4
La sua carriera letteraria è stata profondamente influenzata da 
almeno tre fattori: 
That my father was a writer. That I was educated exclusively in English. And that  
I was born a female.
1
  
Ha più volte ribadito l'importanza che la figura del padre ha avuto 
nella sua vita professionale - "he was dominant but not domineering"
2
 ; si 
è trattato di un'influenza sottile e indiretta che la scrittrice fa risalire ai 
tempi della sua infanzia. Aveva a disposizione numerosi libri così che la 
lettura divenne un elemento importante nella sua vita. Racconta di essere 
stata fin da bambina una lettrice vorace e di avere letto, già all'età di 8 
anni, Pride and prejudice di Jane Austen
3
; fin da piccola ascoltava le 
conversazioni e le discussioni che il padre intratteneva con gli amici, 
assisteva a rappresentazioni e tutto ciò ha sicuramente contribuito a 
formare "a world of words and ideas I was happily submerged in”
4
. Due 
sono stati i grandi meriti del padre, quello di non aver mai voluto imporre le 
proprie idee alle figlie, concedendo loro un'enorme libertà di pensiero e 
quello di non avere mai fatto pesare loro il fatto di essere di sesso 
                                            
1
 Da DESHPANDE SHASHI, “Of Concerns, Of Anxieties”, in Indian Literature, sett.-ott. 
1966, in http://ch.8m.com/shashi.htm 
2
 Da VISWANATHA VANAMALA, “A Woman's World …All The Way! (intervista)”, in 
Literature Alive, vol.1, num.3, dicembre 1987, in PATHAK R.S. (a cura di), The Fiction of 
Shashi Deshpande, New Delhi, Creative Books, 1998, pp. 232-237 
3
 Da HOLM CHANDRA, “An Interview with Shashi Deshpande”, in 
http://ch.8m.com/shashi.htm 
4
 Da DESHPANDE SHASHI, “Of Concerns, Of Anxieties”, in Indian Literature, sett.-ott. 
1966, in http://ch.8m.com/shashi.htm 
 5
femminile.
5
 
Il padre non ha mai dimostrato grande entusiasmo per la carriera 
letteraria intrapresa dalla figlia; la Deshpande racconta che dopo aver letto 
i suoi primi due romanzi non fece alcun commento, né di approvazione né 
di critica.  
Il secondo fattore di condizionamento per quanto riguarda la sua 
carriera è da ricercare nel tipo di formazione avuta: ha ricevuto 
un'educazione inglese, cosa alquanto strana per quel periodo, dato che 
era abitudine diffusa che i genitori mandassero i figli in scuole nelle quali si 
apprendevano la lingua e la cultura della regione di appartenenza. 
Nonostante ricevesse un'educazione di stampo occidentale e leggesse, 
quindi, i classici della letteratura inglese, quali Jane Austen, le sorelle 
Bronte, Dickens, George Eliot, Hardy, a casa aveva a disposizione anche 
opere di autori indiani, ma non ha mai studiato il marathi o il kannada, né 
tanto meno, ha usato queste lingue per scrivere racconti o romanzi; a 
questo proposito tende a puntualizzare che “you really need to have used 
a language before you presume to write in it”.
6
 
Ma il fatto di usare l’inglese come mezzo di espressione narrativa, 
le ha provocato non poche difficoltà, come scrive lei stessa: 
One of the problems I've had to face as a writer is the isolation one works in 
when one writes in English in India - an isolation that is emphasised when one is a 
                                            
5
 Da VISWANATHA VANAMALA, “A Woman's World …All The Way! (intervista)” cit. 
6
 HOLMSTRÖM LAKSHMI, “Shashi Deshpande talks to Lakshmi Holmström” in Wasafiri, 
17, primavera 1993, in PATHAK R.S. (a cura di), The Fiction of Shashi Deshpande cit., 
pp. 242-250. 
 6
woman. Writing in English in India, one feels sadly out of the mainstream. For me the 
problems amounted to this: there was nothing, nobody I could model myself on.
7
   
Sebbene la sua lingua sia l'inglese, quindi, non accetta di essere 
etichettata come "scrittrice indo-inglese", ma si ritiene indiana a tutti gli 
effetti; non si considera diversa da quegli scrittori che usano le lingue 
regionali e il fatto di usare l'inglese non la rende non-Indian
8
. L'unico 
particolare che la rende diversa dagli altri scrittori che vivono in India è il 
fatto che "my language just happens to be English"
9
. Ci tiene anche a 
precisare che quando scrive non immagina mai di rivolgersi a un pubblico 
occidentale ed è per questo motivo che l'India che viene fuori dai suoi 
romanzi e racconti non sembra mai un paese esotico che attira e 
incuriosisce gli occidentali. Ecco quindi che l'ampio uso di termini indiani, 
le scarse precisazioni sui luoghi, sulle abitudini e sulla cultura del popolo 
indiano, il fatto che incontriamo di rado personaggi del mondo occidentale 
testimoniano come la Deshpande si rivolga soprattutto (ma non soltanto) a 
un pubblico indiano. Lei stessa dice comunque che:  
Also literature can be appreciated even without understanding every word of it.
10
  
In un articolo pubblicato sul Sunday Times nell'aprile del 1995
11
, la 
                                            
7
 Da DESHPANDE SHASHI , “The Dilemma of The Woman Writer”, in The Literary 
Criterion, vol.20, num.4, 1985, in PATHAK R.S. (a cura di), The Fiction of Shashi 
Deshpande cit., pp.229-231 
8
 Da RITI M.D., “There's No Looking Back (intervista)”, in Eve’s Weekly, 18-24 giugno 
1988, in PATHAK R.S. (a cura di), The Fiction of Shashi Deshpande cit., pp.238-241 
9
 Da RITI M.D., “There's No Looking Back (intervista)” cit. 
10
 Da VISWANATHA VANAMALA, “A Woman's World …All The Way! (intervista)” cit. 
11
 DESHPANDE SHASHI, “Language no bar”, in http://ch.8m.com/shashi.htm. 
 
 7
Deshpande ritorna ancora sulla questione dell'uso della lingua inglese 
nella letteratura indiana; sostiene che la lingua della creatività non 
corrisponde necessariamente alla propria lingua d'origine e che per questo 
motivo un'opera dev'essere giudicata per il modo in cui è scritta e non per 
la lingua nella quale è stata composta. Ciò che si scrive è strettamente 
legato alle proprie origini, alla società nella quale si è cresciuti e si vive, 
all'educazione che si è ricevuta. Il fatto che si scriva in inglese non cambia 
assolutamente nulla. 
Si è detto che la terza motivazione che ha profondamente 
influenzato la carriera della Deshpande è stata quella di essere nata 
donna. Sebbene molti dei suoi racconti siano incentrati sul mondo 
femminile, sul modo di pensare delle donne, sui loro ruoli di 
figlie/mogli/madri, questo non fa di lei una femminista. O meglio, si 
considera tale perché le sue simpatie vanno a tutte quelle donne trattate 
ingiustamente e umiliate da una società maschilista e androcentrica. La 
sua idea di femminismo può essere riassunta da una frase di Simone de 
Beauvoir, "il fatto che siamo esseri umani è molto più importante del 
nostro essere uomini o donne". In un'intervista ha chiaramente espresso il 
suo desiderio, "I want to reach a stage where I can write about human  
beings and not about women and men"
12
.  
                                            
12
 Da VISWANATHA VANAMALA, “A Woman's World …All The Way! (intervista)” cit. 
 
 8
 
Le storie raccolte in "L'Intrusione e altri racconti" sono legate tra 
loro da una tematica comune: il bisogno della donna indiana di scrollarsi di 
dosso il ruolo di moglie e di madre e di affermare la propria indipendenza 
come essere umano. Tutte le protagoniste dei racconti sono colte in un 
momento di crisi con se stesse o, più spesso, con le persone che vivono 
attorno a loro. Nessuna è soddisfatta della vita che conduce, ma non tutte 
hanno il coraggio di ribellarsi alle imposizioni sociali.  
Ancora oggi la società indiana è molto legata ai vecchi tabù della 
tradizione; si pensi al codice di comportamento delle donne scritto da 
Manu, (probabilmente attorno al 500 A.C.) che ha contribuito a formare la 
psicologia dell'uomo indiano o all'enorme importanza che ha il mito nella 
cultura indiana contemporanea. 
Durante una conferenza tenuta nel 1997 a Zurigo
13
, Shashi 
Deshpande si è soffermata proprio sul ruolo del mito, che occupa una 
parte importante nella vita di ogni indiano perché le storie degli antichi 
poemi epici sono ancora oggi raccontate ai bambini, si ritrovano nelle 
canzoni o nei film. Il mito, insomma, è un punto di riferimento importante 
nella vita quotidiana ed è parte integrante della cultura indiana, tanto che i 
personaggi mitologici hanno contribuito a creare degli stereotipi difficili da 
estirpare; si pensi, ad esempio a Sita nel Ramayana, il cui nome è 
diventato sinonimo di moglie devota disposta a sacrificarsi per il bene e la  
                                            
13
 In http://ch.8m.com 
 9
felicità del marito. 
Ognuna delle protagoniste di questi racconti vive un forte contrasto 
interiore: da un lato c'è il desiderio di essere libere e indipendenti, dall'altro 
la difficoltà ad opporsi alle norme tradizionaliste e conservative. 
 
La protagonista del primo racconto, “La First Lady”, è la moglie di 
un politico. Nonostante avesse visto il futuro marito ad un comizio e fosse 
rimasta colpita dal suo patriottismo e dalla sua abilità di oratore, adesso il 
ruolo pubblico che è costretta a ricoprire la fa soffrire. C'è un forte distacco 
tra la sua personalità, la sua visione delle cose e della vita e l'immagine 
pubblica che deve dare di sé: è come se fosse costretta ad indossare 
continuamente una maschera, che le impedisce di condurre una vita 
basata sulla spontaneità e sulle cose semplici, che la obbliga a 
comportarsi in un determinato modo. Ecco, quindi, che mentre sta per 
entrare nella sala del ricevimento, si lamenta dicendo a se stessa, "[…] 
non ci voglio andare […]. Non voglio sorridere e stringere mani e dire cose 
insensate a persone di cui non mi importa niente"; risponde in modo 
meccanico ai gesti affettati dei presenti e si rende conto che è 
semplicemente "[…] una recita a cui prendiamo parte". Il culmine viene 
raggiunto quando la donna si rende conto di non sapere qual è il motivo 
per cui si tiene la cerimonia alla quale sta partecipando (la sua è solo una 
partecipazione fisica, ma per nulla mentale dato che sta fantasticando su 
altri episodi della sua vita); è addirittura costretta a chiederlo a uno degli 
invitati, pur "[…] sapendo che si stava rendendo ridicola".  
 10
Ma l'indifferenza e la noia di cui è vittima la protagonista non sono 
causate solo dal fatto che è costretta a ricoprire un ruolo che non le è per 
nulla consono. Si è resa conto che "[…] la vita ha perso ogni significato 
perché è fatta solo di cose insignificanti", che "[…] volere e avere sono 
diventate le parole chiave invece di sacrificio e rinuncia. E io l'inevitabile 
prefisso". Sicuramente si può far risalire questa apatia di cui è vittima al 
suo difficile, per non dire quasi inesistente, rapporto con il marito. Il loro è 
stato un matrimonio d'amore, a differenza di quanto accade ad altre 
protagoniste dei racconti successivi; la donna ricorda "[…] di come suo 
padre avesse acconsentito con riluttanza al loro matrimonio". Poi, dopo 
molto tempo, si era resa conto che "[…] l'uomo […] di cui era innamorata 
era incapace di amare un altro essere umano". E infine, dopo la nascita 
del terzo figlio, le aveva detto di volere vivere in castità: ecco che la donna 
è di nuovo costretta ad accettare in silenzio qualcosa che non condivide 
affatto. E, quasi fosse un modo per evadere dalla realtà nella quale si 
sente oppressa e ingabbiata, fa qualcosa di sua iniziativa e si rende conto 
di desiderare un altro uomo, non solo perché ne senta fisicamente 
bisogno, ma perché ha la necessità di sentirsi ammirata e desiderata. 
Adesso, mentre ritorna a casa dopo la cerimonia, ha difficoltà a ricordare 
che aspetto avesse il ragazzo di cui si era infatuata ed è felice che sia 
morto perché, almeno lui, non può vedere ciò che sono diventati, 
maschere egoiste, che non sono più alla ricerca delle cose vere e 
semplici, ma solo di cose materiali e assolutamente insignificanti. Si 
ricorderà di lui come "[…] il ragazzo che non sarebbe mai invecchiato, che 
 11
non avrebbe mai smesso di amarla", proprio come l'amante di Keats: 
  Bold Lover, never, never canst thou kiss,  
  Thouh winning near the goal - yet, do not grieve; 
  She cannot fade, though thou hast not thy bliss, 
  For ever wilt thou love, and she be fair!
14
 
Il finale è forse un po' grottesco: proprio quando lei trova il coraggio 
di dire al marito che soffre, lui non può più sentirla perché non ha più 
l'apparecchio acustico.  
 
Tematiche simili sono affrontate nel racconto intitolato “Un antidoto 
alla noia” dove, anche in questo caso, la protagonista è una donna 
sottomessa, che si sente trascurata dal marito, un uomo estremamente 
rigido e abitudinario del quale lei conosce ogni gesto, "[…] sapevo che 
cosa avrebbe fatto […] dopo mangiato. Si sarebbe lavato le mani, 
sciacquato la bocca e seduto con il giornale per cinque minuti esatti […]. 
Terminati i cinque minuti, avrebbe preso la borsa e dicendo 'Ci vediamo 
stasera', sarebbe uscito. E la sera? Sapevo che cosa sarebbe successo. 
[…]". La cosa più terribile, però, è che il marito è totalmente indifferente 
alle emozioni della moglie, "[…] la mia noia e la mia scontentezza non lo 
avevano neppure sfiorato […]". Questa noia, che la protagonista descrive 
come "[…] un crimine imperdonabile", unita al "[…] demone della 
scontentezza […]" e probabilmente anche a una sorta di paralisi sessuale 
                                            
14
 KEATS JOHN, Ode on a Grecian Urn, in Poesie, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1983, 
pp.72-77 
 12
tanto che "[…] anche fare l’amore diventava solo un altro obbligo 
domestico", la spingono, in un certo senso, a intraprendere una relazione 
con un altro uomo. L'insoddisfazione per i rapporti sessuali è un tema 
spesso presente in questi racconti ed è riconducibile a cause diverse, 
come la decisione di uno dei due coniugi di condurre una vita casta (“La 
First Lady”), la passione impari (“L'intrusione”), la routine e, non ultimo, il 
considerare il corpo femminile come proprietà dell'uomo, privandolo così 
di ogni dignità umana.  
E' proprio attraverso la relazione che la donna ritrova la gioia di 
vivere, tanto che il solo "[…] pensiero di incontrarlo mi stimolava a vivere 
con più intensità", scopre il piacere di comprare dei sari che potessero 
piacergli, di essere desiderata e soprattutto scopre che i baci non erano 
"[…] una prerogativa dei giovani, delle persone nei libri e nei film. […] 
avevo scoperto che un bacio poteva contenere lo stesso piacere e la 
stessa eccitazione di qualunque altra cosa possa accadere tra un uomo e 
una donna". 
Se in un primo momento teme che il rapporto possa essere "[…] 
solo un antidoto alla noia, qualcosa che mi piaceva per l’eccitazione che 
portava nella monotona routine dei miei giorni, nell’immutabile schema 
della mia vita", ecco che quando alla fine deciderà di troncare questa 
relazione si renderà conto "[…] che non era stato affatto un antidoto alla 
noia, ma la parte migliore della mia vita […]", l'unico momento nel quale si 
era sentita amata e desiderata come donna. 
Quando la relazione viene scoperta, decide di lasciare l'amante e di 
 13
tornare ad essere la moglie docile e sottomessa che era sempre stata. Le 
manca il coraggio della Nora di Ibsen, che andandosene sbattendo la 
porta, esprime la necessità di crearsi una propria identità in quanto essere 
umano. La protagonista del racconto, invece, decide di restare quando per 
un attimo si rende conto "[…] che lui sapeva, che gli importava […]", 
nonostante sia ben consapevole che tutto ritornerà ad essere noioso e 
abitudinario come prima.   
Il titolo, quindi, è ovviamente ironico, dato che questa relazione non 
è stata affatto un antidoto per combattere la noia della vita matrimoniale, 
ma qualcosa di molto più significativo. 
  
Nel racconto “Perché un pettirosso?”, apparso per la prima volta 
nella raccolta The Legacy (1978), vediamo la donna nel duplice ruolo di 
madre e di moglie; in entrambi i casi si sente inadeguata, ha paura di 
essere respinta sia dalla figlia adolescente che dal marito, dice di non 
avere "[…] la chiave per aprire il cuore di questa […] bambina" né quello di 
"[…] suo padre. E' come se io, nella mia casa, fossi messa di fronte a due 
stanze chiuse. Sono condannata a sedermi fuori e a fissare impotente le 
porte chiuse". E questo concetto viene di nuovo ribadito più avanti, "[…] 
un'estranea nella mia stessa casa", al quale si aggiunge una domanda 
piena di angoscia, "[…] sono loro che mi hanno chiusa fuori o sono io che 
mi sono chiusa dentro?".  
E' una donna che non riesce a trovare un'identità all'interno della 
famiglia, che si rende conto di essersi annullata fino all'estinzione, fino a 
 14
rendersi invisibile, perché non ha mai avuto alcun desiderio, o meglio, pur 
avendolo avuto non ha mai trovato il coraggio di manifestarlo. Come 
quando vorrebbe accarezzare la figlia, "[…] passare le mani sul suo collo 
[…]", o sedersi accanto al marito per ascoltare la musica. Ma non ha mai 
fatto nulla di tutto questo per paura di venire respinta e si era convinta che 
"[…] apparteniamo a specie diverse. Io sono un'intrusa. Non è questo il 
mio posto".  
Si rende conto, invece, di come la figlia vada molto d'accordo con il 
padre: è a lui, infatti, che si rivolge per chiedere informazioni sul pettirosso 
ed è lui che chiama quando si sveglia di notte.    
Si è parlato di una duplice inadeguatezza della donna, in quanto 
madre e in quanto moglie: il malessere di questa donna è racchiuso in una 
frase, "[…] sono piena di sensi di colpa […]. Sono un fallimento - come 
moglie, […]come madre. Tra mio marito e me c'è un vuoto - addirittura non 
litighiamo mai. E con mia figlia sono un'incapace". Nei confronti della figlia 
si sente inferiore non soltanto da un punto di vista fisico, ("[…] come ho 
fatto, io così normale, così comune, ad avere una figlia come lei? La sua 
bellezza mi provoca sempre una certa sofferenza. E mi rattrista. Tutto 
questo ci allontana"), ma anche perché, data la sua ignoranza, non è in 
grado di aiutarla a fare il compito che l'insegnante ha assegnato, e questo 
fa sì che la figlia cerchi rifugio e aiuto dal padre. Anche la figlia, dal canto 
suo, non permette che la madre le si avvicini: la guarda in modo 
sprezzante, non vuole sapere nulla del pavone di cui la madre desidera 
tanto parlarle e non vuole neanche che la madre le spieghi quali saranno i 
 15
cambiamenti a cui andrà incontro il suo corpo quando diventerà una 
donna; anche in questo caso la ragazzina le risponde altezzosa, rifiutando 
la figura materna, dicendo "[…] pooh! Quella roba! Chi non lo sa?". 
Anche con il marito non ha nulla in comune, e alla base del loro 
matrimonio c'è una totale indifferenza: "[…] si arrabbia di rado. Ma i suoi 
silenzi, più eloquenti di qualunque collera, mi raggelano". La moglie non 
ha il coraggio di chiedere nulla al marito, né il motivo per cui l'ha sposata, 
né il permesso di sedersi con lui ad ascoltare la musica. L'unica cosa che 
le resta da fare è immaginare di parlargli mentre lui dorme, "[…] riesco 
quasi a immaginare di andare da lui, di parlargli senza inibizioni, senza 
paure". E' significativo che paragoni il suo rapporto con il marito a "[…] 
due isole che non possono essere collegate da nulla. Nemmeno dalla 
bambina. Nemmeno dal ponte della passione". Poi, però, si fa strada 
dentro di lei la consapevolezza che "[…] i ponti devono essere costruiti. 
Non escono fuori dal nulla, devono essere creati". Forse è impossibile 
riuscire a collegarsi di nuovo (o forse per la prima volta?) al marito, ma lo 
può fare con la figlia, con la quale può condividere la difficoltà di essere 
donna. Sarà proprio la sofferenza provocata dalla prima mestruazione e la 
consapevolezza di essere ormai una donna che spingerà la ragazzina a 
cercare il conforto della madre. Il ponte viene costruito quando la madre 
sente che "le […] dita stringono la mia mano", quando le racconta che 
anche lei aveva sofferto nel diventare una donna, quando trova il coraggio 
di raccontare la sua esperienza di bambina con il pavone, quando la figlia 
le chiede "perché non un pavone?" e la madre risponde "perché non un 
 16
pettirosso?". Ecco che ora la madre non è più un essere invisibile perché 
ha avuto il coraggio di ribellarsi alla sua condizione di intrusa e di 
estranea, rifiutando quel ruolo marginale che lei stessa aveva contribuito a 
crearsi.  
   
Anche “Il mio amato auriga”, apparso per la prima volta nella 
raccolta intitolata It was Dark (1986), affronta pressappoco le stesse 
tematiche che sono presenti nel racconto appena analizzato; anche qui, 
infatti, la voce narrante è quella di una donna vista nel ruolo di madre e 
moglie e anche in questo caso il rapporto madre/figlia è pressoché 
assente, così come quello moglie/marito, ma è molto salda l'unione 
padre/figlia. In questo racconto però viene introdotto un nuovo 
personaggio, quello di Priti, la nipotina della narratrice. 
 L'unica cosa che accomuna madre e figlia è la loro condizione di 
vedove, "[…] avevo sempre pensato di essere molto diversa da te. E 
guardaci adesso, siamo identiche. Due vedove", dice Aarti alla madre. 
Dopo la morte del marito si è chiusa in se stessa e ha rifiutato perfino il 
suo ruolo di madre: non la vediamo mai, infatti, rivolgere gesti affettuosi a 
Priti, anzi si comporta come se non esistesse o la tratta con estremo 
distacco e durezza, come quando dopo averle chiesto se si ricorda del 
padre le risponde bruscamente che non crede affatto a quello che ha 
detto, o, ancora, quando si rifiuta di rispondere alle domande che la figlia 
vorrebbe porle.  
Aarti e la madre affrontano la vita in modo molto diverso: la prima è 
 17
profondamente aggressiva, non solo nei suoi atteggiamenti verso coloro 
che le stanno accanto, ma anche verso la gente che vede per strada o nei 
gesti quotidiani ("[…] beve il tè con ingordigia […]"). La madre, al contrario, 
rappresenta la pativrata, la moglie sottomessa e schiavizzata che 
sopporta in silenzio ogni angheria messa in atto dal marito-tiranno che 
"[…] odiava le lacrime. E così quando i tuoi fratellini sono morti, ho pianto 
da sola in silenzio. Mi pettinavo prima che si alzasse perché non amava 
vedere le donne con i capelli […] sciolti. […] E di notte dormivo con la 
paura di alzarmi a prendermi un bicchiere d'acqua, addirittura di tossire. 
Quando mi voleva diceva 'Vieni qui' […]. E quando aveva finito diceva 
'puoi andare' […]". 
Sarà la piccola Priti a fare in modo che le due donne si riavvicinino, 
sarà lei l'auriga che guiderà la nonna a recuperare la stima della figlia. 
L'innocente domanda che Priti rivolge alla nonna, "Mio nonno? […] E chi 
era per te?", sarà la stessa che la madre rivolgerà ad Aarti, "[…] sì, tuo 
padre, ma per me cos'era?", permettendo così alla figlia di conoscere la 
vera personalità del padre che tanto ammira. 
Nel titolo c'è un chiaro riferimento mitologico: nel poema epico del 
Mahabharata, Arjuna viene spronato a non perdersi d'animo durante 
l'epica battaglia di Kurukshetra dal dio Krishna, suo auriga
15
.  
 
                                            
15
 HOLMSTRÖM LAKSHMI (a cura di), L'India segreta: racconti di scrittrici indiane, 
Milano, La Tartaruga, 1999, 2ªedizione ( titolo originale: The Inner Courtyard, Virago 
Press Ltd, 1990)