2 
  
INTRODUZIONE 
 
 
«Ragioni troppo, mi pare... [...] Sì! E questo è il mio male»
1
. Un male, quello 
esistenziale, da cui trae origine il tormentato universo dell'Essere nelle sue 
multiformi sfumature fatto di ombre e abissi impenetrabili, padre di 
quell'umorismo generato dal dissidio fondamentale dell'Io. 
In una lettera scritta alla sorella Lina nel 1886, Luigi Pirandello enfatizza questo 
atto del pensare andando oltre ciò che il pensiero offre nella sua forma latente e 
indagandolo nella sua essenza piø profonda: «La meditazione è l'abisso nero, 
popolato di foschi fantasmi, custodito dallo sconforto disperato. Un raggio di luce 
non vi penetra mai, e il desiderio di averlo ti sprofonda sempre piø nelle tenebre 
dense... ¨ una sete inestinguibile, un furore ostinato; ma il nero ti abbevera la 
immensità silenziosa ti agghiaccia»
2
.  
E proprio in rapporto a tale condizione descritta che scatta la sensazione della vita 
come «enorme pupazzata», in fondo al quale vive una condizione di 
abbassamento del tono vitale che produce un senso d'estraniazione tradotto in quel 
determinato concetto astratto del «vedersi vivere». 
Così come accade all'antieroe Vitangelo Moscarda, protagonista di sØ stesso nel 
romanzo pirandelliano Uno, nessuno e centomila, ispirato alla novella Stefano 
Giogli, uno e due
3
 e uscito a puntate sulla “Fiera letteraria” (dicembre 1925-
giugno 1926) con un lungo sottotitolo: Considerazioni di Vitangelo Moscarda, 
generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri, 
considerato dallo stesso Luigi Pirandello come «il piø amaro di tutti, 
profondamente umoristico, di scomposizione della vita: Moscarda, uno, nessuno e 
centomila».  
A tale sensazione del «vedersi vivere», si accosta un altro turbamento che prende 
origine dal nonsense di tutte le cose e che Pirandello esplicita  ancora nella lettera 
                                                 
1
 L. Pirandello, Se… in Novelle per un anno, a cura di I. Borzì e M. Argenziano, 
Milano, Newton, 1994, p. 116. 
2
 Id., L'umorismo e altri saggi, a cura di E. Ghidetti, Firenze, Giunti, 1994, p. XII. 
3
 Cfr. Id., Novelle per un anno, cit., pp. 1410 sgg.
3 
  
scritta alla sorella Lina con tali parole: «In certi momenti di abbandono, parlo 
come un insensato e sento un impetuoso desiderio di non vivere [...] ma poi tutto 
finisce [...] nel mio cervello si fa un vuoto nero, orribile, raccapricciante, come il 
misterioso fondo del mare popolato da mostruosi pensieri che guizzano passando 
minacciosi»
4
.  
Egli conclude con un’immagine fondamentale della sua poetica: «Non ho tristezze 
io; ma rido [...]. Egli è che ho veduto la Terra, da un punto un pò troppo alto, e mi 
è paruta, la salvi chi può!, un limone... A quell'altezza si ride come matti»
5
.  
Uno, nessuno e centomila vuole essere nei termini da me delineati, una sorta di 
“riscoperta” che indaga nelle viscere della trama della vita del suo protagonista 
Vitangelo Moscarda, attraverso la messa in atto di un pensiero quasi 
“sperimentale”, intrapreso alla fine dell’800 da studiosi quali ThØodule-Armand 
Ribot, Pierre Janet e Alfred Binet.  
Secondo la loro linea di pensiero, applicabile al romanzo pirandelliano, questi 
imminenti pensatori sostenevano che l’anima non è una ma molteplice, e cioè che 
gli esseri sono formati da un “arcipelago di isolotti di coscienza” e che la 
personalità all’inizio è plurima e poi diventa una – se lo diventa – perchØ c’è un Io 
egemone, che è capace di controllare tutti questi arcipelaghi riottosi di essere 
“uno, nessuno e centomila”.  
In questo modo il mantenimento dell’identità personale da questa pluralità che noi 
siamo, da tutto quello che avremmo potuto essere e non siamo stati, tutta questa 
pluralità viene mantenuta in tiro, in forza, da un Io egemone. Dentro l’essere vi 
sono dunque un quantità di personalità multiple, che in genere negli individui 
normali sono latenti, ma quando la tensione si allenta, l’Io egemone viene 
costretto ad abdicare e questi Io che prima erano dei comprimari, prendono 
successivamente o alternativamente il comando.  
Seguendo le orme della tradizione della psicopatologia, tale processo viene ad 
essere definito con un disturbo che si definisce sotto l’etichettatura di “personalità 
                                                 
4
 S. Milioto ed E. Scrivano, Pirandello e la cultura del suo tempo, atti del convegno 
internazionale tenutosi ad Agrigento nel dicembre 1983, Milano, Mursia, 1984, p. 298. 
5
 Ibid.
4 
  
multiple”, generate da quel raffronto che l’Io allo specchio ha con il suo 
narcisistico doppio. 
Vitangelo Moscarda, Gengè per la moglie, comincia a rendersi conto dello 
spossessamento operato su di lui da Dida, dal momento in cui questa gli fa 
osservare allo specchio che ha il naso un po’ storto, da tale osservazione 
Moscarda sprofonda in «abissi di riflessioni» proprio come una talpa nella sua 
tana, dove la tana rappresenta per antonomasia il regno del subconscio
6
. 
Senso di evanescenza dell’Io, dissociazione, ambivalenza della conoscenza e 
senso di irrealtà sono le inevitabili conseguenze che ne derivano. Come Mattia 
Pascal compie la sua discesa agli inferi, sorta di viaggio iniziatico di una bildung 
all’incontrario, così anche la fuga di Vitangelo Moscarda rappresenta un modo 
come un altro di fare i conti con i propri fantasmi e il proprio rimosso. Ma 
scherzare coi fantasmi significa accettare di doverne incontrare prima o poi uno 
con cui fare i conti, e di conseguenza anche mettere in dubbio i cardini stessi della 
propria identità
7
.  
Alla stregua quindi del suo predecessore Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda 
approda in questo suo viaggio nei meandri di un caotico e tormentato destino 
esistenziale, alle plaghe sconfinate del dubbio radicale, muovendo dal dilemma 
amletico che è quella prigione con cui Blaise Pascal definisce il mondo e da cui 
ogni giorno i condannati vengono condotti a morire
8
. 
La follia che scaturisce da questa angoscia esistenziale, prende la sua linfa iniziale 
da un atto che riguarda la condizione umana, quello dello sguardo, del contatto fra 
due occhi che non riconoscendosi l’un con l’altro danno vita ad 
un’incomunicabilità, uno specchio di alienazione che riconduce l’Essere alla sua 
radice esistenziale di solitudine: «Guai se vi affondaste come me a considerare 
questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e 
gli guardate gli occhi – come io guardavo un giorno certi occhi – potete figurarvi 
come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, 
                                                 
6
 G.P. Biasin, Lo specchio di Moscarda, in “Paragone”, XXIII, 1972, p. 45. 
7
 Cfr. R. Castelli, La penna e la macchina da presa. Itinerari tra letteratura e cinema, 
Acireale-Roma, Bonanno Editore, 2007, p. 60. 
8
 Cfr. ivi, p. 61.
5 
  
non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno 
ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi 
tocca…»
9
. 
Lo specchio nelle sue specularità vivifica questa metafora del mendicante e genera 
il riflesso di un’immagine che non si riconosce, quella appunto che appartiene a 
un universo senza chiave di accesso, di cui  Vitangelo Moscarda è l’emblematico 
artefice: «Niente di quello che vedete sono io»
10
, tali sono le parole che sussurra 
dentro di sØ colui che per antonomasia, Ronald David Laing, definisce «soggetto 
schizoide». «E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. […] gli altri che non 
possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso?»
11
.  
In tale dimensione vi è uno sfalsamento dell’Io, che si raffigura medianti azioni 
che non rappresentando l’Io nella sua forma autentica, conducono verso una via 
tracciata da una reale componente ambigua che porta l’Essere a diventare un 
“niente”.  
Secondo Laing, tale processo porta l’individuo a recitare un ruolo come di una 
maschera in una rappresentazione teatrale, ma quando la messa in scena si 
conclude l’Io senza maschera non è altro che uno spettro: esistere senza corpo si 
paga col non essere
12
.  
Se nell’individuo non scattano dei processi di natura elementare quali 
l’autonomia, il senso d’identità e il sentirsi vivo sia per sØ stesso che per gli altri, 
allora questi si sente in dovere di inventare di continuo dei modi per cercare di 
essere reale, attraverso un incessante e costante lavorio inteso a impedire che l’Io 
si perda nel nonnulla: «Vivendo, io non rappresentavo a me stesso nessuna 
immagine di me. PerchØ dovevo dunque vedermi in quel corpo lì come in 
un’immagine di me necessaria? Mi stava lì davanti, quasi inesistente come 
un’apparizione di sogno, quell’immagine»
13
.  
                                                 
9
 L. Pirandello, Enrico IV, Milano, Rizzoli, 2007, p. 99. 
10
 R.D. Laing, L'io diviso: studio di psichiatria esistenziale, Torino, Einaudi, 1991, p. 
45. 
11
 L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Milano, Garzanti, 2010, p. 14. 
12
 R.D. Laing, L'io diviso, cit., p. 45. 
13
 L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, cit., pp. 21-22.
6 
  
Il problema della schizoidia come distacco dal flusso vitale, è stato osservato la 
prima volta negli anni trenta da Eugène Minkowski in opposizione all’idea della 
normalità come “sintonia”, in cui viceversa l’individuo non si distacca 
dall’ambiente circostante, ma lo percepisce in una sorta di armoniosa simbiosi.  
La schizoidia intrinseca per sua natura di debolezza vitale, trascina in un vortice in 
cui vengono a mancare il senso di 
tempo e spazio, per lasciare solo 
quello che Eugène Minkowski 
definisce «spazio della notte», 
dove esiste solo la dimensione 
della profondità lontano dallo 
«spazio socializzato» della vita 
normale “diurna”
14
. Nella duplice 
chiave di lettura dell’esclusione 
dalla vita e dell’esaltazione delle capacità logico-riflessive, si sintetizza la formula 
pirandelliana dell’«aver capito il gioco»: «Chi ha capito il giuoco, non riesce piø a 
ingannarsi; ma chi non riesce piø a ingannarsi non può piø prendere gusto nØ 
piacere alla vita»
15
. Attraverso questa messa in atto del comprendere, la vita è 
ridotta a regole meccaniche fondamentalmente prevedibili, in cui il “lucidissimo” 
atto del vedere nella sua severa osservazione allontana l’individuo dagli strati piø 
reconditi della vita che, in tale definizione, perde la sua autentica natura per 
abbandonarsi in quell’oblio del nonsense di tutte le cose.  
Questo meccanismo nella sua natura primordiale nasce da un volontaria fuga da 
ogni impulso vitale, in cui il peggior nemico da temere è il proprio inconscio, 
pronto a sommergere un Io costituzionalmente debole con insidie subdole 
partorite da pulsioni profonde di natura sadico-libidiche.  
L’abbandono a tali tipo di difese attuate dallo stato conscio della ragione 
all’inconscio, sfocia nella follia avvertita in tal senso come lo spalancarsi delle 
porte dell’inferno, col ritorno travolgente del rimosso contro un Io assolutamente 
                                                 
14
 E. Minkowschi, in E. Gioanola, Pirandello, la follia, Milano, Jaca Book, 1997, p. 
100. 
15
 L. Pirandello, L'umorismo: e altri saggi, cit., p. XVI. 
Figura 1
7 
  
incapace di mediazioni: la follia in tal senso è avvertita come rivolta delle cose 
contro l’Io, nell’autonomizzarsi angosciante di ciò che sarebbe dovuto rimanere 
sotto il controllo imperante del razionale.  
In uno dei Foglietti pirandelliani si legge: «Degli altri non avevo paura, anche se 
mi bastonavano. Di me stesso, sì, temevo il pericolo di perdermi per niente»
16
. 
In una realtà distorta in cui il senso lineare di tutte le cose si infrange per confluire 
in una perfetta non linearità, tutti gli eventi che di per sØ nel quotidiano non hanno 
alcun significato particolare, diventano significativi nella misura in cui 
contribuiscono ad alimentare le fosche fantasie che imperano in quell’universo 
fragile e sostanzialmente solido, cristallizzato in fondamenta di rarificati nessi 
logici: « – Che fai? – Mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente 
indugiare davanti allo specchio.  
– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, 
avverto un certo dolorino. 
Mia moglie sorrise e disse: – Credevo ti guardassi da che parte ti pende.  
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: – Mi pende? A me? 
Il naso? E mia moglie, placidamente: – Ma sì, caro. Guàrdatelo bene: ti pende 
verso destra»
17
 […] «Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie la 
scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in 
me»
18
. 
Ogni riferimento alla realtà esterna percettibile, rispetto alle barriere 
laboriosamente costruite cui l’Essere in questione trova il suo sicuro e 
consolatorio rifugio, è sinonimo di pericolo, in quanto questa lo catapulta in ciò 
che Laing definisce «risucchio»
19
, e in tale definizione vi è la terribile e  
angosciosa paura di essere stretti in una morsa, i cui dettami sono la comprensione 
e l’amore. Si ha in tal senso l’istinto di un bramoso isolamento per non essere 
risucchiati e perciò annientati dall’amore: «Desiderai da quel giorno 
                                                 
16
 E. Gioanola, Pirandello, la follia,  cit., p. 110. 
17
 L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, cit., p. 3. 
18
 Ivi, p. 7. 
19
 R.D. Laing, L'io diviso, cit., p. 52.
8 
  
ardentissimamente d’esser solo, almeno per un’ora. Ma veramente, piø che 
desiderio, era bisogno: bisogno acuto urgente smanioso»
20
. 
L’isolamento è provocato dal bisogno di difendersi e nasce da una preoccupazione 
per gli altri; se a tale condizione subentra l’indifferenza in cui non c’è niente da 
amare, niente da desiderare e di conseguenza niente da annientare, allora come 
ultima risorsa l’individuo procede a uccidere il suo «io», discendendo in tal modo 
in un vortice di non-essere per evitare di essere
21
: «Quel che piø mi coceva era che 
questa mia totale remissione fosse 
interpretata come vero pentimento, mentre 
io davo tutto, non m’opponevo a nulla 
perchØ remotissimo ormai da ogni cosa che 
potesse avere un qualche senso o valore per 
gli altri, e non solo alienato assolutamente 
da me stesso e da ogni cosa mia, ma con 
l’orrore di rimanere comunque qualcuno, in 
possesso di qualche cosa»
22
.  
L’Io nel suo isolamento e nel suo distacco, 
non si impegna mai in un rapporto creativo 
con gli altri, e si preoccupa solo delle immagini o figurazioni della fantasia, del 
pensiero, della memoria. In tale contesto l’Io quindi può restarsene libero e 
disimpegnato; nella sua fantasia può essere chiunque e dovunque, può fare tutto e 
avere tutto. ¨ onnipotente e completamente libero: ma solo nella fantasia
23
.  
Tale tipo di fantasia colora nei suoi tratti piø reconditi le fattezze di un mondo in 
cui dominano le bizzarre carte da gioco, i fiori, protagonisti di un giardino in cui 
tempo e memoria si fondono per sfociare nell’oblio di una dimensione 
atemporale, e poi, scacchiere dotate di regole cui dettami confluiscono nella 
duplice linearità del nonsense e nel turbinio di nessi privi di ogni remoto impulso 
logico.  
                                                 
20
 L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, cit., p. 11. 
21
 R.D. Laing, L'io diviso, cit., p. 107. 
22
 L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, cit., pp. 158-159. 
23
 R.D. Laing, L'io diviso, cit., p. 96. 
Figura 2