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Introduzione 
 
Questo lavoro nasce dall’osservazione della società che mi circonda e dall’utopica 
aspirazione che essa possa essere migliorata; infatti, ogni giorno dobbiamo fare i conti 
con un profondo e dilagante razzismo che si dispiega in un contesto sociale in cui siamo 
sempre più alienati, soli e passivi di fronte alle crisi politiche, economiche e ambientali 
in atto. Con l’intento di contrastare questa tendenza, l’idea è stata fin dal primo momento 
quella di indagare le pratiche quotidiane antirazziste che vanno a decostruire gli stereotipi 
sullo “straniero” e quindi a normalizzare e legittimare la loro presenza sul territorio 
italiano. Tra le tante pratiche possibili ho scelto di concentrarmi su quelle artistiche: fare 
ricerca sociale sull’arte e attraverso l’uso delle arti ha lo scopo di proporre strumenti 
concettuali in grado di trasformare l’ordinarietà che spesso si presenta come un’unica 
realtà imperturbabile. In particolare, le arti performative, grazie ad alcune specifiche 
caratteristiche, possono accompagnare coloro che ne sono coinvolti, sia come attori che 
spettatori, in un percorso di conoscenza di sé stessi e della cultura nella quale si è immersi. 
Per indagare i punti d’incontro e i contatti tra arti performative, migrazioni e ricerca 
sociale ho iniziato a fare osservazione partecipante, che verrà restituita sotto forma di un 
racconto autoetnografico, frequentando uno dei laboratori teatrali dei Cantieri Meticci, 
una compagnia che unisce italiani, migranti, richiedenti asilo, rifugiati, bambini, 
adolescenti, uomini e donne, anziani, e che utilizza il teatro per mescolare persone, idee, 
storie, lingue e arti.  
Tra le motivazioni che mi hanno spronato a mettermi in gioco in prima persona c’è, senza 
dubbio, l’attentato di Macerata del 3 febbraio 2018 quando Luca Traini sparò dalla 
propria auto in corsa per le strade della città, ferendo sei persone, tutti africani. Questo 
fatto mi ha particolarmente scosso e mi ha invitato ad iniziare a riflettere su quali siano 
effettivamente le emergenze sul nostro territorio. La volontà di approfondire la questione 
mi ha portato a partecipare ad uno Youth Exchange a Macerata chiamato “Ubuntu contro 
il razzismo”, dove per la prima volta mi sono potuta confrontare sul tema con ragazzi 
provenienti da altri Paesi e farlo in maniera non convenzionale, né aule, né slides, ma 
dibattiti, workshop e giochi di ruolo, per scavare in profondità un insieme di tematiche 
complesse e inseparabili tra loro, quali le migrazioni, l’integrazione, il razzismo, la 
politica, lo spazio pubblico che non possono limitarsi a teorie astratte o ad analisi costi-
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benefici, dove i migranti oscillano dall’essere un giorno un problema e l’altro una risorsa. 
Scrivo queste righe a pochi mesi dal via libera al Decreto denominato “sicurezza-bis”, 
subito converitito in legge, che prevede regole molto stringenti per la gestione dei 
migranti che arrivano via mare; una legge che va a regolarizzare da un punto di vista 
formale i respingimenti e la chiusura dei confini. Inoltre, un altro triste episodio cade 
proprio nel periodo di stesura di questo lavoro: due attori della compagnia teatrale 
Cantieri Meticci, con la quale ho svolto la mia ricerca, che si trovavano a Verona per 
portare in scena “La leggenda dell’UomoCane” sono stati vittime di un episodio di 
razzismo da parte del gestore del B&B in cui alloggiavano. Ironia della sorte il tema dello 
spettacolo è l’insorgere di odio, intolleranza e xenofobia, ambientato in un futuro 
distopico dove tutto quello che poteva andare storto è andato storto, dove i migranti hanno 
la colpa di tutto, dove nei media non si distingue più il vero dal falso, dove la politica è 
ridotta a ricerca del capro espiatorio. Gli attori hanno denunciato l’accaduto con la 
speranza che venga seguito il loro esempio e tutti coloro che subiscono violenze e 
discriminazioni trovino il coraggio di fare lo stesso e non scelgano il silenzio, con 
l’obiettivo di evitare la normalizzazione di episodi di questo tipo. Infatti, dato che tanto 
si parla di emergenze in riferimento al fenomeno migratorio, poche sono le volte in cui 
vengono citate le denunce per odio razziale che dal 2016 ad oggi sono triplicate
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 ed è 
interessante capire come mai questo non sia tanto allarmante quanto gli sbarchi sulle 
nostre coste. La crescente ondata razzista di cui parliamo viene continuamente fomentata 
da una classe politica che, cavalcando diffusi sentimenti di incertezza e crisi, trova così 
ampio consenso. Come vedremo però il razzismo non è solo questo, sarebbe riduttivo 
parlarne in termini di ricerca di capri espiatori nei momenti di crisi; significherebbe 
privare il fenomeno del razzismo di qualsiasi specificità storica e politica, (Mellino, 2012) 
nonché tralasciare la dimensione strutturale che è andato a costituire. È proprio quello che 
andremo ad analizzare nel primo capitolo, chiedendoci in che termini si può parlare 
ancora oggi di razzismo quando da tempo oramai è venuta meno ogni base scientifico-
biologica dell’esistenza delle cosiddette “razze”. Guarderemo poi al fenomeno delle 
 
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Nell’ultimo report pubblicato dalla Rete europea contro il razzismo (Enar), vengono citati dati dell’Ocse 
(Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che restituiscono una fotografia dei crimini 
a sfondo razzista in Europa. Dal 2014 al 2017 l’Italia è passata da 413 a 823 casi di violenze legate alla 
nazionalità e al colore della pelle. 
https://www.enar-eu.org/IMG/pdf/shadowreport2018_final-embargoed_12-09-2019.pdf
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migrazioni in quella che è stata definita prospettiva post o decoloniale; impossibile infatti 
indagare i flussi migratori odierni tralasciando imperialismo, colonialismo e schiavismo 
che mettono in luce come la creazione dei confini sia arbitraria e storicamente 
determinata, provando ad arrivare ad una decostruzione del concetto stesso di confine 
attraverso pratiche quotidiane di “sconfinamento” che è poi quello che si è provato a fare 
attraverso questo percorso di ricerca che poggia le sue basi metodologiche nel secondo 
capitolo. L’approccio su cui ci siamo focalizzati è di stampo qualitativo, in particolare 
sulla linea dell’interazionismo simbolico e dell’etnometodologia, di cui vengono 
presentate le caratteristiche generali e le tecniche classiche utilizzate. L’intento è di 
riflettere suimetodi innovativi che intrecciano arte e ricerca sociale, la cui applicazione si 
rivela particolarmente interessante negli studi sull’immigrazione e sull’inclusione sociale. 
  
Il terzo capitolo è interamente dedicato alla mia ricerca sul campo svolta tra aprile e 
giugno 2019 facendo osservazione partecipante ad un laboratorio teatrale dei Cantieri 
Meticci. La ricerca viene riportata in questa sede sotto forma di resoconto 
autoetnografico, ovvero come una forma di scrittura critica e auto-riflessiva che parte 
dalla mia esperienza personale per arrivare ad analizzare alcuni aspetti della società di cui 
sono parte. Ho adottato uno stile narrativo, ovvero raccontato una storia, riuscendo così a 
mescolare la restituzione della ricerca con la mia passione per la scrittura; ho quindi 
presentato tutti i passaggi che mi hanno portato fino a qui: dal momento in cui abbiamo 
avuto l’idea ai primi contatti con la compagnia, dagli appuntamenti settimanali del 
laboratorio allo spettacolo conclusivo.   
Nel quarto capitolo vado ad esplorare il contesto socio-politico che viviamo e all’interno 
del quale prende parte la ricerca, focalizzandomi in particolare sullo spazio pubblico. Uno 
spazio, cioè, che si caratterizza per l’ingente presenza di soggetti e gruppi sociali 
eterogenei e che, in un’epoca di capitalismo avanzato, tende ad essere sempre meno 
pubblico e più escludente verso ciò che è visibilmente diverso. Partendo dalla mia 
esperienza ho potuto notare come il teatro e le arti performative, se svolte in un ambiente 
non istituzionale e in una prospettiva orizzontale, possono divenire vere e proprie forme 
di resistenza alle logiche omologanti del neoliberismo. Costruire performances, infatti, 
permette di acquisire e accrescere la capacità di controllare attivamente la propria vita, 
quello che potremmo chiamare empowerment, di sviluppare consapevolezza critica
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rispetto all’ambiente sociale nel quale si è inseriti e di proporre alternative creative per 
vivere diversamente la città.
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Capitolo Primo.  
 
Intrecciare gli sguardi  
 
Il razzismo, le migrazioni e i confini sono temi cardine della nostra esperienza quotidiana, 
non solo perché al centro delle vicende socio-politiche attuali, ma anche per il 
coinvolgimento e la carica emotiva che suscitano negli individui. Ci è sembrato quindi 
interessante raccontarle nel seguente capitolo attraverso la prospettiva del writing back 
che prova a scardinare le narrazioni europee sull’Oriente e sull’Africa. Lo sforzo è di 
addentrarsi nel discorso culturale occidentale e portarlo al riconoscimento delle storie fino 
ad oggi emarginate, soppresse o dimenticate, attraverso la decostruzione di tutti quei 
concetti che si sono sedimentati nel senso comune e che quindi abbiamo naturalizzato. 
Sono proprio le decostruzioni che permettono le trasformazioni, portando allo 
sgretolamento delle realtà monolitiche a favore delle ibridazioni. Intrecciare gli sguardi, 
appunto, per rileggere le rappresentazioni di razzismo, migrazioni e confini che sono state 
prodotte da una veduta etnocentrica, che ha spesso avuto la pretesa di essere universale, 
per dare spazio ad una nuova narrazione che sia meno coercitiva e quindi non più 
contenibile nei vecchi schemi imperialisti e coloniali.  
 
1.1 Parlare di razzismo oggi  
 
L'esperienza sociale quotidiana mostra, e senza possibilità di equivoci, che la “razza” è 
una realtà. Una solida realtà sociale, psicologica, ideologica, politica. La razza è 
tuttora una categoria piena di significato. Che conta, altro se conta! Le razze esistono. 
E sono socialmente diseguali. Il mondo è profondamente spaccato, infatti, in razze 
signore e razze schiave" 
(Basso 2000, p.5) 
Viviamo in un periodo in cui la retorica del “Io non sono razzista, ma…” che per lungo 
tempo ha riempito le bacheche dei social network e i silenzi tra una chiacchiera e l’altra 
al bar è stata sostituita dall’aperta affermazione “Io sono razzista…”, annullando quindi
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quella precedente premessa ipocrita che veniva sistematicamente seguita dai più svariati 
stereotipi razzisti. L’ostentazione di una simile dichiarazione ci mostra la forza che ancora 
oggi ha il razzismo e allo stesso tempo la debolezza dell’antirazzismo che fatica sempre 
più nell’arginare queste possibili derive (Alietti, 2017).  
Attualmente infatti il razzismo si presenta come un discorso democratico e ragionevole 
che sembra rifiutare le teorie classiche che sostenevano una supposta superiorità tra le 
razze su base biologica. Si fa in questo caso riferimento alle dottrine pseudoscientifiche 
tra cui primeggia quella del medico e antropologo scozzese Robert Knox che nel saggio 
titolato "The races of men" pubblicato nel 1850 sosteneva che dall'aspetto fisico, o dalle 
misure antropometriche, sarebbe possibile derivare o spiegare le conquiste culturali delle 
popolazioni. Ancora più celebre è la teoria espressa nel “Saggio sulla diseguaglianza 
delle razze umane” scritto dal diplomatico francese Arthur de Gobineau nel 1853 in cui 
promuoveva - attraverso argomenti antropologici, linguistici, storici e culturali - l’idea 
che il mondo fosse abitato da tre razze principali, ognuna delle quali era caratterizzata da 
aspetti fisici e caratteriali specifici. L'obiettivo era dimostrare che la razza tedesca era 
superiore alle altre e che per mantenerla pura era necessario evitare incroci e 
contaminazioni con le razze inferiori (Basso, 2000).   
In genere questi autori teorizzavano sulla base di misurazioni di parametri fisici del corpo 
umano (craniometria e craniologia, misure dei rapporti tra le lunghezze del tronco e degli 
arti, etc.) e contribuirono alla diffusione dell’eugenetica che servendosi 
dell'evoluzionismo darwiniano ebbe come obiettivo il miglioramento della specie umana 
utilizzando le leggi dell’ereditarietà genetica. Sistemi teorici che agli inizi del XX secolo 
furono contrastati da antropologi fisici e biologi che si resero conto che i tratti esteriori 
usati tradizionalmente per identificare le razze, in primis il colore della pelle, non si 
correlavano con altre caratteristiche fisiche e biologiche. Venne così meno la pretesa di 
stabilire un nesso causale tra aspetto fisico e cultura e quindi le premesse per l’esistenza 
di razze umane che avessero attributi simili come è invece nel caso degli animali. Gli 
antropologi culturali dimostrarono che gli esseri umani sono tali proprio perché sono tutti 
produttori di cultura e si va costituendo l’idea di razza come costruzione culturale che non 
riflette un fatto di natura, ma un’etichetta culturale inventata per classificare le persone in 
gruppi (Fabietti, 2010). Dovremo comunque attendere la «Dichiarazione sulla razza» 
dell'UNESCO approvata a Parigi nel 1950 affinché queste idee potessero liberalmente
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circolare. Qui per la prima volta si negò ufficialmente la correlazione tra la differenza 
fenotipica nelle razze umane e la differenza nelle caratteristiche psicologiche, intellettive 
e comportamentali.   
Possiamo quindi dire che da un lato, a livello teorico, dopo gli orrori della Seconda Guerra 
Mondiale, l’idea di razza viene essenzialmente “bandita” e relegata ad autentico mito 
sociale che ha prodotto un'enorme quantità di danni umani; dall’altro continuiamo però 
ad assistere quotidianamente a episodi di xenofobia e razzismo, nonché campagne 
pubblicitarie e politiche che, attraverso l’uso di un linguaggio particolarmente violento, 
incitano all’odio razziale diffondendo intolleranza e disprezzo sempre meno mal celato 
verso persone provenienti dai paesi più poveri del mondo. Nell’attualità una delle prime 
cose che si notano riguardo al problema del razzismo è che viene associato 
immediatamente all'immigrazione, come se il razzismo fosse una conseguenza del flusso 
di immigrati che ha investito l'Italia, e l'Europa, negli ultimi decenni. Questa consolidata 
correlazione avviene quasi come un automatismo che va da un lato ad indebolire la 
memoria storica del passato coloniale, e contemporaneamente permette di “giustificare” 
questi episodi di discriminazione razziale in quanto “l’Altro” mina la tanto agognata 
sicurezza della fortezza Europa ed è portatore di una “diversità” inconciliabile con i valori 
occidentali, considerati l’apice dello sviluppo moderno. Per comprendere come ancora 
oggi il razzismo sia parte della strutturazione della percezione e perno identitario è 
importante svelare il processo di mistificazione del colonialismo per poter riscoprire che 
le radici del fenomeno del razzismo sono antiche e profonde.  
Prima di tutto è importante sottolineare che le teorie razziste sopraindicate non sono prive 
di contesto storico-culturale: tra il XVIII e il XIX si impone, infatti, il nazionalismo, 
definito dagli storici e politologi come un principio politico che sostiene che l’unità 
nazionale e l’unità politica dovrebbero essere perfettamente coincidenti. Il passaggio allo 
Stato-nazione necessitava quindi di alcune condizioni preliminari come il consenso verso 
un’unità politicamente centralizzata e un clima morale politico omogeneo. Premesse che 
non erano affatto soddisfatte in quegli anni, ma che trovarono forti alleati: le teorie 
razziste e il capitalismo industriale che si stavano diffondendo. Infatti come sostiene 
Balibar (1992) il razzismo costituisce un supplemento interno al nazionalismo (Mezzadra, 
2008) e i due fenomeni si sono alimentati a vicenda in quanto la costruzione dell’idea di 
nazione necessita un continuo rimando ad un popolo nazionale che deve sentirsi tale e
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quindi costruire una supposta unità sulla base della differenziazione con l’“Altro”. In 
questi anni l’immaginario europeo si va configurando in contrapposizione a tutto ciò che 
viene definito primitivo e selvaggio; lo sviluppo delle scienze permette all’Occidente di 
auto-elevarsi ad unico portatore di modernità, industrializzazione, progresso e sviluppo 
(Siebert, 2014). Il razzismo come teoria organica e come movimento organizzato giocò 
quindi un ruolo fondamentale come collante sociale, evocando sentimenti di appartenenza 
sulla base di una comune origine, ma soprattutto servì come giustificazione alla creazione 
dell’immaginario della nazione di stampo imperialista che per imporsi aveva l’esigenza 
di primeggiare sulle altre. L’uomo bianco fu investito di un pesante fardello quello della 
missione civilizzatrice verso tutto ciò che non era incasellabile nelle categorie europee e 
occidentali, come testimonia la poesia dello scrittore inglese Rudyard Kipling dal titolo 
The White Man's Burden del 1899:   
Take up the White Man's burden  
Send forth the best ye breed  
Go bind your sons to exile 
To serve your captives' need; 
To wait in heavy harness, 
On fluttered folk and wild  
Your new-caught, sullen peoples, 
Half-devil and half-child.  
 
L’ultimo verso della prima strofa definisce gli uomini e le donne delle popolazioni 
brutalmente colonizzate come “metà diavoli e metà bambini”, facendo riferimento da un 
lato alla mancanza di religione in accezione cristiana e dall’altro al fatto che come i 
bambini dovessero essere “educati” e “civilizzati”. Ancora una volta siamo di fronte a 
una rilettura in chiave razzista della teoria dell’evoluzione darwiniana al fine di affermare 
la superiorità dei bianchi sulle altre razze.  
 L’idea di missione civilizzatrice ha però spesso messo in ombra la spinta che il 
capitalismo diede al colonialismo, infatti il controllo di territori altri, fuori dai confini