computer (tanto che Turkle parla di “vita sullo schermo”), il ciberspazio. Il 
retroscena, invece, è rappresentato dal mondo reale che sta “al di qua” dello schermo.  
Ruoli. Per quel che concerne i ruoli, possiamo vedere che online si svolgono delle 
occasioni celebrative in senso goffmaniano che presuppongono l’assunzione di diversi ruoli 
da parte degli utenti. Nel matrimonio virtuale (analizzato nel capitolo quinto) i ruoli sono 
quelli di prete, sposo, invitato, ecc. 
Faccia. Questo rappresenta il termine goffmaniano che indica il desiderio di ciascuno di 
presentare il proprio self in termini positivi. Nel ciberspazio possiamo presentarci con una 
buona faccia realizzando una bella home page, o creando una auto-descrizione testuale 
accettabile in una chat. C’è sempre il pericolo, online come offline, di “perdere la faccia”: 
ogni interazione sociale implica una minaccia per la propria faccia, poiché gli interagenti 
possono ignorare un intervento o la presenza di un utente.  
Frame. Rappresenta la definizione della situazione da parte dei partecipanti coinvolti in 
un’interazione; il frame permette di rispondere alla domanda “cosa sta succedendo qui?”, 
ovvero di dare senso alla propria esperienza. Interpretare il frame aiuta a mantenerlo. Ad 
esempio nella realizzazione di un party sull’IRC sono coinvolti ben cinque frame: la vita 
reale, il gioco dell’IRC, il party, il frame della finzione ed il frame della performance.  
 
4. L’utilizzo dei concetti goffmaniani nello studio del ciberspazio (questioni etiche) 
 
Utilizzando gli studi ed i concetti di Goffman nell’analisi della vita quotidiana, occorre 
interrogarsi sulla loro applicabilità agli studi delle interazioni online. Goffman si occupa 
delle relazioni sociali, dell’ordine sociale e della vita pubblica; tutti concetti, come visto, 
utilissimi per guardare alla natura ed alle forme dell’interazione online. Eppure occorre 
 21
porsi delle domande: è possibile guardare al media Internet come ad un terreno di ricerca in 
tal senso? Possiamo considerare le interazioni online nei newsgroup, nelle mailing list e 
nelle chat room come luoghi pubblici oppure costituiscono, come alcuni studiosi affermano, 
delle forme di conversazione privata “incastrate” nello spazio pubblico? E’ possibile, come 
ricercatori o osservatori, intromettersi in conversazioni “private” che avvengono in tali 
ambienti? Quali sono la natura e la forma dell’“intrusione” online? Ed infine, qual è lo 
status del testo in un mondo dove il self è costruito unicamente testualmente? Queste 
domande hanno delle chiare implicazioni e, sostiene Cavanagh4, richiedono la creazione di 
un codice etico, utile per gli studi sociologici nell’era dell’informazione. 
Anzitutto occorre analizzare alcune considerazioni contestuali e teoriche che riguardano 
l’applicabilità dell’uso delle strutture analitiche goffmaniane all’interazione online. La 
caratteristica fondamentale del comportamento online è che questo si sviluppa unicamente 
mediante il testo e lo scambio di testo. Così la faccia, la scena e i veicoli per i segni 
convenzionali del self possono unicamente essere quelli forniti digitando sulla tastiera del 
proprio computer. Questo è un limite importante per la comunicazione corporea e 
intercorporea della produzione del self descritta da Goffman, afferma Crossley5. Per 
Goffman, comunque, il linguaggio è performativo. E la validità di tale affermazione è ancor 
più evidente negli ambienti online, dove la parola è tutto quello che si ha per esprimere se 
stessi, per presentarsi di fronte agli altri, per creare il proprio self. In “Relazioni in 
pubblico”, ad esempio, al linguaggio non è dato lo status privilegiato di strumento per la 
costruzione della realtà. Piuttosto è strettamente correlato con gli atti corporei come forma 
di rituale comunicativo o sociale. Eppure la concezione specifica del linguaggio come forma 
di atto rituale è precisamente quello che fa della prospettiva goffmaniana uno strumento 
utile per studiare la comunicazione online.  
Siamo abituati, spesso erroneamente, a guardare al linguaggio scritto come al prodotto di 
un autore singolo ed autonomo. Lo scrivere è privilegiato nella cultura occidentale come 
espressione di – piuttosto che come costruzione di – un self singolo. Così tendiamo a vedere 
il testo come autonomo, prodotto in isolamento e, a livello conscio, disunito dalla 
                                                 
4
 Cavanagh A., Behaviour in Public? Ethics in Online Ethnography, 1999. In Cybersociology (issue 6). Reperibile 
all’indirizzo Internet http://www.socio.demon.co.uk/magazine/6/cavanagh.html  
5
 Crossley N., Body techniques, agency and intercorporeality: On Goffman’s Relations in Public, 1995. In Sociology 
Vol. 29, 1 del febbraio 1995. Pagg. 133-149 
 22
coordinazione dell’interazione. Come afferma Giddens6, la creazione e l’interpretazione 
testuale avviene senza alcuni elementi della mutua conoscenza coinvolta nella compresenza 
in un ambiente, e senza il monitoraggio coordinato degli individui compresenti. In questa 
prospettiva i testi sono collocati all’interno del regno definito dall’autonomia e dalla 
distanza dalle meccaniche della produzione del sé tramite la compresenza. E’ tale 
concezione che l’interazione testuale negli ambienti elettronici sfidano. 
Negli ambienti online, in considerazione della natura propria del ciberspazio, il self 
risulta sistematicamente problematico. Molti studiosi sostengono che il “cyber-self” è una 
creazione flessibile di un individuo autonomo. Il sé è visto come un articolo del genio 
individuale, la creazione esclusiva del suo controllore, una creatura indipendente e non 
influenzata dal mondo sociale. Invece, come visto, in termini goffmaniani il self può essere 
visto come una costruzione riflessiva del mondo sociale. Il sé online, non meno del suo 
equivalente reale, può essere concepito come prodotto di un rituale, costruito attraverso le 
pratiche e le relazioni che caratterizzano la “fabbrica” intersoggettiva del mondo sociale 
online. Il self, sottolinea Goffman, non è un’entità nascosta negli eventi, ma una formula 
variabile per gestirsi negli eventi. Rappresenta un codice che dà senso alle attività 
dell’individuo e gli fornisce le basi per organizzarle. Se questo avviene nella vita 
quotidiana, è così anche negli ambienti virtuali. Chiaramente le risorse utilizzabili per la 
costruzione e la presentazione del self, nella vita quotidiana e in quella virtuale, sono 
qualitativamente diverse. 
Ne “Le relazioni in pubblico”, Goffman delinea otto aree o territori del self, che le 
persone tentano di controllare durante l’interazione con gli altri. Questi territori vanno dal 
corpo stesso e dal suo abbigliamento, ai propri beni, alle proprie conoscenze, al set di fatti 
riguardanti sé, ai dettagli biografici e così via; elementi che le persone rivelano o celano 
durante le interazioni. E’ attraverso il controllo di questi territori, la collocazione degli 
individui nello spazio nei territori in relazione al self, che definiamo le nostre relazioni con 
gli altri, il mondo sociale costituito dai nessi di tali relazioni, e quindi noi stessi. Quello che 
emerge dal trasferimento della interazione sociale negli ambienti virtuali è una particolare 
tensione tra l’intensificazione del controllo sui territori del self e la sua dissoluzione. 
Da un lato possiamo tentare di presentare il self nei termini che desideriamo, e la mancanza 
dell’evidenza visibile e delle informazioni biografiche e situazionali aumenta le chance di 
                                                 
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 Giddens A., Social Theory and Modern Sociology, 1990. Cambridge: Polity, pag. 100. 
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successo in tal senso, diminuendo la possibilità di essere “scoperti” e contraddetti. Eppure, il 
guadagno di ognuno corrisponde alla perdita di un altro. Turkle, ad esempio, ha affrontato il 
tema del profondo senso di disagio provato nell’essere confrontata con un avatar che 
portava il suo nome, nell’accorgersi che un aspetto del suo self era stato deificato, rimosso 
da lei stessa. 
Molti elementi dell’analisi goffmaniana, come visto, costituiscono un potente strumento 
di analisi delle interazioni online. Ovvero la nozione di sé come una costruzione 
intersoggettiva dell’interazione sociale; gli spazi pubblici e privati come il prodotto 
dell’interazione; il rituale come realtà sociale; e l’interazione come rituale sono tutti concetti 
che aderiscono perfettamente alla nuova realtà delle reti telematiche. La questione da 
affrontare è ora quella delle implicazioni di questi studi per l’etica della ricerca sociale 
online. Il punto di partenza deve essere la considerazione dello status dell’interazione 
online, sia pubblica che privata. A seconda che le forme comunicative su Internet siano 
considerate come pubbliche o private, se ne ricavano conseguenze notevoli su come 
dobbiamo trattare i dati sociologici che scorrono di fronte ai nostri occhi quando ci 
colleghiamo alla Rete.  
Il punto di partenza è la nozione problematica del testo. Se noi guardiamo ai testi online, 
presenti nei siti Web, diffusi sulle mailing list o come scambio in una chat room, è evidente 
il fatto che le uniche nostre responsabilità come ricercatori giacciono nelle questioni dei 
diritti di proprietà intellettuale di tali opere. Ma se questi testi sono visti come interazione, 
allora la situazione è differente: guardando alla produzione di testo online come ad una 
forma di presentazione e produzione del self che occorre quando vi è la compresenza, 
possiamo considerare il testo a prescindere dalla soggettività dell’autore, considerandolo 
come un rituale interattivo. In tal modo prendiamo in considerazione non tanto l’espressione 
delle personalità individuali, quanto i mezzi strategici e le forme di interazione utilizzati 
all’interno del media Internet. I dati sono quindi il prodotto non dell’azione individuale ma 
di un rituale sociale. Nella stessa maniera in cui Goffman osserva il comportamento di un 
passante: la sua curiosità può essere considerata separata dalla volontà di osservare 
l’individuo ledendone l’intimità o la privacy. In tal senso, come Homan7 ha rilevato, i dati 
prendono la forma di una intuizione che non è peculiare di uno specifico individuo; in tal 
modo, afferma, non vi è la necessità di ottenere il consenso dei partecipanti. 
                                                 
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 Homan R., The Ethics of Social Research, 1991. Longman, Essex 
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Se guardiamo al rituale dell’interazione in questo senso, ne consegue che possiamo 
paragonare la nostra ricerca online alla posizione del ricercatore che va in un luogo pubblico 
e osserva il comportamento degli astanti? La sociologia ha da tempo accettato il fatto che i 
comportamenti in pubblico costituiscono un oggetto legittimo di indagine. Perciò è 
consentito osservare il comportamento della gente durante gli incontri pubblici in una realtà 
urbana, nelle chiese e il comportamento dei passanti nelle strade e nei negozi, senza la 
necessità di ottenere il consenso degli osservati. Le ragioni di questo possono in parte 
risiedere nella difficoltà di ottenerne il consenso di tutti i partecipanti compresenti. 
Come Homan ha affermato, il fatto che uno spazio sia pubblico oppure privato è 
comunque una questione relativa alla percezione di coloro che lo occupano; questo risulta 
particolarmente vero nelle comunità online, dove non ci sono conoscenze culturali pre-
esistenti sulla natura del media che guidino ad una definizione della situazione. A tal 
proposito due aree possono risultare rivelatrici in tal senso: quella della descrizione da parte 
degli utenti degli ambienti in cui si trovano e l’analisi del comportamento dei “lurker”.  
I modi in cui gli ambienti elettronici vengono descritti (prevalentemente mediante righe 
di testo) costituiscono degli apparati concettuali, un mezzo per definire gli spazi che si 
occupano quando si è online. Come Correll8 ha dimostrato nel suo studio etnografico del 
“cyber café” riservato alle donne omosessuali, la creazione e il mantenimento degli spazi 
fisici è uno dei rituali chiave nell’organizzazione dell’interazione. In uno spazio dove 
l’ambiente  può essere evocato unicamente tramite il testo scritto, i clienti del “cyber café” 
utilizzano le descrizione degli artefatti fisici per organizzare gli spazi dell’interazione, per 
definire le relazioni con gli altri e per creare e mantenere l’ordine sociale. Le descrizioni del 
luogo servono per creare riflessivamente delle arene come spazi pubblici. La diffusione dei 
riferimenti ai municipi, ai villaggi, ai bar forniscono ampia testimonianza della definizione 
dei forum elettronici come luoghi pubblici. Questi, quindi, sono spazi comuni. 
Conseguentemente l’interazione che vi occorre è anch’essa pubblica, rientrando così nel 
campo di studio della sociologia osservativa, diretta a comprendere il comportamento degli 
interagenti negli spazi pubblici, siano essi online oppure offline. 
Questa idea è ulteriormente supportata dalle azioni dei partecipanti della comunità, con 
particolare riguardo ai “lurker”, coloro che non contribuiscono alla conversazione e si 
                                                 
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 Correll S., The Ethnography of an Electronic Bar: The Lesbian Cafe, 1995. Pag. 270-298 in The Journal of 
Contemporary Ethnography, Vol. 24, 3.