5 
 
Introduzione                                                         
_______________________________________                                                           
 
 
 
Entrare nel territorio della decrescita significa ascoltare la voce di 
chi pare giocare una partita fuori casa e ha l’impressione che gli arbitri 
siano corrotti. Il contemporaneo, dominato dal produttivismo, propone 
attrattive decisamente ammalianti, che una proposta politica e culturale 
alternativa sembra semplicemente impossibile. Figuriamoci se questa 
proposta poi andasse a suggerire una rinuncia volontaria allo stile di vita 
attuale a favore di una frugalità ricercata (e non imposta dallo spettro della 
crisi). Eppure non viviamo tempi particolarmente rosei. La parola “crisi” 
risuona come un mantra nei discorsi delle persone e il futuro spaventa. 
Spaventa soprattutto i miei coetanei, sempre più laureati ma con sempre 
meno prospettive. Viviamo un momento contraddittorio. Crisi economica, 
crisi finanziaria, crisi energetica, crisi idrica, forse anche crisi culturale, 
eppure la crescita è comunque l’imperativo. Imperativo così forte da 
essere quasi controproducente. Sul Corriere della Sera del 5 Luglio 2010 
è uscito un articolo sulla decisione di un assessore del Comune di Milano 
di abbattere 12000 alberi “pericolosi” perché causa dell’aumento del 
numero di allergie da polline. Nell’articolo stesso si specifica che il polline 
mescolato allo smog crea un “cocktail velenosissimo” per cui la decisione 
di abbattere cipressi, aceri, platani, betulle e altri alberi “allergenici”. La 
scelta pare azzardata anche ad occhio inesperto. 
La teoria della decrescita è una delle possibili risposte all’assurdo in 
cui oggi siamo immersi: da una parte crisi ecologica, crisi finanziaria e la
6 
 
sensazione di un imminente tracollo, dall’altra dipendenza dal consumo, 
imperativi per la crescita e convinzione che l’economia di mercato sia, del 
resto, l’unica soluzione possibile. Entrare nell’universo delle soluzioni 
“altre” apre gli occhi sia sulla diversa percezione delle problematiche 
relative alla crisi generale che sulla volontà e sulla necessità di spingere 
per un cambiamento che non sia solo teorico ma trovi soluzioni pratiche. E 
non si tratta di un mondo popolato da “irosi figli di Seattle” quanto di 
persone decise a prendere in mano la situazione indagando se è possibile 
applicare oggi concetti quali reciprocità e solidarietà. E’ un universo 
capillare che si muove sapientemente tra i fili della tecnologia per 
recuperare competenze e conoscenze e condividerle per tentare di 
riprendersi un po’ di autonomia. Il percorso non è semplice (non bisogna 
dimenticarsi infatti che per quanto i protagonisti coinvolti siano tanti e in 
crescita si tratta comunque di un movimento di e per pochi) e la teoria a 
volte incespica, però resta l’evidenza che una crisi ambientale, finanziaria 
ed economica esiste e non sono in pochi a considerarla frutto del nostro 
sistema produttivo.  
Il percorso che ho tentato di tracciare parte guardando alle 
contraddizioni del nostro sistema economico. Il capitalismo è stato una 
conquista del sistema economico moderno e ha consentito la diffusione 
del benessere così come oggi lo conosciamo. La sua degenerazione in 
fenomeni quali consumismo, obsolescenza programmata, sfruttamento 
irrazionale delle risorse ha portato però a conseguenze tutt’altro che 
positive: inasprimento delle disuguaglianze, guerra per le risorse, perdita 
di sovranità del consumatore. Queste conseguenze minacciano di 
diventare croniche e non suggeriscono la soluzione a un futuro 
sostenibile. Una soluzione alternativa invece è proposta dalla teoria della 
decrescita. In particolare, per voce di quello che è il suo fondatore ideale, 
Goergescu Roegen, la teoria individua come causa della crisi 
internazionale la convinzione di poter inseguire una crescita infinita in un 
mondo finito. La decrescita, secondo l’autore, sarà inevitabile nel 
momento in cui le risorse non ci saranno più e i consumi verranno
7 
 
naturalmente inibiti. I teorici contemporanei riconoscono l’inevitabilità di 
una decrescita ma suggeriscono di attivarla in modo sereno finanziando 
circoli virtuosi che facciano sì che la decrescita non sia traumatica ma 
felice. Per questo sostengono una voluta diminuzione del Prodotto Interno 
Lordo, per eliminare tutte le produzioni inutili se non nocive, che 
contribuiscono a gonfiare il paniere dell’economia ma non aumentano il 
reale benessere dei cittadini. Le strategie per raggiungere la decrescita 
partono dal presupposto antropologico per il quale è necessario 
abbandonare l’immaginario a cui la società della crescita ci ha abituati a 
favore di una revisione delle priorità. Le applicazione della teoria della 
decrescita sono varie ma grande impatto sociale hanno le associazioni su 
base volontaria di cittadini che decidono di creare legami di 
interdipendenza per condividere competenze e conoscenze in modo da 
creare uno strumento che metta in pratica i principi teorici. L’aumento dei 
legami di reciprocità e solidarietà tra membri di un gruppo, che condivide 
gli stessi principi, favorisce la formazione di capitale sociale, che non è la 
panacea di tutti i mali, ma crea un solido collante tra i nodi della rete 
solidale. Grazie ai contributi della teoria delle reti è facile scorgere 
l’importanza delle interdipendenze all’interno delle reti di produttori, di 
consumatori, di cittadini. Nel terzo capitolo ho approfondito il discorso 
sull’esperienza dei distretti dell’economia solidale, considerano 
l’esperienza dell’economia altra come emblematica rispetto alla capacità e 
alla volontà di scegliere di agire in modo alternativo rispetto agli 
insegnamenti dell’economia tradizionale. I distretti si presentano infatti 
come laboratori in via di sperimentazione che, su base volontaria, 
coordinano il lavoro di tutti i personaggi che animano l’economia solidale: 
dalle botteghe del mondo alla finanza etica. Non sono però l’unico 
esperimento vicino ai presupposti della decrescita. Nel quarto capitolo ne 
ho individuati altri, senza pretesa di completezza visto il variegato 
panorama, ma evitando di proposito le esperienze virtuose ma estreme 
per dimostrare anche che esistono esempi facilmente praticabili che non 
condannano necessariamente a una vita da eremiti. Il fatto che esistano
8 
 
tante e diverse sperimentazioni dimostra come le diverse realtà sappiano 
rispondere alle problematiche che investono tutti in modo originale e 
innovativo.  
La seconda parte del lavoro si propone di tentare la descrizione di 
quella che è la realtà effettiva dell’economia solidale e in particolare dei 
Gruppi d’Acquisto Solidali. La metodologia per indagare quest’universo 
economico di difficile stima, perché di fatto non ufficiale, è l’analisi di un 
questionario riguardante le motivazioni legate all’associarsi in Gas. In 
particolare l’universo di indagine, oltre che una prima panoramica 
anagrafica per  descrivere il campione, si è soffermato prima sulle scelte di 
consumo degli intervistati e poi sulle motivazioni alla scelta di acquisto 
solidale. Ho confrontato poi i questionari con il documento base dei Gas 
per valutare l’impressione degli attori rispetto alla mission del progetto. I 
partecipanti hanno dimostrato un’alta partecipazione alla vita civica oltre il 
Gas, confermando l’idea che la sensibilizzazione attorno al tema del 
consumo si sviluppi collateralmente a una critica generale del sistema 
economico globale e una preoccupazione per tematiche ecologiche.  
Il Gas rappresenta una valida esperienza di autorganizzazione 
votata a necessità pratiche, importante per il suo valore economico ma 
anche come necessità sociale di aggregazione, in un’epoca decisamente 
votata alla cultura individualistica.  
Mi propongo di sospendere, quanto possibile, il giudizio personale 
onde evitare manipolazioni, anche involontarie, dei dati raccolti, nelle quali 
è facile cadere visto il tema particolarmente attuale. Tuttavia colgo 
l’occasione dello spazio introduttivo per definire anche quelli che sono stati 
i punti più controversi, che, a mio parere, restano tutt’ora questioni aperte 
e, se la teoria avrà fortuna probabilmente entreranno a forza nel dibattito 
pubblico, quando già non sono state affrontate. Di teoria della decrescita 
ultimamente si sente parlare, o meglio, si legge di più. A parlarne sono 
personaggi pubblici e a volte, con certa sorpresa, perfino piccoli
9 
 
imprenditori
1
, quelli che per inciso dovrebbero puntare alla crescita. 
Sebbene restino sempre una nicchia rispetto alla maggioranza di persone 
che non ne conoscono i dettagli, si tratta spesso di paladini dal sapore un 
po’ sessantottino, solitamente benestanti e tesserati al club della 
decrescita. Raramente sono economisti. 
Il secondo punto sul quale ho evidenziato alcune falle è la 
contraddizione del movimento di voler essere una teoria che coinvolge 
tutti ma che resta al contempo chiusa entro i suoi rigidi confini. Questo è 
evidente soprattutto nelle applicazioni pratiche. C’è il rischio, in sostanza, 
che la teoria venga fraintesa per moda e così includa un pubblico 
selezionato sbarrando la strada ad altri. Qui entra in campo la mia 
esperienza personale: chi può permettersi di dedicare tempo al 
volontariato se lavora 40 ore alla settimana? Chi può permettersi la spesa 
bio? Certo ovviamente esiste anche chi coniuga alto impegno lavorativo a 
forte motivazione civica ma certo non sono la maggioranza dei lavoratori. I 
teorici della decrescita parlano spesso di downshifting ma, almeno stando 
alla mia esperienza lavorativa, ottenere un part-time non è una cosa che 
dipende esattamente dalla volontà individuale e, soprattutto, l’opportunità 
di decidere quanto e come lavorare ce l’ha solo chi occupa posizioni 
dirigenziali e può permettersi flessioni salariali senza soffrirne troppo. Con 
ciò non voglio accusare alcuno di ricorso all’idealismo ma solo riflettere su 
quanto i buoni propositi promulgati nella teoria siano davvero attuabili 
nella realtà. 
Un ultimo spunto di riflessione riguarda la costituzione dei Gas, 
argomento approfondito nell’ultimo capitolo del lavoro. I gruppi nascono 
per offrire un’alternativa economicamente sostenibile alle scelte d’acquisto 
tradizionali, per offrire ai cittadini una strumento col quale sviluppare 
consapevolezza e relazioni forti in grado di contrastare il sistema 
economico capitalista basato sull’individualismo e lo sfruttamento. I Gas, 
quali medium economici, vogliono attivare circuiti commerciali innovativi 
                                                           
1
 Il riferimento va a un intervento di Marco Cassini della Minimum Fax: “Impegnarsi  insieme, e 
reciprocamente, in una campagna di “decrescita felice”: produrre meno per produrre meglio”
10 
 
basati su rapporti di fiducia reciproci tra produttori e consumatori che, in 
questo modo, entrano in contatto diretto. Ovviamente per avere un reale 
impatto sul sistema economico i gruppi devono figurare come alternativa 
accessibile a tutti. Dal punto di vista economico l’obiettivo è raggiunto, 
dato che i prezzi scavalcando gli intermediari si abbassano, ma dal punto 
di vista sociale si può dire lo stesso? Ciò che mi chiedo è quanto il 
movimento sarà capace di scendere a compromessi nel momento in cui si 
vedrà allargato. Si trasformerà in un fenomeno legato allo status dei suoi 
componenti o saprà mantenere i suoi caratteri  più “puri”? Molti Gas 
pretendono una partecipazione attiva dei suoi membri pena l’esclusione 
del gruppo stesso. Ciò è condivisibile perché è solo con la partecipazione 
attiva che si instaurano legami reticolari produttivi. Ma come si misura la 
partecipazione? Non basta acquistare collettivamente per metterla in atto? 
Non sarebbe meglio barattare un po’ di motivazione con un po’ di 
coinvolgimento (se lo scopo dei gruppi è davvero influenzare il sistema 
economico coi “grandi numeri”)? Questi quesiti probabilmente troveranno 
risposta solo osservando l’evoluzione del movimento stesso che ha 
certamente tutti le caratteristiche per imporsi nella scena economica. 
  
Prima di iniziare con la trattazione aggiungo una premessa: sono 
nata nel 1985, dunque non posso provare il romanticismo nostalgico per il 
passato ormai fuggito. Non ho ricordi legati a una vita campestre fatta di 
mucche al pascolo e mondine al lavoro quanto di walkman e prime play 
station. In questo momento uso una connessione wireless, un pc. Non 
credo sia la tecnologia ad aver condannato l’umanità alle pene della 
società dei consumi quanto la deliberata scelta di come usare questi 
oggetti. Non credo saranno le lampadine a risparmio energetico a salvare 
il pianeta quanto forse la scelta consapevole di non accendere 
l’interruttore della luce e magari aprire una finestra.
12 
 
 
 
 
 
 
 
Max Temkin “Plastic spoon” 2011
13 
 
Capitolo 1                                                       
Educazione alla decrescita                                   
_______________________________________ 
 
“Capitalismo: stupefacente credenza 
secondo la quale i peggiori uomini 
farebbero le peggiori  cose per il gran 
bene di tutti” 
 John Maynard Keynes 
 
La prospettiva economica relativa alla crescita della società di 
mercato ha sviluppato il suo punto di vista in tempi relativamente recenti. 
E’ con l’affermarsi degli Stati-nazione e la conseguente ascesa della 
società borghese, infatti, che si sviluppa l’idea che il surplus economico, 
ricavato dalla fiorente attività produttiva, potesse essere riutilizzato nelle 
attività più varie. La crescita della produzione manifatturiera coincise con il 
progressivo abbandono della terra e la conseguente qualificazione 
nazionale sulla base non più della quantità di territorio posseduto ma sulla 
capacità di creare ricchezza. Le origini della scienza economica possono 
infatti essere fatte risalire proprio a questa fase transitoria: da economie 
statiche si passa a economie dinamiche. La storia si caratterizza sin dagli 
albori per sviluppo ineguale dei territori ma è solo in epoca moderna che la 
polarizzazione si fa cronica e assimilabile a un unico modello dettato dal 
modo di produzione. Se lo sviluppo mercantilistico antecedente la 
Rivoluzione Industriale (1500-1800) getta le basi per la delimitazione di 
zone periferiche (le Americhe a cui si aggiungeranno Africa e Asia ad 
esclusione del Giappone), è con il modello classico industriale che si 
definiscono i caratteri del capitalismo che decreterà la polarizzazione del 
mondo quale sottoprodotto del nuovo sistema produttivo. Con la fine della 
Seconda Guerra Mondiale si apre una nuova fase che vede  
industrializzazione delle aree periferiche e smantellamento dei sistemi
14 
 
produttivi nazionali autocentrici per costruire un sistema di produzione 
integrato globale. Dagli anni Novanta in poi l’insieme delle trasformazioni 
hanno decretato il crollo dei delicati equilibri postbellici.   
Il capitalismo è un’opzione contabile finanziariamente vantaggiosa 
ma non sostenibile. Il sistema si basa su una serie di presupposti: che il 
progresso si costruisce in sistemi di produzione e distribuzione in 
condizione di libero mercato, dove il reinvestimento dei profitti genera 
maggior lavoro e maggior capitale; la concorrenza è il metro di valutazione 
e premia chi è in grado di produrre più merce da reinvestire su mercati in 
espansione; la crescita del Prodotto Interno Lordo (da ora Pil) è la scala 
per determinare le condizioni di benessere della popolazione; la questione 
ambientale è subordinata dalla crescita economica considerata prioritaria, 
libera impresa e libero mercato collocano persone e risorse nel miglior 
modo possibile. Con l’industrializzazione questa serie di principi si sono 
cristallizzati come egemonici. La macchina- alimentata nell’ordine ad 
acqua, legno, carbone, petrolio, elettricità- sostituì il lavoro dell’uomo e 
aumentò la resa consentendo una sovrapproduzione di merci utili. A ciò 
seguì un miglioramento degli standard di vita, dei salari e della domanda 
di altri prodotti. Le migliorie tecnologiche consentirono ulteriore 
diminuzione di prezzo che si tradusse in aumento di richiesta di case, 
educazione, trasporti: le basi della moderna economia. Il modello 
industriale non è che la sequenza lineare del processo estrattivo seguito 
da quello produttivo e distributivo e si pone come obiettivo la creazione di 
valore. Il problema dei rifiuti è contemplato nella misura in cui questi 
vengano trasferiti da “altre parti”.  
“Il capitalismo è un sistema economico in cui i datori di lavoro, 
utilizzando capitali di proprietà privata, impiegano lavoro salariato per 
produrre beni economici allo scopo di ricavarne un utile.”
2
 I cambiamenti 
tecnologici costanti fecero aumentare a livelli impensabili la produttività: 
tecniche produttive, comunicazione, trasporti, medicina, agricoltura, 
                                                           
2
 S. Bowles, R. Edwards, F. Roosvelt (2005) Introduzione all’economia politica. Le dinamiche del 
capitalismo. Oxford University Press (pag. 2)
15 
 
biologia e chimica alcuni degli ambiti che si svilupparono con velocità e 
forza penetrante tale da non conoscere precedenti storici. Ciò significò 
principalmente miglioramento della vita materiale e aumento degli 
standard di consumo, ma anche cambiamento delle condizioni lavorative 
(si pensi ai rischi connessi alla disoccupazione e all’impossibilità di 
provvedere al proprio sostentamento), cambiamenti nella struttura 
familiare (il passaggio dalla Gemeischaft alla Gesellschaft
3
) e non ultimo 
distruzione ambientale. Non solo aumento produttivo e demografico 
dunque ma anche deterioramento del territorio: aria, acqua, suolo, clima 
hanno subito alterazioni coma mai prima. Dunque il progresso ha 
permesso di raggiungere livelli altissimi in tutti i campi, dalla conoscenza al 
tenore di vita, ma ha portato con sé effetti collaterali imputabili 
inequivocabilmente alla sfrenata corsa per la crescita. Il capitalismo ha 
fatto quello che nessun governante è mai riuscito a fare: trasformare il 
mondo in un sistema unico e onnicomprensivo. Parlare di conseguenze 
del capitalismo apre la porta a un dibattito che dal XIX continua fino ad 
oggi. Se da una parte dunque il nuovo sistema industriale ha prodotto 
“crescita” economica in termini di benessere, consumo e libertà individuali 
dall’altra lo si accusa di “costare” troppo in termini umani e ambientali, di 
aver dato il via a nuove forme di imperialismo e di significare profitto solo 
quale contropartita allo sfruttamento.  
L’apertura del mercato alla globalità ha aperto dunque nuovi spazi 
agli scambi mercantili e alla conoscenza ma, al contempo, ha dato 
centralità al fenomeno del consumo. Così dalla nascita dei mercati 
ottocenteschi si è presto passati ai grandi magazzini della produzione di 
massa. Con il supporto della teoria taylorista, perfezionata negli 
stabilimenti Ford grazie all’uso della catena di montaggio, il fenomeno ha 
preso velocità per arrivare oggi alla società dell’iperconsumo. Una delle 
conseguenze incontrovertibili dunque dello “spirito del capitalismo” che ha 
                                                           
3
 La teoria che spiega la modernità per Tönnies è vista come il passaggio da una fase comunitaria 
(la Gemeinschaft) e una societaria (Gesellschaft) dove i rapporti sociali sono governati da 
contrattualismo e convenzione e trovano espressione appunto nei rapporti di scambio 
capitalistici.
16 
 
contagiato il globo è la tendenza a quello che Marx chiamava “feticismo 
della merce”
4
. Il punto di partenza privilegiato nell’analisi del consumo è 
l’utilitarismo, la corrente di pensiero che ha dominato gli studi economici 
ottocenteschi. Secondo questo filone infatti “i bisogni umani sono il fattore 
determinante nella produzione e nella distribuzione di beni e servizi, ma al 
tempo stesso nella società sono ‘non strutturati’ cioè  variano in modo 
casuale e debbono quindi essere considerati come dati nell’analisi 
economica”
5
. Col principio di utilità marginale decrescente, Marshall 
(1842-1924), diede struttura all’analisi dei bisogni, sostenendo che l’utilità 
di un bisogno diminuisce all’aumentare della quantità. Con questa 
specificazione Mashall introdusse la determinazione sociale alla domanda 
accanto a quella puramente psicologica legata al soddisfacimento dei 
bisogni. Ma è con l’espansione economica degli anni Sessanta che il 
fenomeno del consumo conosce forse il suo apice in Occidente, spinto 
anche dalla promulgazione di leggi motivate da politiche di welfare. La 
spinta al consumo qui non è solo auspicata ma fortemente indotta, quale 
motore capace di mantenere stabile la domanda di beni e dunque la 
prosperità. Fenomeni conseguenti quali la pubblicità, il pagamento a rate, 
le cambiali convinsero anche i meno benestanti a concedersi l’acquisto di 
beni, non più per una spinta dettata dal bisogno ma per stare al passo coi 
tempi. Il fenomeno persiste sino ad oggi ed è detto consumismo.  
Il consumismo è la manifestazione cronica dell’acquisto continuo di 
beni e servizi che prescinde totalmente dall’effettiva necessità che si ha di 
essi, dalla loro durata e dalla capacità del sistema di smaltirli. Il 
consumatore è dunque colui che sceglie un prodotto non sulla base del 
                                                           
4
 “Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta 
non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa 
che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra 
cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare 
un’analogia, dobbiamo involarci nella ragione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del 
cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di 
loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano 
umana. 
Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti 
come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci”. (Il Capitale, I libro, I 
sezione, cap. I). 
5
 Talcott Parsons (1962), La struttura dell’azione sociale, Bologna, Il Mulino
17 
 
costo, della qualità o del bisogno ma semplicemente perché è indotto a 
farlo, perché non può farne a meno. Se a livello individuale il consumismo 
osanna il lusso, la ricchezza come scopo di vita, il possesso fine a sé 
stesso, a livello di sistema l’unico imperativo è la crescita. E il paradigma 
economicista definisce la crescita quale benessere derivato da denaro e 
tecnologia. Il metro per misurare la crescita dal 1929 ad oggi è il Pil. 
In economia dunque la crescita di un Paese corrisponde 
all’aumento del suo Pil, cioè l’insieme dei beni e servizi prodotti nell’arco di 
un anno e valutati sulla base dei prezzi di mercato (stime corrette sulla 
base delle variabili non censibili in quanto non oggetto di scambio). Le 
variazioni del Pil indicano, almeno secondo il linguaggio economico, lo 
stato di salute di un Paese: l’aumento del Pil è un segnale positivo rispetto 
alla crescita in termini di ricchezza del Paese stesso.  
Il Pil può però ritenersi un indicatore attendibile? Per valutare se la 
ricchezza di un Paese sia limitata alle sue entrate in termini monetari è 
opportuno definire cosa di intende con crescita e con sviluppo, spesso 
confusi come sinonimi. I termini sono infatti fortemente connessi: lo 
sviluppo introduce la crescita e non c’è crescita senza sviluppo. La 
crescita è aumento produttivo di beni e servizi disponibili atti a soddisfare i 
bisogni di una popolazione e dunque è aumento del consumo. La 
misurazione della crescita economica più semplice da calcolare è il Pil 
appunto. Lo sviluppo invece è la scoperta di nuove innovazioni che 
prescindono però dall’accumulazione capitalistica cui spesso il concetto è 
collegato. Le innovazioni anzi, se lontane dalla logica dell’obsolescenza 
programmata
6
, portano anche a risultati che possono ridurre gli impatti 
ambientali. Dunque il concetto di sviluppo è più ampio di quello di crescita 
tanto da poterci permettere certamente di affermare che ci può essere 
sviluppo senza crescita. Solo che conviene poco. 
“Il diritto allo sviluppo è un diritto inalienabile dell’uomo in virtù del 
quale ogni essere umano e tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e di 
contribuire ad uno sviluppo economico, sociale, culturale, politico nel 
                                                           
6
 Cfr pagina 21 (Latouche)
18 
 
quale tutti i diritti dell’uomo e tutte le libertà fondamentali possano essere 
pienamente realizzati, e di beneficiare di questo sviluppo”. Declaration on 
the Right to Development, General Assembly Resolution 41/128, 4 
December 1986.  
Portavoce ufficiale della sviluppo a crescita ridotta è la teoria della 
decrescita (o come i più rigorosi precisano dell’a-crescita). Questo 
vocabolo viene introdotto nello scenario accademico nel 1979 per voce e 
mano di Nicolas Goergescu-Roegen che pubblica un saggio intitolato 
“Demain la décroissance: entropie, écologie, économie”. Il concetto si 
pone coma base della critica alla teoria economica classica e alla sua 
relazione con l’ambiente, tanto da descrivere la decrescita come 
conseguenza inevitabile dei limiti imposti dalla natura. Oggi i suoi 
sostenitori non si riferiscono più al concetto come inevitabile ma come 
auspicabile tanto da parlare di scommessa o di appello. Nella parole di 
Latouche la decrescita oggi è “uno slogan che raccoglie gruppi e individui 
che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo e interessati ad 
individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica di dopo 
sviluppo”
7
 
Lungi dal presentarsi come progetto dall’impianto teorico compatto, 
la teoria della decrescita non riesce ad affermarsi quale ricetta politica 
“chiavi in mano”, anzi nelle sue proposizioni spesso pone problematiche 
così vaste e complesse da allontanare soltanto le ricette semplificate e 
semplificanti. La constatazione però dell’urgenza e della drammaticità 
della questione ambientale, ma anche politica e sociale se non culturale, 
hanno risvegliato il senso comune sulla necessità di accelerare il 
cambiamento. Ecco perché questo progetto da semplice critica 
all’economia neoliberista ha tentato il salto politico: perché la decrescita 
propone una visione d’insieme delle varie “crisi” sostenendo un approccio 
sistemico che riesca a decifrare l’operare di processi fondamentali e 
ricondurli ad azioni reali. Quello che si sostiene è la scarsa correlazione 
tra benessere reale e indicatori economici, primo fra tutti il Pil. Il limite del 
                                                           
7
 S. Latouche (2009), “La scommessa della decrescita”, Feltrinelli, Milano
19 
 
Pil è considerare il benessere alla stregua del numero di merci in 
circolazione: non contempla gli ortaggi dell’orto sotto casa ma contempla il 
carburante perso durante le code in autostrada, oppure ancora un malato 
fa crescere il Pil molto più di quanto faccia una persona sana. I suoi 
risultati non sono dunque attendibili o almeno non possono definire quello 
che è il reale sviluppo di un territorio. Quello che auspica la decrescita è 
convertire la produzione di merci in produzione di beni ed eliminare la 
produzione de merci che non sono beni. Non si tratta di rinunciare ad 
acquistare tutto ma di smettere di abusare del mercato e passare a 
soluzioni alternative che ne fuggono il ricorso: dall’autoproduzione allo 
scambio libero dal mercato.  
 
  
1.1 Le 8 R della decrescita: “Kill PIL”
8
 
“Non è possibile convincere il capitalismo a limitare la crescita 
esattamente come non è possibile persuadere un essere umano a 
smettere di respirare.” Murray Bookchin. 
Nell’ottica della teoria della decrescita, al capitalismo non si chiede 
né un ritorno indietro né un compromesso: quello che si critica è la 
concezione di economia formale intesa come ricerca di mezzi scarsi per il 
soddisfacimento di fini, a favore di una definizione sostanziale ovvero 
dell’economia quale attività che fornisce i mezzi per il soddisfacimento di 
bisogni (definizione ripresa da Polanyi).
9
  
Il primo teorico a formulare un’embrionale definizione di decrescita 
è Goergescu-Roegen, un’economista autore di numerosi studi 
multidisciplinari che rientrano nella sua teoria bioeconomica. La riflessione 
di Goergescu-Roegen parte dalla considerazione che il sistema 
economico è in perenne relazione con sistema biofisico dal quale preleva 
materia ed energia sottoforma di risorse naturali e le restituisce sottoforma 
                                                           
8
  Titolo di una sezione tematica apparsa su http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil.html 
9
 Dumont, Valensi, Godelier, Stanfield, Rotstein, North, Caillè, Latouche, Berthoud (2003) Karl 
Polanyi, Bruno Mondadori Editore, Milano