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Il colore dei suoni. Un incantesimo percettivo.

Sinestesia e cinema

Il cinema è una forma artistica relativamente recente (per quanto il tentativo di rappresentazione e di cattura dell’immagine in movimento abbia rappresentato un’ossessione costante nella storia del genere umano), merita un discorso a parte, data la sua natura di testo polisemico.

Il film, infatti, nasce già di per sé come forma sinestetica, poiché esso è un luogo dove le informazioni auditive e visive si combinano e si supportano reciprocamente. Facendo riferimento alla teoria della Gelstat, André Souris osserva infatti che il carattere morfologico essenziale del film risiede probabilmente nel suo potere di unificazione.

Il rapporto prevalente e più manifesto nel film è quello tra musica ed immagini, anche se, come vedremo in seguito, il cinema possiede la capacità di colpirci multisensorialmente, coinvolgendo nella visione anche sensi diversi dalla vista e l’udito, pur non stimolandoli direttamente.

Il primo punto della trattazione riguarda quindi la relazione tra suono ed immagine nel cinema, ed in particolare la funzione della musica nel film. Oggi si parla comunemente di colonna sonora, piuttosto che di musica da film, proprio a sottolineare come il rapporto tra le due arti non sia gerarchicamente strutturato come si potrebbe pensare: la musica ed il film procedono di pari passo, in una direzione che era in qualche modo già stata anticipata da Wagner e dall’uso del Leitmotiv che, come si è visto nel precedente capitolo, permetteva di inserire il termine musicale in maniera coerente e sinesteticamente efficace nel fatto rappresentativo.

D’altra parte un altro autore sopra citato, Debussy, con la sua musica impressionista ha creato uno stile di riferimento per il cinema che come forma d’arte, desidera ottenere un accordo, seppure sfumato ed evocativo, tra narrazione ed immaginazione. Il testo filmico è sempre stato un discorso imprescindibile dalla musica, ben prima dell’avvento del sonoro; fino al 1927, anno del primo film sonorizzato, The jazz singer, la musica è considerata una parte essenziale del film stesso, non tanto per coprire il rumore del proiettore o imporre il silenzio in sala, focalizzando l’attenzione degli spettatori, come pure è stato spesso affermato, quanto per colmare un vuoto percettivo. Scrive infatti Jean Mitry:

“A causa del suo carattere irreale, il film muto era incapace di far sì che lo spettatore provasse un reale senso di durata. Il tempo vissuto dai personaggi del dramma, i rapporti temporali tra inquadrature e sequenze, erano tutte cose perfettamente riconosciute, ma capite più che percepite. Mancava al film una sorta di pulsazione che permettesse di misurare interiormente il tempo psicologico del dramma, raffrontandolo con la sensazione del tempo reale. […] La musica forniva allo spettatore la sensazione di una durata effettivamente vissuta.” (1965, II, p.117).

La musica quindi facilita nello spettatore del cinema muto la percezione emotiva del tempo. Uno dei primi grandi problemi che il film deve affrontare con l’avvento del sonoro è quello della sincronizzazione tra musica, suono ed immagini, ma anche fra gesto e rumore; sarà proprio il cartone animato, ed in particolare quello di Walt Disney, a realizzare per primo quello che tecnicamente si chiama sincronismo, inizialmente chiamato mickeymousing, dal celebre topo del disegnatore americano.

La qualità dell’intervento della musica nel film viene comunemente definita secondo la terminologia fornitaci da Chion, ovvero musica diegetica, o musica da schermo, che è musica identificata dallo spettatore, in quanto emanata da una fonte presente o suggerita nell’azione, e musica non diegetica, chiamata anche musica da buca, in riferimento ad un’orchestra immaginaria, e, come deducibile, è una musica di cui visivamente non possiamo identificare la fonte.

La funzione della musica poi può essere empatica, cioè che partecipa direttamente alle emozioni del personaggio, prolungandole ed amplificandole, non empatica, che quindi è indifferente nei riguardi della situazione emotiva presentata sulla scena, ed infine di contrappunto didattico, ovvero come si legge nelle parole di Chion, una musica “utile a dare un significato ad un concetto, a un’idea complementare.” (Chion, 1995, p.189). Un esempio portato dall’autore è quello dell’intervento inatteso di Danubio blu in 2001 Odissea nello spazio. Infine si parla di pleonasma, quando la musica fa ricorso a forme di mimetismo, cioè quando pur riducendosi alla mera funzione narrativa, consegue in realtà un altro risultato, quello di produrre enfasi.

In generale, quando il cinema utilizza la musica, sia essa preesistente o composta appositamente per il film, le connotazioni storiche, sociali, culturali ed emotive che ogni brano e ogni suono contiene sono ricostruite e rielaborate dallo spettatore in maniera eminentemente soggettiva, in base alla propria cultura, certamente, ma specialmente in base alle proprie esperienze e al modo in cui la propria mente si rappresenta, struttura e da significato a quanto viene percepito dall’occhio e dall’orecchio.

Questo brano è tratto dalla tesi:

Il colore dei suoni. Un incantesimo percettivo.

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Informazioni tesi

  Autore: Alessia Benincasa
  Tipo: Laurea II ciclo (magistrale o specialistica)
  Anno: 2009-10
  Università: Università degli Studi Suor Orsola Benincasa - Napoli
  Facoltà: Scienze della Comunicazione
  Corso: Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale
  Relatore: Ornella De Sanctis
  Lingua: Italiano
  Num. pagine: 143

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