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l’imitazione o emulazione, la conversione o spiegazione e la riespressione. La 
parola inglese translation deriva dal participio passato latino di transfero, 
translatum. Nel 1530 Martin Lutero, dopo aver subito una serie di accuse in 
relazione alla troppa libertà con la quale tradusse la Bibbia in tedesco, 
pubblicò l’Epistola sull’arte del tradurre e sull’intercessione dei santi, nella 
quale difese le sue scelte, affermando che le stesse erano state mosse dalla 
necessità della comprensione del testo da parte del popolo tedesco. Nei due 
secoli successivi si affermarono le traduzioni cosiddette belle infideles 
soprattutto in Francia, dove erano interpretate come abbellimento dei testi 
originali, ammodernati per piacere di più ai lettori. A metà Settecento 
Breitinger riconobbe l’importanza della traduzione per la vitalizzazione e il 
rinnovamento linguistico, mentre Herder dinamizzò ulteriormente il termine 
traduzione (Apel 1997: 101, 122). Seguendo l’idea di Breitinger, la traduzione 
cominciò ad essere considerata come uno strumento per l’innovazione 
linguistica, mentre l’elemento estraneo non venne più interpretato come una 
bruttura del testo, ma come fattore di arricchimento culturale. I romantici 
tedeschi come Schleiermacher furono i primi a porsi il problema della 
mediazione tra cultura emittente (del prototesto) e la cultura ricevente (del 
metatesto). Humboldt, ad esempio, sosteneva che non era giusto appianare 
tutte le asperità del testo, ma che al lettore doveva essere lasciata la possibilità 
di interpretare i lati più oscuri di un’opera. In epoca moderna Pirandello ha 
paragonato la traduzione all’attività dell’illustratore e dell’attore abbracciando 
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nell’ambito della traduzione anche la lettura. Jackobson (On linguistic Aspects 
of Translation, 1959) ha invece affermato che la traduzione presenta due 
accezioni: 1) trasposizione di un testo nella stessa lingua, o parafrasi 2) 
trasposizione di un testo in un codice extralinguistico.  
 
1.2 Traduzione ed equivalenza 
 
“Una traduzione è un testo che presuppone l’esistenza di un altro testo, al 
quale essa sia riconducibile, con il quale essa mostri un legame, un rapporto 
evidente” (Bertozzi, 1999: 11) o ancora  “un testo è una traduzione se esiste 
un rapporto di equivalenza con quello originale e questo rapporto di 
equivalenza scaturisce dal fatto che il testo finale, ovvero la traduzione, 
soddisfa determinate esigenze di invarianza rispetto all’originale. Tali 
richieste di invarianza, che il traduttore avrà individuato rispetto ai valori di 
un certo testo, possono essere ogni volta diverse, perché sempre diversa è la 
rilevanza con cui certe componenti testuali contribuiscono alla formazione del 
testo stesso e sempre diverso è anche il grado di obbligatorietà con cui certi 
valori dell’originale chiedono di essere salvati” (ivi, p. 96).Queste due 
definizioni di traduzione contengono alcuni termini cruciali, concetti base 
della teoria della traduzione, concetti analizzati e interpretati sistematicamente 
e  per lo più in modo diverso, nel corso della storia della traduttologia. La 
prima definizione pone l’attenzione sull’esistenza di due testi l’originale o 
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testo fonte che Reiss definisce “un parametro di riferimento immutabile” 
(Reiss, 1988a:73) e la traduzione. Si parla poi dell’esistenza di un legame, un 
rapporto che unisce i due testi e che sembra essere alla base dello stesso 
processo traduttivo, anzi sembra essere la stessa fonte da cui scaturisce  il 
rapporto di traduzione. Tale rapporto viene definito da Koller, (1992:16) ma 
anche da altri studiosi, equivalenza. Il concetto di equivalenza nasce 
nell’ambito della traduzione automatica negli anni 50 ma trova ampio spazio 
nella teoria della traduzione soprattutto per quel che concerne la 
Übersetzungswissenschaft facente capo al gruppo di ricerca  dell’Università di 
Saarbrücken. Wills nel testo Übersetzungswissenschaft. Probleme und 
Methoden (1977), espone quello che può essere considerato il cuore della 
ricerca traduttologica tedesca. La teoria di Wills è caratterizzata da tre settori 
di ricerca:  
1) la descrizione di una scienza generale della traduzione che include la 
teoria della traduzione; 
2) gli studi descrittivi sulla traduzione che riportano fenomeni empirici di 
equivalenza traduttiva; 
3) la ricerca applicata nella traduzione che pone l’accento sulle difficoltà 
di traduzione e sulle metodologie per risolvere problemi specifici. 
(Gentzler, 1993: 70). 
Per quanto riguarda il primo settore, la scienza generale, risulta fortemente 
invischiata nella linguistica testuale che prevede la suddivisione dei testi in 
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categorie a seconda del tema e delle funzioni. I traduttori devono possedere, 
secondo Wills, una competenza nell’analisi del testo, mentre le tipologie 
testuali vengono inoltre classificate in tipologie più adatte e tipologie meno 
adatte alla traduzione. Il secondo settore, quello cioè degli studi descrittivi, è 
incentrato sull’equivalenza testuale-pragmatica: Wills prevede sia una 
traduzione intralinguistica, cioè la parafrasi del significato dell’originale, sia 
una traduzione interlinguistica ovvero il trasferimento del significato da una 
lingua all’altra. Il terzo settore, quello della ricerca applicata, affronta alcune 
difficoltà traduttive risolte con la convinzione che il fine giustifichi il mezzo. 
La traduzione secondo Wills è resa possibile dall’esistenza, a livello di 
struttura profonda, di universali, sicchè il processo traduttivo si baserà sulla 
ricerca di equivalenti di tali universali nella lingua d’arrivo. Tutto ciò in 
opposizione alla tesi assunta, ad esempio, da Humboldt, secondo il quale la 
traduzione non è possibile. Humboldt si basa sulla convinzione che le lingue 
in quanto dissimili non rendano possibile il processo traduttivo. Originale la 
posizione di Ortega y Gasset che  dapprima esordisce con una visione cupa 
del mondo, un mondo dove l’uomo ha solo l’illusione di poter giungere alla 
conoscenza e dove le lingue sono un naturale ostacolo al raggiungimento 
della stessa. Conclude però con una convinzione straordinariamente 
ottimistica, affermando che la traduzione sia possibile dove è possibile 
applicare lo straniamento operando però una serie di forzature linguistiche 
nella fase di trasposizione dal testo di partenza a quello d’arrivo. Tornando al 
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discorso sull’equivalenza, questo concetto apre una problematica abbastanza 
ampia sull’individuazione e sull’esistenza di unità di traduzione la cui 
individuazione, a livello di parola o di testo o di qualsiasi altro elemento 
linguistico, è essenziale per stabilire su quale di questi livelli sopraelencati 
l’equivalenza possa essere applicata. Neubert, ad esempio, è autore del 
cosiddetto modello top-down, in Translatorische Relativität infatti individua 
l’unità di traduzione nell’intero testo “dal quale si procede a ritroso fino ad 
arrivare alla proposizione globale, che viene poi suddivisa in unità semantiche 
uniche più piccole trasferibili” (Neubert 1986:101). Neubert introduce anche 
il concetto di relatività traduttiva all’interno del processo di ricostruzione, 
affermando che la relatività scaturisce dalle molteplici possibilità di 
ricostruzione del testo e una volta che il traduttore ha scelto una certa 
struttura,  tutto il resto del testo segue un modello delineato. Diversamente da 
Neubert, Newmark definisce l’unità di traduzione come l’unità della LP che 
può essere ricreata nella LA senza l’aggiunta di altri elementi di significato;  
l’unità di traduzione ideale viene identificata con la parola.  
 
1.3 Equivalenza, identità, invarianza e Gleichwertigkeit 
 
Definire l’equivalenza come identità di significato ha portato ad un dibattito 
acceso riguardo il fatto che una simile affermazione porterebbe a considerare 
la traduzione come la trasposizione esatta del significato dal testo di partenza 
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a quello di arrivo, presupporrebbe cioè che i due testi siano identici. Questo 
risulta palesemente impossibile in quanto diversi sono gli elementi che 
rendono i due testi diversi: la lingua, la situazione, l’autore che li ha prodotti, 
per fare solo qualche esempio, è quindi necessario per il traduttore fissare una 
serie di invarianti cioè di elementi da preservare. Il traduttore dovrà cioè 
mantenere e lasciare invariata la funzione comunicativa, il tipo di 
comunicazione (Bertozzi, 1999:55). Risulta inadeguata anche la teoria 
secondo la quale equivalenza ed invarianza siano tra loro sinonimi, addirittura 
questa convinzione ha portato spesso a negare la validità dei concetti di 
equivalenza e di invarianza. Secondo quanto affermato da Bertozzi et al 
(Bertozzi 1999:56) tra equivalenza ed invarianza esiste soltanto un rapporto 
gerarchico per cui l’equivalenza dipende dall’invarianza ed è quindi 
prerogativa del traduttore stabilire quella gerarchia di valori che si vuole 
preservare e quali no. Inoltre il fatto che equivalenza ed invarianza siano in 
realtà concetti diversi si desume anche dalla loro stessa natura: equivalenza è 
il rapporto esistente tra i due testi, il testo fonte e quello di arrivo, rapporto 
che come abbiamo visto è la natura stessa del processo traduttivo,  per quanto 
riguarda invece l’invarianza, si potrà parlare di traduzione proprio quando i 
due testi soddisfano determinate esigenze di invarianza (Bertozzi 1999 :58). 
Equivalenza infine indica un rapporto di pari dignità, realizzato con completa 
fedeltà al testo di partenza e al lettore, traduzione quindi come duplice fedeltà 
(Kloepfer 1967). Tale duplice fedeltà mette in discussione alcune posizioni 
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che sostengono che il testo tradotto debba essere una “spiegazione”, una 
“chiarificazione” del testo originale, in realtà il lettore non è tenuto a 
conoscere tutto soprattutto laddove il mistero è volutamente creato 
dall’autore. Magris (1993) afferma che il lettore dovrebbe avere l’illusione di 
avere tra le mani non una traduzione ma un testo originale impregnato della 
sua cultura e della sua tradizione e non di quella dell’autore. Tuttavia questo 
andrebbe contro quanto affermato prima sul duplice volto della fedeltà, l’altro 
lato della medaglia, l’autore, esige anch’esso la sua buona fetta di fedeltà che 
il traduttore ha il dovere di garantire. La traduzione sembra quindi tendere ora 
per una maggiore fedeltà al testo originale, parleremo in questo caso di 
verfremdende Übersetzung (Koller 1992), mentre per una quasi completa 
dissociazione dall’originale ed assimilazione alla cultura d’arrivo, si parlerà  
di sich einpassende Übersetzung. All’interno di queste due opposte sponde 
s’inserisce l’opera del traduttore come mediatore tra il lettore e l’autore del 
testo originale, spetta perciò di nuovo al traduttore la scelta più importante: il 
traduttore dovrà stilare una gerarchia di elementi da lasciare intatti e invariati 
e sarà in base a questa gerarchia che il traduttore dovrà dimostrare la sua 
abilità, solo così il critico della traduzione potrà infatti decidere se per quella 
determinata traduzione sono stati rispettati i principi di invarianza stabiliti. 
Raggiungere il massimo grado di invarianza è il vero obiettivo del traduttore, 
obiettivo che a volte viene pienamente raggiunto, altre volte no, a seconda 
della “gerarchia che egli stabilisce tra i valori di quel testo, a seconda del 
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grado di traducibilità di quei valori e a seconda della più o meno forte 
divergenza strutturale tra le due lingue” (Bertozzi, 1999:98). Ovviamente 
affermando ciò non si vuole negare al traduttore la possibilità di esprimere la 
sua creatività all’interno del testo, la sua impronta sarà sempre presente ed 
indelebile in ogni traduzione, negare ciò sarebbe negare una parte 
fondamentale del processo traduttivo. Ogni traduttore è specifico a sé, è 
unico, irripetibile nelle sue scelte avendo a disposizione un medesimo testo 
ogni traduttore ne darebbe la propria, originale interpretazione a seconda 
anche del suo gusto personale. Questo non è per nulla in disaccordo con 
l’argomento dibattuto in precedenza sulla fedeltà doppia del traduttore, in 
quanto originalità, impronta personale, non implicano arbitrarietà, anzi il 
traduttore all’interno del suo spazio d’azione resterà sempre ancorato 
saldamente sia al testo originale sia al lettore. 
 
1.4 Tipologia testuale nella Übersetzungswissenschaft 
 
La scuola traduttologica di Lipsia indaga sulla necessità di elaborare una certa 
tipologia testuale, sulla quale il traduttore potrà basarsi nella sua personale 
ricerca dell’equivalenza. È necessario anzitutto distinguere tra due termini 
fondamentali e cioè tra Texttyp (categoria testuale) e Textsorte (tipo di testo). 
Il concetto di Textsorte fa riferimento all’individuazione di aspetti linguistici, 
stilistici o strutturali che possono accomunare più testi, nonostante sia noto 
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che ogni testo ha una propria fisionomia ed unicità è anche vero però che si 
possono riscontrare elementi che accomunano più testi. Nell’ambito letterario 
il concetto di Textsorte equivale a quello di Textgattung cioè genere testuale: 
favola, biografia, romanzo….Quei generi cioè che Reiss-Vermeer definiscono 
Textklassen, i quali sono in grado di contenere al loro interno ulteriori generi 
testuali. Tali generi sono infine caratterizzate da Textkonventionen, quegli 
elementi ricorrenti, tipici che individuano l’appartenenza di un testo a quello 
specifico genere testuale (Bertozzi 1999:34-36). Nell’ambito della scuola di 
Lipisa, Otto Kade in Zufall und Gesetzmässigkeit in der Übersetzung (1968) 
propone una classificazione dei testi secondo Textgattungen che non si 
riferiscono però solo a tipi di testi ma riguardano la classificazione dei testi in 
maniera generale. Kade in quel periodo si occupava della traduzione a livello 
di unità di significato o di parola e proponeva quattro diverse tipologie di 
corrispondenza: 1) uno a uno (totale Äquivalenz), 2) uno-molti (fakultive 
Äquivalenz), 3) uno- parte (approximative Äquivalenz  4) uno-nessuno (Null-
Aquivalenz). In base a queste tipologie il traduttore doveva proseguire con la 
divisione del testo in parti o unità e doveva scegliere l’equivalente ottimale 
scegliendo tra molteplici equivalenti o opzioni possibili; infine il traduttore 
doveva procedere con la costituzione delle unità  creando un insieme 
omogeneo (Gentzler 1993:79). Anche Neubert propone una sua personale 
categorizzazione dei testi nell’articolo Invarianz und Pragmatik (1973). 
Neubert postula l’esistenza di un fattore invariabile in merito al confronto 
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nella traduzione, ed è la tipologia testuale. Neubert prosegue affermando che i 
codici che regolano l’uso del linguaggio dimostrano che in qualsiasi 
situazione comunicativa è presente una tipologia testuale caratteristica, fattore 
invariabile della lingua di partenza. Infine Neubert conclude dicendo che 
l’invarianza della tipologia testuale permette anche la presenza di variabili del 
prodotto specifico e la traduzione consisterà quindi nel confronto che porti 
alla soluzione ottimale (Gentzler  1993, idem). Particolarmente innovativa 
nell’ambito della Übersetzungswissenschaft appare la Skopostheorie proposta 
da Reiss e Vermeer. In Möglichkeiten und Grenzen der Übersetzungskritik 
Reiss collega la sua ricerca all’esperienza della pragmatica linguistica ed 
elabora delle tipologie testuali in base alla funzione che il linguaggio svolge 
nel testo. Richiamandosi a Bühler e alla sua Sprachtheorie (1965), nella quale 
l’autore individua la presenza di tre funzioni, Darstellung, Ausdruck und 
Appell (descrizione, espressione e appello), Reiss postula l’esistenza di tre 
funzioni e cioè rappresentativa, espressiva e conativa. Reiss è convinta che 
sebbene in un testo spesso siano presenti più di una funzione alla volta, 
afferma che anche in un gruppo di testi c’è sempre una di queste tre funzioni a 
prevalere sulle altre. Classifica pertanto i testi in inhaltsbetonte 
(predominanza del contenuto o dell’informazione), formbetonte 
(predominanza della forma), e appellbetonte (predominanza della persuasione 
sul lettore). Importantissima è la pubblicazione nel 1984, assieme a Vermeer 
del lavoro Grundlegung einer allgemeinen Translationstheorie. In questa 
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opera Reiss e Vermeer affermano che la traduzione debba essere orientata allo 
skopos cioè all’intenzione, all’obiettivo e alla funzione dell’originale e che i 
traduttori devono produrre un testo che scaturisca da soluzioni ottimali 
stimate in base alle condizioni reali esistenti. Il testo deve essere inoltre 
coerente e questa coerenza è in riferimento allo skopos e in riferimento al 
testo originale, si parla in quest’ ultimo caso di coerenza intertestuale. Mentre 
le posizioni tradizionali tendevano a risolvere il problema dell’equivalenza 
tramite la trasposizione lineare, Reiss e Vermeer pongono il problema delle 
componenti culturali delle quali queste posizioni non tenevano conto. Reiss e 
Vermeer tendono invece a intendere la traduzione come “informazione”, il 
testo non è mai unico ma è sempre soggetto di diverse interpretazioni, per cui 
non si può intendere per i due studiosi, la traduzione come semplice 
ricodificazione di un unico significato, ma presuppone invece 
l’interpretazione del testo come oggetto inserito in un determinato contesto. 
La traduzione intesa come informazione dipende innanzitutto dalla situazione 
dei riceventi e dalla lingua e cultura d’arrivo. Abbiamo visto come la 
Skopostheorie ponga l’accento sullo scopo per il quale si traduce, questo 
scopo può essere individuato in diversi modi: 
1) lo scopo risulta determinabile nel momento in cui vengono individuati i 
destinatari 
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2) lo scopo risulta dalla funzione che il testo assume nella cultura d’arrivo 
per la quale il traduttore o l’esperto in materia può operare dei 
cambiamenti che interessano il testo di partenza 
3) lo scopo viene determinato anche dalle aspettative dei destinatari.  
Secondo Vermeer lo scopo deve essere esplicitato in maniera dettagliata al 
momento della consegna dell’incarico al traduttore, che potrà così decidere se 
la traduzione sia o meno possibile. La Skopostheorie con questo non vuole 
affermare che la traduzione debba per forza essere adattata alla cultura dei 
destinatari, ciò rappresenta solo una possibilità, così come lo è una traduzione 
estraniante. I tratti distintivi della Skopostheorie sono dunque i seguenti:  
1) rapporto 1 a 1 tra traduttore e committente 
2) la traduzione è una trasposizione linguistica che avviene tra due culture 
trascurando però tutti i fenomeni di produzione di testi destinati a più 
contesti culturali diversi 
3) il traduttore è al centro del processo decisionale 
4) il destinatario è lo scopo primario della traduzione 
 La tipologia testuale presentata dai due autori è stata oggetto di discussione e 
dibattito da parte di diversi autori. Innanzitutto Snell-Hornby in Translation 
Studies: An Integrated Approach definisce la tipologia proposta da Reiss 
come troppo rigida e prescrittiva e propone al suo posto una prototipologia 
basata sulla Gestalt, una tipologia estremamente complessa caratterizzata da 
un livello generale (macrolivello) e da livelli particolari (microlivelli) 
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(Gentzler 1993:81). Situazione ancora più estrema nei Translation Studies 
dove le tipologie di traduzione vengono abbandonate e la traduzione viene 
considerata un tutt’uno.  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Capitolo 2:  
I linguaggi specialistici 
 
2.1 Le lingue di specialità 
 
Cortelazzo (1994:8) definisce le lingue speciali come: 
“una varietà funzionale di una lingua naturale, dipendente da un settore di conoscenze o da 
una sfera di attività, utilizzata, nella sua interezza, da un gruppo di parlanti più ristretto 
della totalità dei parlanti la lingua di cui quella speciale è una varietà, per soddisfare i 
bisogni comunicativi di quel settore specialistico.” 
Gotti (1991:6), invece, le lingue speciali come una varietà della lingua 
comune che fa capo a regole e simboli particolari, mentre Sobrero (1993:239) 
tratta in egual modo sia le lingue specialistiche (cioè le lingue della 
matematica, della fisica, ecc…), sia le lingue settoriali (la lingua della 
politica, della televisione, ecc…). Scarpa (2001:2), da parte sua, opera 
innanzitutto una distinzione tra lingue speciali in senso stretto, intendendo i 
sottocodici che interessano la traduzione specializzata aventi tratti 
morfosintattici e testuali propri e linguaggi settoriali che, seppure tipici di 
alcuni contesti comunicativi, non hanno tratti omogenei.