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nell’erario (non è difficile notare somiglianze con la tanto decantata trasparenza 
dell’amministrazione pubblica dei nostri giorni). La legge fu elogiata dallo stesso Cicerone, ma 
numerose testimonianze dimostrano che essa non fu rispettata2. 
   Insomma la storia delle riforme della pubblica amministrazione ha padri molto più celebri del 
Senatore Bassanini e del Ministro Brunetta e di antica tradizione sono, purtroppo, anche i giudizi 
(oggi molto spesso anche pregiudizi) che ricadono sulle amministrazioni con l’impeto della 
cascata del malgoverno e della corruzione. 
Certo non tutte le amministrazioni sono corrotte e non tutti gli impiegati svogliati “timbra-
cartellini” e posso affermare per mia esperienza personale che ci sono persone valide e 
competenti  che prendono il loro lavoro sul serio e cercano di risolvere i problemi della 
cittadinanza come se fossero i propri. E’ proprio dal mio stage nell’Area Comunicazione del 
Municipio VIII del Comune di Roma che è nato questo progetto: dare ai cittadini la possibilità di 
giudicare l’operato del Municipio attraverso un’indagine di customer satisfaction. 
   Sembra incredibile ma prima delle riforme degli anni ’90 era quasi esclusivamente a 
discrezione dell’impiegato pubblico fornire gli atti e i documenti di cui il cittadino aveva bisogno 
e non c’era una legge che ne sancivano in modo specifico e dettagliato le modalità.  
Attraverso la teoria della valutazione e l’analisi delle due riforme più importanti degli ultimi 
vent’anni viene introdotto il nuovo termine della customer satisfaction dove i cittadini possono (e 
devono!) far sentire la loro voce. Lo hanno fatto quelli del Municipio delle Torri, che versa in 
particolari situazioni di disagio, rispondendo al questionario che gli è stato somministrato e i 
risultati possono essere un ottimo punto di partenza per le future politiche di sviluppo del 
territorio. 
   I mezzi per far sentire la propria voce sono alla portata di tutti (comitati di quartiere, Uffici di 
Relazione col Pubblico, e-mail e Call Center dei comuni), ma come al solito bisognerà vedere se 
il processo di “semplificazione” che si sta portando avanti procurerà un effettivo miglioramento 
nella vita dei cittadini. Molto c’è da fare, e credo che un buon punto di partenza potrebbe essere 
iniziare a comprendere e utilizzare gli strumenti che abbiamo a disposizione giudicandoli in base 
al loro valore pragmatico e non per il simbolo politico della cartellina da cui provengono. 
 
 
 
 
                                                           
2
 Cfr. L. Perelli, La corruzione politica nell’antica Roma, BUR, Milano, 1994, p. 164. 
7 
 
1. LA PRATICA DELLA VALUTAZIONE 
1.1. Cosa si intende per valutazione 
 
   Possiamo definire la “valutazione” come un’attività tesa alla produzione sistematica di 
informazioni per dare giudizi su azioni pubbliche, con l’intento di migliorarle.  Si tratta di una 
definizione assai poco restrittiva che, proprio per questo motivo, ha il pregio di adattarsi alle 
molteplici interpretazioni che vengono attribuite a tale termine in seno alla pubblica 
amministrazione. Vediamo quali ne sono gli elementi costitutivi più importanti.  
    In primo luogo, questa attività prevede l’uso di strumenti d’analisi mutuati dall’esperienza delle 
scienze sociali. L’aggettivo sistematica riferito a produzione di informazioni allude proprio al suo 
fondamento empirico ed analitico: essa si basa sull’osservazione della realtà, condotta attraverso 
procedure condivise da una comunità scientifica di riferimento. In questo senso si distingue dal 
pronunciamento di un giudizio puramente personale e soggettivo - come ad esempio avviene 
quando si giudica la squisitezza di un piatto o la bellezza di un’opera d’arte – che si fonda 
sull’esistenza di gusti ed interessi individuali, che trascendono completamente il metodo scientifico.  
   In secondo luogo, la valutazione comporta l’espressione di un giudizio basato su un qualche tipo 
di confronto. Possiamo anzi affermare il principio che senza un confronto non si può avere 
valutazione. Il problema sta quindi nel chiarire qual è il termine di confronto utilizzato per 
formulare tale giudizio, perché è stato adottato proprio tale termine e come si è giunti alla sua 
costruzione. A volte (assai raramente) il termine di confronto è facilmente individuabile, in quanto 
viene dichiarato dagli stessi decisori pubblici in qualche documento ufficiale. Molto più spesso tale 
termine è implicito, ambiguo, difficilmente riconoscibile, e neppure esprimibile attraverso un 
semplice numero. Sta all’abilità del valutatore individuare, proporre e trovare le argomentazioni 
giuste per far accettare come credibile un determinato termine di confronto.  
   In terzo luogo, la valutazione incorpora un fondamentale intento migliorativo dell’azione 
pubblica. L’essenza stessa della valutazione sta tutta nel suo essere orientata all’azione o, ancor 
meglio, alla decisione. La volontà di incidere sul processo decisionale pubblico costituisce la vera 
ragion d’essere di tale attività: ogni valutazione nasce per produrre risultati analitici utilizzabili da 
chi decide. La missione di ogni valutatore consiste nell’aiutare chi ha responsabilità decisionali ad 
assumere scelte più informate e consapevoli.  
Da ciò discende che la valutazione deve essere ritagliata sulle particolari esigenze conoscitive che 
alcuni individui nutrono nei confronti dell’intervento che viene indagato: di volta in volta il 
8 
 
valutatore costruisce (o dovrebbe costruire) la sua stessa strategia di analisi, partendo dalle domande 
che, in quel particolare contesto, alcune ben identificate persone si pongono. Egli deve perciò avere 
sempre ben chiaro in mente quale utilizzo essi possono fare delle risposte.3  
   A questo punto è possibile precisare l’oggetto della valutazione al fine di mettere in luce gli 
aspetti più rilevanti. Esso è infatti costituito, in via principale ma non certo esclusiva, da: 
 
politiche pubbliche, programmi o interventi che rispondono ad esigenze o bisogni collettivi, 
complessi sotto il profilo sia del processo decisionale, sia di quello dell’implementazione, che 
mirano ad incidere (o a erogare un servizio, a provocare un mutamento) su popolazioni di 
riferimento più o meno vaste, ma comunque “altre” rispetto ai decisori (e agli attuatori), 
utilizzando a tal fine procedure e strutture operative specifiche e un set di incentivi 
rivolti a ottenere un comportamento conforme a quello atteso.4 
 
La definizione di politica pubblica  proposta ruota attorno ad alcuni termini chiave, che permettono 
di cogliere le diverse dimensioni disciplinari implicate dalla valutazione. Come si è anticipato, 
infatti, la titolarità pubblica degli interventi oggetto di valutazione assegna un ruolo importante alle 
scienze politiche e dell’amministrazione; il fatto che siano riferite a esigenze o bisogni richiede 
competenze sia di economia che di sociologia (nonché di altre scienze umane pertinenti per gli 
aspetti specifici di tali bisogni), al pari del fatto che ogni set di incentivi (positivi o negativi) implica 
una teoria dell’azione; la complessità dei processi decisionali e attuativi o il fatto che questi siano 
messi in atto da strutture o agenzie specifiche chiama in causa, oltre alle discipline politologiche e 
amministrativistiche, anche le scienze dell’organizzazione, mentre l’incidenza su popolazioni 
“altre” richiama la necessità di analisi sociali ed economiche non solo sui bisogni che giustificano le 
policies, ma anche sugli effetti che queste producono. 
   In termini generali, qualsiasi politica pubblica riguarda l’intera collettività che corrisponde al 
livello di governo che la assume (da comunale a comunitario) è ovvio che la valutazione interessa 
tutti i cittadini, quale che sia la politica specifica che ne costituisce l’oggetto. 
Una politica o un intervento sono di norma: diversi dai decisori e dagli attuatori e abbastanza 
numerosi da non permettere un feedback diretto con i diretti interessati. Per queste ragioni i 
decisori/attuatori non sono normalmente in grado di conoscere adeguatamente gli effetti dei loro 
interventi sui beneficiari e sulla società in generale; al più potranno conoscere gli output degli 
interventi. 
                                                           
3
 Cfr. A. Martini, M. Sisti, Le (molte) logiche della valutazione, “Articoli e Working Paper. Associazione Italiana 
Valutazione”, 2009. 
4
 M. Palumbo, Il processo di valutazione. Decidere, programmare, valutare, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 111. 
9 
 
La necessità di rilevare gli effetti di un programma o di un intervento su popolazioni “altre”, di 
solito consistenti, produce la necessità di usare gli strumenti e le tecniche della ricerca sociale per 
rilevarli. L’ampiezza dell’area d’indagine della ricerca valutativa varia in relazione al suo specifico 
interesse. Di norma, si possono distinguere tre popolazioni da analizzare, di estensione crescente:  
a) i destinatari effettivi di un intervento, ossia coloro che hanno effettivamente beneficiato del 
servizio; 
b) i destinatari potenziali, definiti anche come “popolazione di riferimento”, target o “utenza 
potenziale”, ovvero tutti coloro che possedevano i requisiti soggettivi per beneficiare 
dell’intervento, al di là del fatto che l’abbiano realmente utilizzato; 
c) la più ampia popolazione (al limite l’intera collettività che risiede sul territorio di 
competenza del titolare della politica pubblica, comune, regione ecc.) che in qualche modo è 
stata influenzata dall’intervento in esame. 
Anche se i decisori o gli attuatori di un programma o di un intervento non necessariamente 
possiedono le informazioni necessarie per valutare i suoi effetti, come precedentemente detto, 
questo non significa che non posseggano alcuna informazione. Trattandosi di programmi pubblici, 
essi sono in ogni modo riconducibili ad organismi elettivi: dunque i canali della rappresentanza 
politica o degli interessi sociali ed economici (partiti, sindacati, associazioni di categoria, 
associazioni di consumatori) possono restituire al livello politico (decisionale o attuativo) un 
feedback sugli esiti dei programmi stessi. Tuttavia la ben nota crisi di rappresentatività di molti 
partiti, sindacati e associazioni d’interessi rende sempre meno praticabili questi canali, che 
comunque privilegerebbero solo i soggetti che prendono attivamente parte al processo politico e 
non tutti quelli potenzialmente interessati ai suoi esiti. Questo processo sicuramente svantaggerebbe 
le popolazioni più estranee e lontane dalla fruizione dei canali sopra citati, specialmente in zone più 
problematiche dal punto di vista socio-culturale come quella analizzata dallo studio che sarà 
presentato successivamente. Quindi la valutazione è da un lato necessaria per fornire giudizi 
“obiettivi” sugli esiti delle policies, ma anche, dall’altro lato, sempre più utile come feedback sui 
pubblici poteri quando i canali tradizionali di espressione degli interessi dal livello sociale ed 
economico a quello politico perdono incisività.5  
   Quanto detto finora ci fa capire come la valutazione sia un’attività di ricerca sociale al servizio 
dell’interesse pubblico,in vista di un processo decisionale consapevole: si valuta per sapere non solo 
se un’azione è stata conforme ad un programma esistente, ma anche se il programma è buono. Si 
tratta di un procedimento messo in moto da una domanda di valutazione da parte di un committente 
                                                           
5
 Cfr. op. cit. pp. 112-132  
10 
 
pubblico. Esso si articola in un disegno della valutazione (proposto dal valutatore al committente, e 
concordato tra essi) e una ricerca empirica (fatta dal valutatore, a cui possono partecipare a vario 
titolo rappresentanti del committente e degli utenti); e infine sfocia in una discussione dei risultati e 
una proposta al pubblico. La valutazione risponde ad un’esigenza di una società democratica che 
vuole conoscere le proprie capacità nel fornirsi dei beni e dei servizi di cui ha bisogno, e che 
affronta difficoltà e limiti imparando dalla propria esperienza. 
   Nei paesi che hanno dato vita per primi a questa esperienza si è subito pensato che la valutazione 
avrebbe dovuto svolgere per lo stato una funzione di controllo della efficienza nella erogazione del 
servizio pubblico resa indispensabile dall’assenza del vincolo di mercato. Nel nostro Paese, 
nonostante gli ampi scopi di redistribuzione e di giustizia sociale tuttora attribuiti allo Stato, 
l’influenza traboccante di un diritto amministrativo che ha radici antiche ha allontanato la sua 
introduzione, e si sono avuti per lungo tempo solo controlli formali e di legittimità delle procedure, 
considerando il risultato come semplice conseguenza, e l’efficienza come un mero dato tecnico 
immodificabile. 
   Di recente, tuttavia, la situazione ha subìto una svolta significativa. Nel settore privato la 
tradizionale impostazione fordista della produzione di massa standardizzata è stata sostituita da una 
nuova attenzione per il miglioramento di tutti gli aspetti della produzione e la soddisfazione di un 
consumatore individualizzato. La nuova filosofia della specializzazione flessibile ha reso di 
conseguenza più esplosivo il problema della inefficienza del settore pubblico. Mentre le politiche 
pubbliche,di carattere normativo e sostantivo, sono diventate più complesse ed articolate, rigidità di 
bilancio e corporativismi di vario tipo hanno creato condizioni generali di impotenza che ormai 
contrastano visibilmente con gli stessi princìpi di solidarietà sociale nel cui nome sono state finora 
tollerate. Di qui l’urgenza di adottare pratiche di valutazione, pena il soccombere al giudizio 
implicito che non sia possibile alcun miglioramento. 
   Non si tratterebbe, comunque, di inserire un corpo estraneo, ma di favorire tendenze che sono già 
all’opera nel panorama del servizio pubblico. Esistono infatti situazioni di migliore o peggiore 
qualità dei servizi, di maggiore o minore soddisfazione degli utenti, perfino di diversa disponibilità 
dei funzionari ad essere valutati. Normalmente si ritiene che i funzionari abbiano paura di essere 
valutati e che il loro ostruzionismo possa costituire un ostacolo quasi insormontabile. Ma non è 
sempre così. Ci sono molti funzionari che lavorano bene e che vorrebbero essere valutati per far sì 
che il loro esempio si espandesse e per sentirsi meno soli. Ma si può anche fare un ragionamento 
inverso. Come ricorda Carol Weiss6 i programmi che vengono valutati sono di solito quelli che 
                                                           
6
 Cfr. C. Weiss, How can theory-based evalutation make greater headway?, in “Evaluation Rewiew”, vol. 21, n.4